XX
SECOLO: Genocidio - Genocidi
Discorso del Prof. Giuliano Vassalli
in occasione dell'iniziativa "XX Secolo: Genocidio - Genocidi"
Sono
nato il 25 aprile del 1915. E' una premessa dovuta, innanzi tutto
per scusare la pochezza del mio dire, che - a parte le fragili basi
- è resa vieppiù grave dalle condizioni d'età
o di notevole stanchezza nelle quali mi trovo. Ma è anche
uno speciale legame al tema di oggi, o al principale dei temi di
oggi, il genocidio degli Armeni dell'Impero ottomano. Esso si suol
datare proprio da quel giorno (per l'esattezza dal sabato 34 aprile)
quando nella stessa Istanbul fu fatta una retata di settecento e
più intellettuali armeni che risiedevano in quella città
e che poi, deportati in Anatolia, vennero barbaramente trucidati
a colpi di scure. Una data importante e sempre indicata come la
fondamentale, anche se il genocidio si protrasse per anni ed anni,
durante tutto il restante corso della prima guerra mondiale (ricordo
il terribile ordine emanato dal ministro della guerra Enver Pascià
nel febbraio 1918), e poi sin nel 1919 ed oltre, sino al 1922, ed
anche se esso era stato preannunciato ufficialmente, proprio come
sterminio di una "razza maledetta", dal Ministro dell'Interno
Talaat Pascià un mese e mezzo prima del 24 aprile, il 9 marzo
1915, come risulta da un celebre passo, riportato anche nel cartoncino
che presenta questa nostra tavola rotonda. Accade che, nel corso
della propria vita, qualcuno si domandi quali erano i fatti salienti
nel mondo nel momento in cui ebbe a nascere. E cosi mi è
capitato, nell'adolescenza e nella gioventù, di scoprire
che il 25 aprile 1915, nel nostro più limitato orizzonte,
era il giorno in cui 1'Italia aveva comunicato a Francia ed Inghilterra
che avrebbe intrapreso le ostilità contro gli Imperi centrali
di lì a un mese, come poi avvenne, e che, in un orizzonte
più lontano, aveva avuto inizio il tentativo di annientamento
del popolo armeno. La parola genocidio non era stata ancora coniata,
ma sterminio ed annientamento sono vocaboli che figurano più
volte in quei testi impressionanti che gli organizzatori di questo
incontro ci hanno preliminarmente offerto nel quadro di una vasta
documentazione, tratta da fonti originali (anche se qualcuno - i
negazionisti sono sempre esistiti - si è affannato per decenni
a contestarle o a ridurne significato e portata).
Del
resto, le persecuzioni degli Armeni nell'Impero ottomano, a tacer
d'altri precedenti, erano cominciate, anche in occasione di sollevazioni
dovute a tante promesse non mantenute, sotto il pretesto della preparazione
d'una sedizione e affidando in quell'occasione la bisogna a battaglioni
di curdi, sotto il regno di Abdul Hamid II, e fu una carneficina
di due o trecentomila vittime che durò almeno tre anni, dal
1894 al 1897, nella piena consapevolezza sia pure sdegnata delle
altre potenze. Poi, come è noto, venne il dominio dei cosiddetti
"giovani turchi"; e fu nel 1912 che il cosiddetto "Congresso
del comitato per l'unione e il progresso" (Ittihad-ve-Terraki)
adottò una risoluzione per la turchificazione di tutti i
residenti nell'Impero e segnatamente delle popolazioni cristiane
ivi residenti. Turchificazione o ottomanizzazione - si aggiungeva,
"che non potrà mai essere realizzata con mezzi persuasivi,
ma solo con la forza delle armi".
Così
fui anch'io attratto da questa storia singolare, di un popolo di
antica e tormentata storia e di grandi tradizioni culturali, molto
più numeroso credo di quello degli Armeni che si trovano
oggi nel mondo, divisi ormai da gran tempo in tanti filoni, di cui
i tre fondamentali: quello della diaspora in tante regioni vicine
o lontane, quello delle vittime dell'immane eccidio ottomano, e
quello di quei sopravvissuti fortunati (così dobbiamo chiamarli
in forza dei misteri della storia) dell'Armenia orientale che, essendosi
trovati ad appartenere alla Persia in regioni da questa poi cedute
alla Russia con trattati del 1813 e del 1838, seguirono le sorti
dell'Impero zarista e della rivoluzione sovietica e dopo aver fatto
per breve tempo parte di un piccolo Stato autonomo che seppe validamente
organizzarsi a difesa della propria indipendenza e poi della repubblica
federativa socialista sovietica della Transcaucasia insieme ad Azerbagian
e a Georgia, conseguirono, come le altre due repubbliche finitime,
la loro autonomia nell'ambito dell'Unione sovietica, nel 1936. Fu
così che sopravvisse o rivisse il nome di Armenia come comunità
nazionale territorialmente e istituzionalmente identificabile, sia
pure tanto più piccola dell'Armenia reale, fino ad essere
oggi, dal 1991, una repubblica del tutto indipendente, facente parte
della Comunità degli Stati indipendenti, ma purtroppo in
sotterraneo (e non sempre sotterraneo) contrasto con altra repubblica
confinante e appartenente a quella medesima Comunità.
