30 Gennaio a Milano
CENTRO SAN FEDELE via Hoepli 3/B Milano San Babila
mercoledi 30 gennaio 0re 21.00
Armenia ferita aperta - Documentario per un genocidio
Regia di Werner Weick, fotografia Angelo D'Auria,
suono Luca Maccanetti, montaggio Gaby Weick,
sonorizzazione Mauro Pessina
Per il ciclo "Il filo d"oro” la Televisione svizzera di lingua italiana ha presentato e diffuso nel mese di ottobre il documentario ARMENIA, FERITA APERTA, di Werner Weick. Tale documentario (assieme a "PRIGIONIERI DI SHANGRI-LA) sarà presentato al S. Fedele di Milano rispettivamente il 30gennaio e il 6 febbraio e a Como il 5 e il 12 marzo 2008.
ARMENIA, FERITA APERTA è basato sulla testimonianza di un ticinese di origine armena, Sarkis Shahinian, co-presidente dell'Associazione Svizzera-Armenia, che da anni si batte per il riconoscimento del genocidio del suo popolo. La realtà del genocidio continua a essere negata dalle autorità politiche di Ankara. Tale ostinazione genera in molti discendenti delle vittime un"ossessionante sete di giustizia e verità. Il documentario ripercorre un viaggio alla ricerca del
significato e delle conseguenze di un trauma difficile da cancellare: il genocidio del 1915. La memoria di Sarkis è fortemente influenzata dalla negazione e dunque dalla perpetuazione di tale crimine. L’intreccio del documentario si sviluppa attraverso le esperienze di ricercatori, storiografi, scrittori, etnografi, architetti, psicologi e, non da ultimo, Komitas, compositore ineguagliabile, che si presume perse l’equilibrio psichico a causa della deportazione.
Anche la croce, gli stupendi Khatchkar (steli di pietra a forma di croce) che sono il motivo conduttore del documentario, segnano questa volontà da parte degli Armeni di perpetuare la propria esistenza, nata dalla costante sensazione del pericolo di scomparire.
Werner Weick, nei documentari "Armenia, patria negata” del 1980, e Armenia, ferita aperta” del 2007, il suo racconto si sviluppa attorno ai concetti di “patria” e di “ferita”. Perchè?
Tutti i popoli hanno diritto a una patria, e questo vale per gli armeni, i tibetani, gli assiro-babilonesi e tutte le altre culture calpestate dagli elefanti della storia.
La patria è uno spazio territoriale ma innanzitutto culturale che fa da
contenitore alle esperienze politiche, morali e affettive degli individui appartenenti a un determinato popolo. Nella patria nasce un senso di identità collettiva e di appartenenza. Quando questa identificazione viene ferita, calpestata, umiliata nascono problemi politici, umani, psicologici pressoché irrisolvibili che generano a loro volta un'interminabile catena di sofferenze
che si ripercuotono sui vinti e sui vincitori.
Nel corso della mia vita ho dedicato non ricordo quanti documentari alla diaspora ebraica, agli esuli lituani, lettoni, estoni, cileni, ungheresi, cecoslovacchi e così via e a tutta una serie di minoranze travolte e distrutte nel corso della storia recente. Volevo capire le radici della violenza, dello sfruttamento e dell"ingiustizia. Col passare degli anni ho scoperto che le strutture oppressive, i nuclei della violenza nascono prima di tutto all'interno di noi e poi, quando non vengono affrontati e sciolti a livello individuale, finiscono per materializzarsi a livello collettivo. Oggi sono fermamente convinto che ogni vera trasformazione deve partire dal singolo e poi, se possibile, estendersi alla società.
Nei primi quindici anni della vita professionale mi sono dedicato alle
inchieste e alle denunce sociali, poi ho iniziato a confrontarmi con temi di indagine psicologica (come quelli legati al ciclo del Filo d"Ombra) per riaffrontare con un rinnovato bagaglio interiore temi di attualità politica trattati, in un’altra ottica, negli anni precede
Il documentario "Armenia, patria negata” - girato e diffuso dalla TSI nel 1980
- preannuncia "Armenia, ferita aperta” realizzato 27 anni dopo. Un lavoro completa l'altro e questa è anche la ragione per cui ho deciso di rimasterizzare il vecchio filmato e di riproporlo come contenuto speciale in un dvd acquistabile presso la TSI (homevideo@rtsi.ch) come buona parte della mia produzione documentaristica degli ultimi anni. L"ultimo ciclo del Filo d'oro porta il nome, come indica il titolo, “Dalla croce al mandala”. I due simboli rappresentano il nucleo culturale e religioso di due popoli, quello armeno e quello tibetano: il primo trae la propria energia dalla croce, il secondo dal
mandala. Sono due forme archetipiche e due modi di guardare al mondo che –
guarda caso – rappresentano l"Occidente e l’Oriente, e che dovranno alla fine giocoforza compenetrarsi. Non vorrei essere frainteso, ma la croce, l’accanimento della croce tipicamente occidentale dovrà col tempo stemperarsi nel mandala che alla fine del rito viene sciolto e restituito all’universo. E’ un processo lunghissimo, ma inevitabile, perché tutto, alla fine, è destinato a tornare all’unità primordiale.
