UN ARMENO
A ROMA
di Marco Di Capua
“Un braccio è anche una linea che taglia lo spazio…L’arte
è sempre astratta.”
(Alfonso Avanessian)
Patti chiari: non farò nessun viaggio in Armenia, come invece,
tanto per dire, lo fece Osip Mandelstam. E non c’è
nemmeno un viaggio dall’Armenia, qui, almeno non nel senso
di favola amara e di cose perdute e poi ricercate e mai più
ritrovate come nella vita breve di Vosnadin Agoian alias Arshile
Gorky. Perché se provi a chiedere a Avanessian della sua
nascita a Teheran e della sua origine armena, se cerchi di vedere
proprio quel film che dall’inizio ti scorre nel cervello con
la speranza, anzi con la certezza matematica di beccare così
il giusto attacco per raccontare questo pittore, tanto che magari
già te lo immagini su quello sfondo esotico e avventuroso,
ti accorgi subito di aver sbagliato strada. Da lì non vai
da nessuna parte. C’è uno stop laggiù. Al massimo
ti ritrovi proprio come Avanessian che nel 1971 tornò in
Persia e si ritrovò a viaggiare con tanto di macchina e autista
per montagne brulle e desertiche. Cercava di ricordare anche lui
qualcosa della sua infanzia, perfino con un certo impegno bisogna
dargliene atto. Che so una scena o anche solo un colore… E
invece nulla: montagne e deserti. Guardati con perplessità.
Li dipinse anche, quei paesaggi vuoti. E a me piacciono molto:
qualsiasi sia il principio, io non mollo e parto da qui, da questo
dolce disorientamento e tonalissimo nulla per capire i quadri di
Alfonso. Comunque, niente di leggendario, non so se mi spiego. Tanto
che ho perfino insistito: ma insomma non un odore o un sapore da
citare? La mente di un pittore trattiene e ricicla tutto, in fondo.
E’ simile a una pellicola duttile, impressionabilissima. “Sì,
mi ricordo un odore – dice mezzo ispirato Avanessian, mentre
in realtà ti sta rigettando in alto mare sperando che tu
e l’Armenia affoghiate definitivamente – anzi per la
verità era una specie di puzza, quella del petrolio, la si
sentiva dappertutto, però non per via dei pozzi, macché:
il petrolio lo si usava in casa per scaldare, cucinare, cose così…”.
Ok ok, ho afferrato, strada chiusa. Facciamo retromarcia e usciamo
di qui, prima che ci sparino pure addosso.
Allora ricominciamo da capo. Perché a capo di tutto non
ci sono l’Armenia né la Persia, peccato, ma Roma. Ti
diventa chiaro dopo un po’: l’infanzia e l’adolescenza
vissute con un senso di estraneità, soprattutto nei confronti
dell’ambiente cosmopolita di Teheran, sono come uno schermo
spento. Proprio del colore di uno schermo quando è spento,
a voler essere esatti. Scene, colori, figure, suoni, personaggi,
architetture, luci, insomma tutta la regia e la scenografia e perfino
il casting li ha curati Roma. Ha acceso e riempito tutto quello
schermo. Con un impercettibile preavviso di sé. Appena un
fruscìo. E’ quando, giovanissimo, Alfonso sfoglia un
catalogo con le immagini dei quadri di Camille Corot. L’Italia,
Roma, un addio alle origini, quindi la Francia, l’arte moderna,
i colori, gli ocra e gli azzurri, gli alberi bucati e lacerati dal
cielo e naturalmente i cieli chiari e luminosi, insomma tutto il
variopinto fiume delle suggestioni che avrebbe trasportato via Avanessian
era già lì, in poche pagine, in qualche fotografia:
Corot. Se ogni artista possiede una speciale divinità di
riferimento, oltreché un pantheon popolato da un sacco di
dei e semidei, quella di Avanessian si annunciò con piccoli
passi. Leggerissimi.
Quand’ero ragazzo, una delle cose che più mi colpivano
di Monet era la sensazione netta che in quei quadri lì, se
per assurdo avessi potuto toccarli con forza, la mia mano sarebbe
facilmente sprofondata, senza trovare ostacoli. C’è
sempre qualcuno che alleggerisce il mondo, se ci pensi. Meno male.
Dove gli altri vedono masse, volumi, pesi, eterne geometrie e ombre
cadute loro scorgono invece superfici liquide, foglie che si muovono,
sagome irregolari, lame chiarissime, capricci volatili, venti volubili,
vibrazioni, nuvole flottanti, forme fuggevoli, intrecci di flash…
E’ una questione di carattere, di temperamento, di occhio,
di cultura. Da questo punto di vista, come Avanessian ce ne sono
molti. Si tratta di una bella stirpe.
