14 agosto 2009
Baharà t, il gusto della memoria
La scrittrice armena Sonya Orfalian: anche una spezia può servire a ricostruire l'epopea di un paese perduto
FRANCESCA SFORZA
Non dovrebbe essere difficile. Si compra un biglietto aereo, si fa scalo ad Ankara, in Turchia, e con un volo interno in poco più di un.ora si atterra direttamente a Urfa, anzi Sanliurfa, come si chiama oggi. Da lì è sufficiente prendere il pullman di linea, o uno di quei taxi collettivi che costano poco, e andare in centro, passeggiare per le stradine, visitare i vecchi quartieri, andare a vedere il castello o il famoso santuario di Abramo - dicono che sia nato qui. Lo possono fare tutti, tranne gli armeni. Ben inteso, anche loro potrebbero andarci, ma non ci vanno. «Sto cercando notizie dei miei parenti a Urfa - scrive David Marian nel suo blog da New York - Il padre di mia madre si chiamava Levon Yotneghparian, scrivetemi se per caso ne avete qualche ricordo, io non me la sento di andare fin lì, so che non troverei nulla». Lydia, invece,dopo aver raccolto sul sito www.armenianhouse.org tutte le vecchie illustrazioni che narrano dei sedici soffertissimi giorni della resistenza armena di Urfa contro i turchi nel maggio del 1915 confessa: «Non avrò mai il coraggio di andare a Urfa». Lo stesso vale per Sonya Orfalian, autrice del libro La cucina d'Armenia, in libreria per Ponte alle Grazie: «Essere figli dei superstiti di un genocidio è tutta un.altra faccenda - scrive - Mettersi in cerca delle proprie radici non è per noi un poetico viaggio proustiano à rebours. Vuol dire confrontarsi con un dolore senza nome e senza tempo. E la negazione di quelle atrocità da parte di chi le ha commesse è un altro doloroso
tassello che si aggiunge».
Non potendo guardare il monte Ararat dalla parte «giusta» (quella raffigurata nella copertina, che presuppone un definizione geografica dell'Armenia diversa da quella attuale) Sonya Orfalian - figlia della diaspora, nata in Libia, oggi a Roma - ha cercato di ricostruire quell.angolatura dall.interno, registrando i racconti di madri, nonne, zie e lontane cugine e ricomponendo così, piatto dopo piatto, ricetta dopo ricetta, i confini del suo Paese perduto. Non è stato facile, ad esempio, capire in cosa consistesse precisamente il baharà t, che le traduzioni inglesi dei libri di cucina armena rendevano con allspice. «Abbiamo in seguito scoperto che si trattava di una sola spezia, il pimento. E in effetti anche il termine arabo per indicare le spezie in generale - baharà t - deriva da bahar, il nome di una sola spezia, cioè il pepe».
È così che l.indicazione proustiana rinnegata dall.autrice nelle prime pagine del libro, riemerge involontaria in molte pagine successive, quando si istituisce quel legame tra sapore e memoria proprio dell'effetto madeleine, che
fa delle polpettine di farina di grano arrostito con acqua zuccherata, miele e succo d'uva, qualcosa di più di semplici merende per bambini. Dopo aver morso un angolo della polpetta infatti, i ragazzi e le ragazze la gettavano sul tetto osservando il comportamento degli uccelli: «se veniva presa e portata via, era segno che in quella casa entro l.anno un giovane della famiglia si sarebbe sposato; se invece l.uccellino si fermava solo a becchettare, nessun matrimonio
era in vista».
Fiabe, tradizioni, filastrocche e racconti della diaspora si inanellano dunque all.interno della cucina, o meglio di quel codice inappellabile che è costituito dal libro di ricette, testimone della resistenza della parola scritta sulla mobilità effimera della cultura orale. Perché per fare un buon kash (zuppa di zampetti di vitello) è importante ricordare che le zampe vanno messe a bagno qualche giorno prima e che l.acqua va cambiata di frequente, «fino a quando le cartilagini e la carne, esigua ma saporita, non si stacchino dalle ossa». Dettagli essenziali per la riuscita di un buon piatto, e per la conseguente tenuta della filiera della memoria. Quando il kash è in tavola (ed è buono), si potrà poi scherzare sul fatto che è un piatto da uomini e che, secondo la tradizione «non ama la compagnia né delle donne né del vino».
Se il Caucaso fosse una cucina - suggerisce il libro di Orfalian - armeni e azeri dimenticherebbero l.odio che li separa dai tempi della guerra per il Nagorno-Karabakh (dal 1994 sotto il controllo armeno, ma considerato dall.
Azerbaijan parte integrante della propria cultura) e siederebbero intorno allo stesso tavolo mangiando lo stesso inconfondibile stufato di agnello. Ma può accadere anche che i sapori si portino dietro il retrogusto amaro della storia.
Come nel caso del racconto di un vecchio armeno: «Mia madre Areknàs era una donna molto bella ed era stata rapita da un turco - registra la scrittrice mentre illustra la ricetta tradizionale dei dolma - Il mio padrone un giorno mi fece andare da lei perché la vedessi. Io andai e quando arrivai vidi tre o quattro donne, tutte mogli del turco, e mia madre era seduta fra loro. Tutte erano intente a arrotolare foglie di vite, preparavano i dolma. Mia madre mi vide, non disse e non fece niente, intinse solo una foglia nell'acqua e me la diede perché io la mangiassi. Tornai a casa triste e avvilito».
Autore: Sonya Orfalian
Titolo: La cucina d'Armenia
Edizioni: Ponte alle Grazie
Pagine: 271
Prezzo: 18.60 euro
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