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A colloquio con il regista Werner Weick per parlare di Armenia,

Marted́ 27 novembre 2007 fino a 9 Dic

31 "AZIONE" ARTE E SPETTACOLI Catalogo Edizioni Casagrande. www.chiasso.ch
A colloquio con il regista Werner Weick per parlare di Armenia, ma non solo Genocidio,una violenzadell’Ombra
Lucia Morello
Il filmato Armenia, ferita aperta di Werner Weick è stato presentato in anteprima il 5 ottobre e andato in onda su TSI 2 il 10 ottobre.
Dalle drammatiche immagini di questo filmato, imbastito su un viaggio in Anatolia nella zona dell’antica civiltà urartea, a Van, il luogo livido e inquietante dove nel 1915 in cui è avvenuto il primo genocidio dell’era moderna e dove in una sola notte un’intera città è stata data alle fiamme, sono scaturite emozioni fortissime, difficilmente dimenticabili. Al regista del documentario, che costituisce il secondo episodio della serie Dalla croce al mandala, la possibilità di chiarire le ragioni del suo coinvolgimento emotivo e del suo interesse culturale.Werner Weick, da Armenia, patria negata ad Armenia, ferita aperta sono passati molti anni ma il suo interesse per la questione armena non è venuto meno.
Esiste una differenza di sguardo tra i due filmati?
– Ho girato i due documentari a 27 anni di distanza. Il primo: Armenia, patria negata è del 1980 ed è permeato dal clima degli attentati contro i diplomatici turchi:
nella diaspora armena era in atto un lacerante conflitto fra i propugnatori della lotta armata e coloro che privilegiavano la m«via» culturale e politica.

Armenia, ferita aperta, girato in Svizzera e in Armenia nell’aprile 2007, riflette i traumi di coloro che vorrebbero che la Turchia riconoscesse e ammettesse l’esistenza e l’attuazione di un piano di sterminio eseguito nel 1915 a danno degli armeni dell’Impero ottomano. Il tenace negazionismo delle autorità di Ankara nei confronti di una tragedia costata un milione e mezzo di morti è, in sostanza, un assurdo rifiuto di riconoscere le spaventose dimensioni di un genocidio storicamente accertato. Va detto, a questo punto, che Raphael Lemkin – che propone il termine «genocidio» nel 1944, mentre lo sterminio degli ebrei è in corso – fa riferimenti continui anche alle violenze di massa commesse in precedenza. Egli ritrova, tuttavia, nel carattere di modernità dei massacri e della violenza generata dagli imperi multinazionali e multietnici del Novecento una dimensione nuova e terrificante, consistente in un complesso, organico e preordinato, di attività criminose commesse con l’intento di distruggere in tutto o in parte un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso. Come si è documentato? Come e dove ha potuto girare le scene? – Continuo e tenermi aggiornato sulla questione armena. È una questione etica, prima che politica. Conservo a casa una cinquantina di volumi letti nel corso degli anni e dedicati agli aspetti più svariati della ricchissima cultura armena. In ufficio ci sono mappette piene di appunti e fotocopie. Non è stato difficile comporre un percorso interiore ed esteriore con l’aiuto di Sarkis Shahinian, personaggio centrale del documentario. Sarkis è uno svizzero di origini armene che ha vissuto all’interno della propria famiglia un conflitto spaventoso:
la mamma era cresciuta a Istanbul nella visione negazionista propagata nelle scuole turche, mentre il padre aveva sperimentato sulla propria pelle le deportazioni attuate dal regime dei Giovani Turchi. Questo conflitto l’ha indotto a impegnarsi strenuamente, negli ultimi tre decenni, a favore del riconoscimento riconoscimento del genocidio del suo popolo. Ci conosciamo da parecchi anni. Il progetto che ha portato alla nascita del documentario è maturato nel corso di molti incontri. Perché il genocidio armeno, il primo dell’era moderna, mantiene ancora una sua sinistra e inquietante attualità?