Però a me torna in mente soprattutto Filippo de Pisis. Il
Marchesino. Quello che dipinge, ma anche quello che scrive poesie.
Le quali a Eugenio Montale, che scrive poesie ma dipinge, anche,
“sembrano tradotte dal cinese, da un originale inesistente”.
Come L’alloro: “E’ per me questo rametto secco/
d’alloro sul lastrico grigio./ Mi curvo a raccoglierlo,/ può
servire per l’intingolo della trota./ Nessuno mai mi cingerà/
di una corona verde la tempia./ Per me bastan queste umili foglie./
Un profumo di bosco, atterrato, / voli di tordi nell’aria
di ametista/ e il mio cuore sì lieve stasera/ con le sue
belle ali di vento”. In fondo, ti dici, questo è il
nostro novecento. Frugale e luminoso. E se leggi quella poesia e
intanto guardi queste nature morte e questi interni che sono proprio
un assedio, dove il pittore estrae luci dall’ombra, e guardi
anche questi paesaggi che ti gettano nel vuoto, ti accorgi di quanto
è italiano Avanessian. Non perché una volta ha ammirato
Piero della Francesca o Caravaggio. Sì, magari anche per
quello… Ma insomma, soprattutto perché ci sono stati
i nostri poeti-pittori contemporanei. C’è stato Montale.
E de Pisis. C’è stata questa nostra povera estate folgorante.
Puoi toglierti anche lo sfizio di un confronto: alla “scrittura
a zampa di mosca… al segno stenografico” (grazie ancora
Eugenio!) di de Pisis, Avanessian oppone e poi sparge ovunque questo
suo arabesco infinitesimale, questa calligrafia svagata, questa
pennellata in corsivo. E’ simile a una goccia, a una virgola,
a una coda di girino, a un segno vagamente arabo, alla lettera di
un alfabeto sgualcito, a un ricciolo minimal.
“Roma non è difficile amarla”. Dunque un armeno
ha trovato qui, come possiamo dire, il proprio destino? Dimostrando
che spesso la vera patria è altrove, che sta da qualche altra
parte, che bisogna cercarsela, inventarsela: si presenta come una
meta non come un inizio. Poi mica sono sicuro che Roma sia (e, allora,
fosse) così europea. Con lei certamente nasce e però,
alla fine, muore l’Occidente. Quindi chissà, Avanessian
avrà trovato a Roma, o a Venezia, favolosi Orienti? E’
la quadratura del cerchio. Cupole, palme, luci abbaglianti. L’Oriente
è qui, adesso.
Si può essere fieri di una città così, almeno
di com’era prima, dicono, perché magari oggi un po’
meno, dicono ancora… Una Roma non grande, anzi quasi intima
e molto colta, molto piacevole da vivere. I nomi e i luoghi che
girano come api operose attorno a Avanessian sostengono la sua ispirazione,
la spingono avanti con mitezza e sicurezza. Senza sforzo. Lui è
il pittore che piace ai pittori. Come Bonnard. Dalla sua parte trova
Bartoli. Ma anche Guttuso e Maccari che per primi lo presentano
nelle mostre. Il primo scrive di un amore della pittura che è
essenzialmente “amore del mondo, delle cose, degli oggetti,
del colore di un cielo, del chinarsi di un albero, dell’intersecarsi
di due tetti”. Per il secondo “la sua pittura respira
gagliardamente”. Imbattibili. E sapete cosa penso? Che sarebbe
bastato questo. Avanessian è tutto qui. Bisogna essere bravi
da dio per racchiudere un pittore in un paio di frasi. Poi sono
venuti anche Antonello Trombadori, Virgilio Guzzi, Vito Apuleo,
Massimo Carrà, Dario Micacchi, Guido Giuffré, insomma
un mucchio di critici coi fiocchi, ma quelle due frasi lì
le puoi dire e ridire oggi e sono ancora perfette.
Perché la perfezione è breve. L’emozione è
concentrata. Il piacere della pittura, la rivendicazione del suo
godimento, è una ripetuta serie di semplici accadimenti,
di eventi. Questo lo sa benissimo Avanessian. Provo a spiegarmi.