Dove avete girato le interviste del film “Armenia, ferita aperta”?
Abbiamo girato le interviste del film nella stanza di un albergo di Losanna durante il processo contro Perincek, un provocatore turco condannato nel marzo scorso dal Tribunale di polizia di Losanna per la negazione del genocidio armeno. L’albergo aveva ospitato nel 1923 i rappresentanti delle potenze europee che decretarono col cosiddetto Patto di Losanna la nascita dello stato turco, senza minimamente tener conto delle terre strappate agli Armeni e della deportazione e massacro di un milione e mezzo di persone. La direzione dell’albergo non ci ha permesso di filmare la sala, ancora intatta, in cui si è svolta la conferenza. Temevano implicazioni che potessero, in qualche modo,
compromettere i loro affari: questo asservimento alle ragioni del portafoglio è l’aspetto più avvilente di una certa Svizzera bottegaia di oggi. Ma la scelta del luogo, il suo valore simbolico condensato nello spazio ristretto di una stanza, si rivelò una carta vincente perché siamo riusciti a raccogliere alcune testimonianze di vibrante umanità.
Oggi - a quasi un secolo di distanza - in un mondo di latente violenza, dopo la Shoah, due guerre mondiali e moltissimi focolai di guerre e guerriglie, il genocidio degli Armeni resta una questione di scottante attualità. Cos'è, veramente, un genocidio?
Il genocidio è un crimine di massa in cui un gruppo viene intenzionalmente distrutto in nome di criteri di nazionalità, etnia, razza o religione. Gli Armeni sono le vittime del primo genocidio del XX secolo: riferire su questo genocidio 'dimenticato" e ricordarlo alle generazioni future è innanzitutto un dovere per chi fa la mia professione. Purtroppo i genocidi sono una parte intrinseca e cruciale del mondo contemporaneo e dipendono quasi sempre dalle razionalità individuali e collettive proprie del nostro tempo. Esse – ricorda Jacques Sémelin – vengono attivate da un immaginario paranoico generato dalla paura, da una razionalità delirante tipica di una concezione totalitaria del mondo. Per un totalitarismo di tipo nazionalista o razzista, si tratta diannientare il popolo che si rifiuta o che finge di integrarsi (armeni, zingari, ebrei, musulmani bosniaci, tutsi) in modo da creare un popolo immune da differenze biologiche o etniche. Il genocidio è dunque concepito come un modo radicale per porre fine al conflitto, ossia alla tanto disprezzata politica, e per rinsaldare la società attorno a un ideale unitario: l’homo sovieticus, la
Volksgemeinschaft, la Kampuchea democratica, la Grande Serbia, il Potere hutu … o la visione dei ‘Giovani Turchi’, ideatori e esecutori del genocidio armeno.
Lo sterminio di questo popolo preannuncia gli accadimenti successivi e ci riguarda tutti. Chi ha occhi per vedere sa che il prossimo genocidio potrebbe essere dietro l’angolo.
Tra speranze e frustrazioni, cosa significa essere Armeno, oggi?
Il "meglio” degli Armeni di oggi si incarna in persone come Sarkis, capaci di lottare a novant’anni dal genocidio per una causa apparentemente persa, nel nome della giustizia e di tanti morti innocenti. Quando ho conosciuto Sarkis, sei anni fa, si è imperiosamente affacciato alla mia mente il racconto chassidico col quale inizio e concludo il film.
Secondo una tradizione antichissima il mondo riposerebbe su 36 Giusti, in nulla distinti dai comuni mortali. Spesso non sanno di esserlo nemmeno loro. Ma se uno solo mancasse, la sofferenza degli uomini avvelenerebbe persino l’anima dei neonati e il mondo soffocherebbe in un grido. Perché i Giusti sono il cuore moltiplicato del mondo, e in essi si versano tutti i dolori, come in un ricettacolo.
H.D