– - La questione armena non è e non deve condurre a un processo contro il popolo turco e non deve riaccendere le antiche tensioni sfociate nel genocidio del 1915-18. Il mio documentario nasce da una duplice esigenza di giustizia e di pace per il primo genocidio del XX secolo, seguito dalla Shoa, dal genocidio impunito della Cambogia, Bosnia, Ruanda e Darfur. Bernard Bruneteau, che ha studiato a fondo il fenomeno, ritiene che il genocidio rifletta una concezione totalitaria del mondo e una «razionalità delirante» che si radica in un’utopia sociale. Per un totalitarismo di tipo nazionalista o razzista, si tratta di annientare il popolo che si rifiuta o che finge di integrarsi (armeni, zingari, ebrei, musulmani bosniaci, tutsi), in modo da creare un Popolo immune da differenze biologiche o etniche. Il genocidio è dunque concepito come un modo radicale per porre fine al conflitto, ossia alla tanto disprezzata politica, e per rinsaldare la società attorno a un ideale unitario (la Grande Turchia, l’homo sovieticus, la Kampuchea democratica, la Grande Serbia, il Potere hutu, e così via). Psicanalisi della storia


– E qui entra in gioco anche il tema dell’Ombra, che ho circumnavigato attraverso sette documentari realizzati negli ultimi anni ispirati al pensiero di C.G.Jung. Il grande psicologo svizzero, che aveva peraltro subito, sia pur marginalmente, il contagio psicologico che si era impadronito del popolo tedesco, descrive come praticamente ogni tedesco si lasciò abbindolare da Hitler. I tedeschi volevano ordine, ma commisero il fatale errore di eleggere a loro guida la vittima principale del disordine dell’avidità incontrollata. Non diversamente dal resto del mondo – ricorda Jung – essi non compresero i motivi profondi per cui Hitler costituiva un simbolo per ogni individuo. Hitler era la più stupefacente incarnazione di ogni forma di inferiorità umana: era un inetto, psicopatico, privo di senso di responsabilità, carico di insulse fantasie infantili. Rappresentava in misura esorbitante l’Ombra, la parte inferiore della personalità di ciascuno, e questo fu un ulteriore motivo per cui si finì per caderne vittima. Negli anni precedenti il genocidio armeno, la propaganda turca alimentava un diffuso senso di inferiorità di fronte alla cultura armena, aperta alle idee politiche diffuse in Europa. Gli armeni – «diversi» sul piano religioso – erano abili commercianti, possedevano le terre più fertili, persino le loro donne apparivano più belle e più libere rispetto a quelle delle altre etnie: ecco gli elementi di un cocktail che portò a uno sterminio di massa e a indicibili violenze.
A ognuno di noi – ricorda Jung – tocca acquisire coscienza della propria Ombra, dei lati inferiori della personalità che vengono proiettati sull’altro. E come ci si sarebbe potuto attendere che i tedeschi o i turchi dell’impero ottomano capissero, quando anche oggi moltissime persone non riescono a comprendere una verità tanto semplice? Il mondo non potrà mai raggiungere uno stato di ordine, fintantoché questa verità non verrà riconosciuta
ovunque, a livello individuale e collettivo.

Come vivono oggi gli armeni della diaspora e gli armeni del piccolo stato caucasico nei confronti di questa memoria?

– Il 24 aprile di aprile di ogni anno il popolo armeno commemora il genocidio su una collina di Erevan. Quest’anno ho visto sfilare sotto una nevicata seguita da una pioggia battente poco meno di un milione di persone tra cui moltissimi giovani. Ho l’impressione che il ricordo dei massacri sia alimentato anche dalla costante insicurezza dei
confini. La Turchia non è un vicino facile per nessuno. Come ha «sentito», da un punto di vista culturale ma anche
emozionale, questa regione che, geograficamente e storicamente, è sempre stata un crocevia di popoli e che è stata il centro, non solo di una delle prime e più sentite cristianizzazioni, ma della grande civiltà urartea?

– Il mio primo contatto con la storia armena risale a trent’anni fa. Mi trovavo, per ragioni di lavoro, dalle parti di Kars, nell’odierna Turchia nordorientale, senza sapere di calpestare suolo armeno. Una persona vivente nella regione mi raccomandò in un bisbiglio di non parlare mai del popolo armeno e dei massacri avvenuti da quelli parti. Al termine di una serata colma di racconti di orrori e sofferenze decisi di contribuire a spezzare il silenzio che circondava allora il genocidio di questo popolo.

ludwig naroyan

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