Lui sfoglia il soggetto, e lo fa con un linguaggio la cui apparente
nonchalance in realtà è il risultato di un vero stato
di grazia. La sua pittura tocca, pizzica, scorpora la superficie
accesa del mondo senza invaderla. Ne condivide l’euforia,
il gusto per la metamorfosi continua. Ne rispetta il vuoto, come
se non fosse fatta d’altro che di una sostanza trasparente,
incerta tra il vetro, l’acqua e la cera. Non vuole andare
oltre. Non desidera nulla di più. Il suo gesto, più
che trattenere, indica. E ciò è da saggi. Cattura
e risveglia il paesaggio come per un’improvvisa illuminazione,
una svelta corrispondenza tra tutta la natura là fuori e
ciò che di essa ti si liquefa dentro, e che ogni volta ti
appare dannatamente rapido e bello. Se ci pensi, già il dirlo
è un po’ troppo. Aggiungere intenzioni, altri argomenti
e significati equivale proprio a tramortirli, quadri così.
Entro i confini del
quadro.
Alfonso Avanessian intervistato da Francesca Franco
Sei stato indicato spesso dalla critica come un logico continuatore
della tradizione della Scuola romana, Dario Micacchi, in particolare,
ha individuato nel tuo lavoro l’eredità di “una
tradizione italiana di pittura di luce che risale agli anni Venti
e che si sviluppò principalmente a Roma”. Condividi
queste interpretazioni? Personalmente, a quale teoria, corrente
o ambiente artistico ti senti davvero legato?
Non ho seguito molto le mode. Certo, c’è, in qualche
modo, la Scuola romana nella mia prima formazione, ma forse la presenza
di questa componente andrebbe spiegata meglio…Da ragazzo cominciai
a dipingere copiando le opere di Corot e i paesaggi di Poussin che
a Teheran trovai riprodotti in alcune riviste francesi. Mi avvicinai
così a certo naturalismo che sviluppai dopo, a Roma, a contatto
con Amerigo Batoli. A Roma, però, mi interessai soprattutto
alla pittura del Quattrocento che la rilettura critica di Roberto
Longhi e di Bernard Berenson aveva riattualizzato. Una pittura fatta
di colori di terre e linee di contorno, senza luci eccessive. Nei
miei lavori degli esordi io cercai di ispirarmi, appunto, a questa
tradizione eliminando le luci, l’oro, i forti chiaroscuri.
I dipinti, esposti nella mia prima mostra personale del 1954 alla
galleria San Marco, furono notati da Michele Guerrisi, che allora
era direttore dell’Accademia di Roma nonché membro
della Commissione di Belle Arti. Aveva da poco pubblicato i volumi
Idea figurativa, presentato da Benedetto Croce, ed Errore di Cézanne.
Anti-arganiano dichiarato, disse di condividere la mia direzione
di ricerca perché non mi ero fatto influenzare dall’Impressionismo.
Fu lui a farmi invitare alla Biennale di Venezia nel 1956, dove
esposi nel Padiglione dell’Iran, poiché non avevo la
cittadinanza italiana. Diventammo amici…ma, più che
vedere i quadri nella loro sostanza, Guerrisi vedeva l’idea
che l’autore si era proposto di esprimere. Come Argan portava
avanti le proprie teorie, le proprie idee filosofiche.
Adesso guardo molto ai manieristi del Cinque e Seicento.
Vedo che usi dipingere differenti versioni di un medesimo soggetto.
Una pratica che nel tuo lavoro mi sembra, forse, denotare non tanto
una ripetizione quanto, piuttosto, una particolare attenzione -
o forse affetto - per un dato soggetto, che reinterpreti mettendone
in luce, ogni volta, particolari aspetti. Quanto conta per te la
scelta del soggetto da dipingere?
Un soggetto deve stimolare, altrimenti uno non inizia nemmeno a
dipingere, dopo lo studio diventa fine a se stesso. Il momento fondante
del mio lavoro è la composizione, la ricerca del giusto ritmo
tra pieni e vuoti, la ricostruzione entro i limiti del quadro di
quello che ho visto. Pur senza teorizzare, le linee astratte per
comporre la pagina gli antichi le avevano nel sangue: nei dipinti
del Rinascimento un braccio è anche una linea che taglia
lo spazio, pensiamo, ad esempio, ai ritratti di “Uomo con
cappello” di Rembrandt. Nell’Ottocento, invece, si impone
la composizione accademica: tutto è ben centrato, simmetrico,
ponderato, ma anche bloccato.
Per questo motivo affronto malvolentieri il ritratto su commissione,
perché mi preoccupo più di queste cose che non della
rassomiglianza. A me interessa la sottostante composizione astratta,
quella certa struttura che sostiene l’immagine del quadro.
