Generazione
senza nonni
di
Alice Tachdjian Polgrossi
Ringraziamo
Benedetta Polgrossi, che ci ha autorizzato a pubblicare questo articolo
in occasione del 24 aprile 2008.
Natale
è già lontano. Rimane il dolce ricordo dei visi dei
miei nipotini che aprono i regali sotto l’albero di Natale,
posto accanto al presepio. I loro visi meravigliati erano come il
mio, perché in quel attimo diventavo assieme nonna e bambina.
Io
non ho mai conosciuto i miei nonni, sono stati inghiottiti dal nulla
durante il genocidio degli armeni nel 1915. La mia generazione non
ha nonni ne parenti, è senza radici.
Ed
eccoci avvicinarsi al 93° anniversario del genocidio armeno…
Quanti
anniversari dovremo ancora commemorare prima che esso sia riconosciuto
dalla Turchia e dal mondo intero, che sia scritto nei libri di storia
ed insegnato nelle scuole?...Quanti?...quanti ancora?
Davanti
al khatckar importato dall’Armenia e posto nel comune di Bagnacavallo,
i rappresentanti, assieme ai cittadini, il 24 aprile di ogni anno,
si radunano per deporre ufficialmente una corona di fiori. Conferenze,
films. Non succede niente. La Turchia rimane sulle sue posizioni,
l’Europa le chiede timidamente il riconoscimento del genocidio
e gli anni passano e noi invecchiamo. Chi ci sarà dopo di
noi a rivendicare il nostro diritto alla memoria ? I nostri figli,
nati come noi in paesi stranieri, sono ormai impregnati dalla cultura
e dalla storia del paese in cui vivono. Piano, piano si stingerà
la memoria d’ essere l’ultimo anello di una discendenza
armena. Saranno talmente assimilati che non ricorderanno neppure
perché il loro cognome finisce con ”ian”.
Ciò
che c’è da fare va fatto ora, prima che la generazione
dei figli dei sopravvissuti giunga al termine. Abbiamo ancora nelle
orecchie l’eco dei loro pianti, nei nostri occhi stampate
le loro facce sempre tristi inondate da improvvise pozzanghere di
lacrime.
Quante
sono larghe, di che colore sono, di quale tessuto sono costituite,
quanto sono solide, le maglie dell’immensa rete che il piccolo
popolo armeno con la sua tragedia e la sua feroce voglia di continuare
ad esistere, ha steso attorno al mondo e alle coscienze? Il genocidio
ha sepolto in modo brusco ed irreversibile la vecchia Armenia anatolica
con la sua storia millenaria, i suoi usi e costumi ed al posto di
quella Armenia ne ha create due. Una caucasica, con visione dell’Ararat,
destinata alla conservazione fisico/spirituale di quanto resta,
al mantenimento della lingua e della memoria in senso stretto, per
ora esportatrice di uomini e di speranze. L’altra Armenia
non ha problemi di frontiere, è una nazione sparsa dentro
altre del mondo, vivacissima, intraprendente, generalmente colta,
modernissima, fatta di donne e uomini perfettamente integrati nei
loro stati di adozione.
In
questo preciso momento sono loro la voce più autorevole che
può dirottare la frastornata e distratta opinione pubblica
internazionale sui problemi storici, politici ed umanitari che l’entrata
della Turchia in Europa sta sollevando.
Sono
queste donne e questi uomini che stanno aiutando in ogni maniera
l’altra Armenia ancora impastoiata da molti decenni di dittatura
e di povertà.
Sono
i laici che da sempre aiutano la chiesa armena sia in patria che
altrove e purtroppo non sempre riescono nel loro intento.
Se
è vero che i turchi ci hanno inflitto tutto il male possibile
ora però tocca a noi, figli, nipoti e pronipoti, uscire allo
scoperto, coprire con un velo trasparente i nostri morti, e finalmente
stendere sui nostri tappeti la nostra mirabile mercanzia. E non
parlo solo d’ archeologia, di costumi, di letteratura, di
arte, di musica dei tempi passati, parlo dell’oggi, degli
uomini d’oggi, di coloro che, in ogni campo, in ogni luogo,
con amore e passione, aiutano il lento incedere del fragile carro
della vita umana.
Alice
Tachdjian
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