L’ARMENIA
DIMENTICATA
Il genocidio di un popolo
e l’esigenza di un risarcimento storico
Altopiani e valli profonde, “regno di
pietre urlanti” tra la pianura obbligata delle vie commerciali
tra l’Europa e l’Asia e perciò contesa da nazioni
più forti, l’Armenia, avamposto cristiano in Oriente,
liberò dal maleficio del silenzio il poeta russo Osip Mandel’stam
“Armenia, Armenia! / Voli in eterno verso le argentee trombe
d’Asia / … E amo la tua lingua di presagi / sinistri,
le tue giovani tombe, / dove ogni parola uncino”.
Tombe fresche del primo genocidio del secolo, che a differenza dell’Olocausto
ebraico rimane un problema ancora aperto. “Non voglio più
cristiani in Turchia”, aveva detto Enver Pascià praticamente
l’indomani della presa del potere a seguito della rivolta
dei Giovani Turchi contro Habdul Hamid, appoggiata con
entusiasmo dagli Armeni ai quali era stato promesso che da allora
in poi sarebbero vissuti con i Turchi come fratello e sorella, che
tutte le nazionalità non turche dell’Impero (albanesi,
arabi, libanesi, macedoni) avrebbero costituito un’unione
per opporsi alle mire imperialistiche straniere.
“Popolo
intelligente e laborioso – ha scritto Emanuele Kant degli
armeni esso ha rappresentanti in tutto l’antico continente…
sebbene l’occupazione turanica dell’Asia minore l’avesse
costretto ad un isolamento di parecchi secoli, poiché sotto
l’impero ottomano la frontiera fra l’Europa e l’Asia
non era più rappresentata dall’Eufrate, ma dal Danubio.
Fu così che il popolo armeno rimase diviso tra gli Imperi
ottomano e persiano fino a quando all’inizio del XIX secolo,
le armate russe, per chiudere la via del Caspio all’Impero
ottomano e aprirsi la strada verso Oriente, oltrepassarono il Caucaso
e conquistarono la maggior parte dell’Armenia persiana, chiamata
orientale, estesa sulla riva sinistra dell’Aras. Tra i primi
sostenitori dell’indipendenza armena, Lord Byron scriveva
“sarebbe difficile trovare gli annali di una nazione meno
contaminata di delitti di quelli degli armeni, le cui virtù
sono quelle della pace e i vizi quelli della soggezione”.
Al congresso di Berlino del 1878 – quando gli armeni erano
concentrati soprattutto in Cilicia e in sei distretti della Turchia
orientale – la questione armena diventò elemento del
gioco politico e gli Armeni si convinsero che la causa della loro
indipendenza fosse matura al punto che il programma del neo partito
Henciak puntava sull’indipendenza armena e la sua
organizzazione in uno stato socialista. E se i turchi usavano i
pastori curdi nelle razzie contro gli armeni, il partito dell’Henciak
incitava i pastori armeni, vessati, alla rivolta. A seguito di una
manifestazione a Costantinopoli, Habdul Hamid, sultano
della Sublime Porta, diede il via, nel 1895, ad una prima ondata
di massacri. Esplosioni di gioia salutarono perciò la fine
della dittatura hamidiana e l’avvento, nel 1908, del regime
dei Giovani Turchi che prometteva a tutte le razze eguaglianza davanti
alla legge. Sembrò che l’era del terrore e dei massacri
fosse finita. I preti armeni andavano nelle moschee ed Enver insieme
al correggente Ministro degli interni, Talaat, visitava i cimiteri
armeni versando lacrime sulle ossa dei martiri. Ma senza affrontare
alcuna riforma. Nel 1914 la grande guerra contò un milione
e mezzo di armeni nell’esercito zarista e due milioni in quello
ottomano. Nei “Quaranta giorni del Mussa Dagh”
di Franz Werfel, ristampato quest’anno da Corbaccio, Enver
Pascià, il giovane soldato adulato dalle Grazie e avvolto
da un’aura di gelida timidezza, dice, “con abbagliante
cortesia”, al vescovo Lepsius andato ad intercedere: “in
così prossima vicinanza del fronte dei Dardanelli, non possiamo
tollerare anche solo dei possibili traditori”. Fu così
che nel gennaio del 1915 gli armeni furono disarmati e sabato 24
aprile ebbe inizio la grande retata dell’elite armena di Costantinopoli.
In un mese mille intellettuali e deputati al Parlamento furono deportati.
“Dalle loro dimore che abitavano da più di duemila
anni, da tutte le parti del Paese, dai passi sassosi della montagna,
dalle coste del Mar di Marmara e da quelle del Sud gli armeni sono
stati cacciati… si tolse loro l’asino e il carro, si
strappò il pane dalle mani, i bambini dalle braccia, l’oro
dai capelli e dalla bocca... così denunciava Armin Wegner,
giornalista tedesco, testimone dei massacri, arrestato per aver
fatto uscire lettere di deportati e foto del genocidio. Arrivano
a schiere, stremati ad Aleppo, l’ultima città prima
del deserto, in parte per ferrovia o con propri mezzi. L’allora
sindaco di Aleppo telegrafò, allora, al ministro degli interni
Talaat “Cosa devo farne?” e Talaat (ucciso poi in una
strada di Berlino da uno dei sopravvissuti) ripose con un telegramma
“l’obiettivo della deportazione è il nulla”.