Mi sembra che un tema ricorrente dei tuoi lavori riguardi il
potere - direi quasi magico - dello sguardo di rendere esistente
la realtà circostante, tanto che anche i paesaggi puri, nei
quali non compare alcuna figura, sembrano comunque sottendere la
presenza di colui che li ha visti. In altre parole, quei paesaggi
esistono perché qualcuno li ha guardati. Numerosi, poi, sono
gli interni con figura o i ritratti (ma soprattutto autoritratti)
nei quali la persona raffigurata è intenta a guardare dalla
finestra e il suo volto è visibile attraverso il riflesso
di un vetro o di uno specchio. Sono quadri costruiti come un “gioco
di sguardi”, in cui l’osservatore esterno inconsapevolmente
entra a far parte. Si può parlare a questo proposito addirittura
di poetica o, semplicemente, si tratta di un leit motif?
Se c’è una poetica, questa viene fuori da sola, senza
che io mi proponga coscientemente di farlo. La scelta del soggetto
esprime, comunque, di per sé il temperamento dell’autore,
risponde, in altre parole, alla necessità di dare forma visibile
alle sue concezioni e idealità artistiche. In Capitan Fracassa
Théophile Gautier descrive così bene un paesaggio
che sembra quasi una pittura. Leggendo poi la sua biografia ho saputo
che da giovane aveva voluto fare l’artista…Dunque, Gautier
esprime attraverso la scrittura una maniera di guardare il paesaggio
del tutto particolare e ben diversa, ad esempio, da quella di un
Alessandro Manzoni, il quale vede il paesaggio in modo, direi quasi,
“geografico”.....pur senza togliere nulla al suo valore
di letterato...
Ho dipinto tutta la vita dal vero, ma il vero, di per sé,
non esiste; esiste, piuttosto, quello che tu capti. Il paesaggio
che vedi attraverso il finestrino della macchina non è più
lo stesso quando scendi dalla vettura: cambia perché ora
si manifesta nella sua vastità. Il pittore che vuole realizzare
ciò che percepisce deve, comunque, organizzare tale vedere.
Il quadro è una superficie “limitata” e l’essenza
della pittura è organizzare entro quel limite il vedere.
Nel Cinquecento il paesaggio, così come il rapporto interno/esterno,
non aveva “valore ottico”, come invece avrà nell’Ottocento
con gli Impressionisti, quanto piuttosto “compositivo”…Picasso
diceva, scherzando: “In un quadro impressionista c’è
l’atmosfera, c’è la stagione…ma dove sta
la pittura?”.
Nonostante i soggetti siano chiaramente riferibili alla realtà,
mi sembra che la tua pittura possieda un saldo carattere astratto
- le tempere magre degli esordi così come le vedute di città
degli ultimi anni - tanto che si potrebbe parlare di una potenziale
immersione nell’astrazione insita in ogni figura, in ogni
paesaggio, in ogni veduta urbana. Sei d’accordo?
L’arte è sempre astratta. In un “trio”
di Brahams c’è molta astrazione. Lo stesso chiaroscuro
è un concetto, non è la realtà, come hanno
dimostrato gli impressionisti eliminandolo il colore nero in favore
delle “ombre colorate”. Ho letto un libro di Ardengo
Soffici, Scoperte e massacri: a un certo punto egli racconta di
un imperatore europeo che fece omaggio di un suo ritratto a un imperatore
giapponese, e questi, che non aveva idea del chiaroscuro, guardando
l’immagine si meravigliò che il sovrano avesse mezza
faccia bianca e mezza faccia nera. Questo perchè egli apparteneva
a una cultura “altra”, la quale, poggiando su una differente
sensibilità, aveva codificato una diversa modalità
di rappresentazione e una diversa idea di bello.
Per Platone l’arte era mimesi del mondo reale, per Kant
ed Hegel libera creazione individuale. A quale di queste affermazioni
senti di aderire maggiormente?
Certamente mi sento più vicino a Kant ed Hegel e a quella
linea teorica dell’arte che arriva fino a Benedetto Croce
e lega l’arte all’intuizione...erano crociani Lionello
Venturi e letterati come Pietro Pancrazi. L’arte è
libera creazione individuale anche perché il vero, di per
sé, non esiste. Io dipingo ciò che vedo e organizzo
la visione secondo una mia personale “idea figurativa”.