Turchi, curdi, circassi si diedero a incendiare saccheggiare e massacrare
il popolo degli armeni. Tra il 1915, data di inizio del genocidio
e il 1922 quando l’Armenia entrerà a far parte dell’Urss,
si sono avuti un milione e mezzo di morti mentre i cinquecentomila
scampati all’eccidio saranno costretti alla diaspora. Il genocidio
degli armeni è “l'orrore più grande prodotto
dalla Guerra Mondiale, con la complicità dei tedeschi che
sapevano ma fingevano di ignorare i lager di morte dove gli armeni,
cacciati indifesi nel deserto, stavano aspettando una lenta fine.
I turchi evitavano la presenza di questi campi. I tedeschi non andavano
a vederli e facevano come se non ci fossero”. Naturalmente,
accanto ad episodi di ferocia e di avidità di massacri se
ne registrarono anche di pietà e di solidarietà da
parte della popolazione mussulmana che salvò molte vite dei
fuggiaschi, con grave personale pericolo.
Da parte degli armeni vi furono tentativi di resistenza: Van, una
città di 30-40 mila abitanti, resistette all’assedio
un mese. “La lotta sul Mussa Dagh” di Franz Werfel è
la storia più conosciuta e più completa di quella
epopea che vede l’eroe, Gabriele Bagradian, “un
originale maniaco di solitudine”, passare dalla condizione
di uomo astratto, per il quale essere armeno esige al massimo un
tributo scientifico annuale su una rivista specializzata, a quella
di un uomo determinato più che a vivere a trovare valore
e identità. E l’ "io non voglio vivere, voglio
aver valore" di Gabriele Bagradian assume significato storico
per tutto un popolo, insieme alla riconquistata certezza che “quando
un animale non crede più d’essere in grado di difendersi,
va alla malora. Così è nella natura, così è
nella storia”.
A causa del malcontento nelle file dell’esercito la Gran Bretagna
si preparava, nel 1919, a ritirare le proprie truppe nel Caucaso
e, poiché bisognava addossare a qualcun altro quel fardello,
Lloyd George lo offrì, nell’aprile, al nostro
Emanuele Orlando che lo accolse con entusiasmo e organizzò
una spedizione di 85 mila uomini al comando del generale Pennella
per lo stesso giugno. L’intervento più dannoso che
possibile, fu poi cancellato e l’Italia si ritirò,
quando cadde Orlando e subentrò Nitti.
La giovane Repubblica di Armenia ricerca da ottantanni
il riconoscimento dell’avvenuto genocidio. L’ha ottenuto
nel 1975 dal congresso degli Stati Uniti d’America, nel 1983
dall’assemblea mondiale del Consiglio delle Chiese, tra il
1984 e il 1996 da Francois Mitterrand e dai parlamenti di Argentina,
Uruguay, Cipro, Grecia, e Russia, nel 1985 dalla Sottocommissione
per i diritti umani dell’Onu e nel 1987 dal Parlamento Europeo.
Anche al Parlamento dell’Italia democratica e di sinistra
è stata avanzata la richiesta, vi sono state interrogazioni
al Governo presentate da varie parti politiche. La richiesta degli
armeni ha una duplice valenza e la mappa dei paesi che hanno compiuto
l’atto formale ne è in qualche modo la controprova.
Da un lato esso è atto riconducibile al fondamento di orgoglio
e di una identità nazionale, necessaria per la sopravvivenza
tra le mille difficoltà economiche che la giovane repubblica,
come tutte le giovani repubbliche, si trova di fronte oggi. La sua
è, inoltre, la richiesta di atto dovuto verso tutti i genocidi
che si vanno consumando nel mondo in questi anni, un monito di testimoni,
un non abbassare la guardia. In questa direzione va la proposta
presentata da Augias al Parlamento Europeo di celebrare in una giornata
simbolica, in tutti i paesi, con la solennità e i gesti della
memoria, le vittime di tutti i genocidi. Tullia Zevi ha
proposto il 27 gennaio, data della liberazione del campo di Auschwitz,
come "Memorial Day" europeo; ma a quanto pare l’accordo
non è stato ancora raggiunto. Gil armeni rivendicano il 24
aprile del 1915 come data più antica. Tuttavia, se questo
è vero, bisogna aggiungere però che lo è soltanto
in relazione alla storia conosciuta, non a quella ancora da rivelare,
mentre gli orrori dello sterminio ebraico, anche per la capacità
che hanno avuto i sopravvissuti e grazie all’intellighenzia
di quel popolo, sono più presenti nella coscienza collettiva
e quindi rappresentano una password di più facile accesso.
A lato, ed insiti nella richiesta, vi sono tuttavia, problemi non
di poco conto, legati ai conseguenti risarcimenti in termini territoriali
e di restituzione dei beni, anche artistico – culturali, a
suo tempo confiscati. Il che non può non destare preoccupazione
nel Governo turco, paese della Nato, con il quale l’Italia
ha da tempo forti relazioni commerciali. L’abilità
degli armeni dovrebbe perciò consistere nel rassicurare che
il riconoscimento dell’avvenutio genocidio si iscrive in una
volontà di pace e di distensione e non a scapito di difficili
assetti in una regione tanto tormentata.
(Articolo
tratto dalla rivista "Le Ragioni del Socialismo")
A cura di Graziella Falconi, Presidente dell'Associazione
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