Allo stesso modo molti scrittori, per creare un romanzo originale,
partono da una storia reale che reinventano totalmente attraverso
il loro personale temperamento. Faccio un esempio: fu Puskin a suggerire
l’idea di Anima e morte a Gogol, ma fu questi a dargli una
forma ben precisa e un contenuto originale, traendolo da sé
stesso, dal proprio sentire, dalla propria cultura, dalla propria
personalità. Questo, esattamente, io intendo per “contenuto”:
un contenuto interiore, spirituale, non un messaggio. Anzi, in linea
di principio sono contrario all’arte che porta messaggi e,
perciò, anche a Tolstoj, il quale diceva che l’arte
doveva istruire il popolo.
Quando, secondo te, un’opera diventa “Arte”?
Lei mi fa domande difficili!...Posso solo dire che quando c’è,
lo sentiamo che c’è. Però è necessaria
anche una certa sincronia nel modo di sentire, altrimenti come si
spiega che Bach sia stato dimenticato per decenni per essere riscoperto
improvvisamente da Mendelsshon a metà Ottocento? Per tornare
alla storia dell’arte, pensiamo a Piero della Francesca e
alla tradizione rinascimentale italiana rivalutata da Bernard Berenson
e da Roberto Longhi nella prima metà del Novecento. Negli
anni Cinquanta del Novecento Caravaggio non era così osannato
e popolare come lo è oggi. Nel Settecento fu addirittura
oggetto di polemica da parte dell’architetto classicista Francesco
Milizia, che lo accusava di impastare tutto di nero e detestava
la sua tragicità, però parlò di lui quasi più
che dell’amato Guido Reni.
Anni fa hanno iniziato a dire che l’arte è morta...in
verità non c’è motivo per asserirlo: secondo
l’angolazione che guardi qualsiasi opera può diventare
una demenza o un capolavoro.
È difficile individuare un tipo di arte valido per tutte
le epoche...per me l’arte fa parte della vita ed è
per la vita, deve essere prima di tutto un godimento, non solo “Cultura”.
Nella complessa miscela che forma un’opera d’arte
che posto occupa, secondo te, la maestria?
Non discernerei totalmente la tecnica dall’arte. Un’artista
deve prima di tutto trovare la tecnica con cui esprimersi. Quando
Benedetto Croce chiese ad Antonio Mancini “cosa fosse l’arte”,
questi rispose: “quell’abilità che sento nell’anima”.
Insomma, l’artista deve saperci fare, deve imparare la tecnica
con cui vuole esprimersi, anche se la tecnica non fa l’arte.
Allo stesso modo un romanziere deve conoscere bene la lingua con
la quale intende scrivere ma, d’altro canto, non è
detto che un linguista diventi un grande scrittore.
Che rapporti hai intrattenuto con galleristi e collezionisti?
Sono stato amico non di molti mercanti: Lombardi, Fiume e, naturalmente,
Salvatore Russo, che portò i miei quadri a un successo di
vendite. In quarant’anni di collaborazione diventammo talmente
amici che mi considerava parte della sua famiglia, preoccupandosi
se ero in difficoltà o avevo problemi di salute. Con il suo
carattere irascibile litigavamo quasi sempre, pur volendoci molto
bene. Purtroppo è venuto a mancare e non so più con
chi litigare, qualche volta tento con Fabrizio, ma lui, avveduto,
mi fa un sorriso e non ci casca.
Anche con i miei collezionisti, soprattutto quelli di più
vecchia data, ho sempre avuto prima di tutto un rapporto di amicizia,
con loro e con le loro famiglie. Serbo un bellissimo ricordo del
professor Nuzzi, che comprò un mio quadro all’epoca
in cui era assistente di Cassano. In seguito, quando divenne primario
all’ospedale di Taranto, sua terra natale, mi fece conoscere
la natura e il mare della Puglia e, da allora, ho sempre passato
lì l’estate. Spesso ero in compagnia di Mario Picchi,
scrittore stimato da Palazzeschi e traduttore di classici dal francese.
Fu lui a presentare nel 1978 la mia mostra alla galleria Lo Scalino
dal titolo, per l’appunto, Un’estate in Puglia. Io e
Mario ci conoscevamo sin da ragazzi e siamo sempre stati buoni compagni
di divertimenti e bisbocce insieme allo scultore Marino Haopt. Un
altro mio caro amico nonché collezionista è stato
il giudice Ciminelli, uomo di grande cultura e amante della pittura...Mi
fa piacere poterli ricordare in questa occasione, perché
sono persone che fanno parte della mia vita.
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