E' a questa Repubblica indipendente ed autonoma di Armenia che,
nella persona del Signor Ambasciatore dr. Gaghik Baghdassarian,
rivolgiamo qui tutti il nostro saluto, ringraziandolo, unitamente
alla Provincia di Roma, per l'iniziativa odierna.
Questo
premesso, non parlerò più dell'Armenia se non in modo
incidentale, essendo mio compito di relatore almeno cosi penso in
relazione ai miei interessi di studio - di parlare del genocidio
in generale, mentre L'onorevole Giancarlo Pagliarini, autore e primo
presentatore di una mozione illustrata esattamente un mese addietro
(il 3 aprile) alla Camera dei Deputati e che tutti abbiamo avuto
la fortuna di leggere e l'occasione di ammirare, si occuperà
- penso - specificamente del genocidio del 1915 e degli anni seguenti
e delle iniziative che sono in corso per farne rivivere ovunque
il riconoscimento e la memoria, così come è stato
fatto per l'0locausto ebraico della Seconda guerra mondiale e per
le altre vittime della barbarie nazista: russi, polacchi, baltici,
uomini e donne dell'Europa occidentale e settentrionale.
I
temi terribili che l'odierna tavola rotonda ripropone hanno sempre
formato oggetto, per me come per altri penalisti, di un forte interesse
non solo storico ed umano, ma anche giuridico. La mia prolusione
alla cattedra di diritto penale nell'Università di Genova,
sulla quale ebbi l'onore di ascendere nel 1945 (era appena iniziato
il processo di Norimberga) aveva per titolo "I delitti contro
l'umanità e il problema giuridico della loro punizione".
Fu ripubblicata nel 1995, dunque quarant'anni dopo, insieme ad altri
miei scritti successivi che denotavano un costante interesse per
la materia, in un volumetto intitolato "La giustizia internazionale
penale" e quando da poco si erano insediati, sulla base di
Risoluzioni dell'ONU, i tribunali dell'Aja e di Arusha, rispettivamente
per i crimini commessi nei territori della ex - Jugos1avia e del
Ruanda: tribunali ad hoc, come quelli di Norimberga e di Tokyo,
in attesa dell'auspicata Corte permanente penale internazionale,
ancora ben lontana - purtroppo - dalla sua effettiva realizzazione.
La
letteratura giuridica su questi temi è stata vastissima,
dal 1945 ad oggi (e con interessanti prospettive, ma più
rara, anche negli anni che immediatamente precedettero e accompagnarono
la seconda guerra mondiale), peraltro più nei paesi anglosassoni
e in Germania che nella nostra Italia. Tutto è stato detto
e ridetto ed è molto difficile aggiungere qualche cosa di
interessante o di utile. Mi limiterò ad una osservazione
di fondo e ad alcune notizie - peraltro anche queste già
conosciute sul concetto stesso di genocidio e sulla sua storia nell'ultimo
cinquantennio.
L'osservazione
di fondo muove da esperienze e considerazioni fatte dagli uomini
di legge della mia generazione, o da una parte di essi. Mi permetto
di leggere la pagina iniziale della mia introduzione al citato volume
sulla Giustizia internazionale penale. "La generazione - scrivevo
- alla quale appartengo, passando attraverso il turbine della seconda
guerra mondiale, si è trovata a confrontarsi con una realtà
devastante e, almeno sino a quei limiti, inimmaginabile: i crimini
contro l'umanità e la loro pianificazione. Conoscevamo, sin
dai libri di scuola, l'orrore delle guerre più antiche: l'obbiettivo
dello sterminio del nemico o della sua riduzione in schiavitù;
e ne potevamo immaginare le modalità atroci. Ma quei ricordi
e quelle immaginazioni rimanevano come confinati nelle meditazioni
di un passato fosco e barbarico, accettato con tutto il carico di
ciò che era il portato di un mondo superato ormai da secoli
e sulla via di essere vinto in nome di ideali diversi: prima di
tutto il superamento delle guerre e, dove ciò non avvenisse,
dalla progressiva creazione di un sistema di regole, universalmente
accettate, per ridurre gli effetti più terribili dei conflitti
armati e cercare l'affermazione di irrinunciabili esigenze umanitarie
anche nel vortice degli orrori che ogni guerra porta con sé.
Prima che nascessimo già vi erano state, sin dal secolo precedente,
una serie di convenzioni contro la schiavitù, per la protezione,
da altri terribili pericoli, dei popoli appartenenti a continenti
più indifesi, per la difesa delle popolazioni civili nel
tempo di guerra; il nostro secolo si era aperto - può dirsi
- con le Convenzioni dell'Aja per il rispetto dei prigionieri di
guerra, dei feriti, dei naufraghi e, ancora, dei civili. Sapevamo,
certo, del ricorso, durante la prima guerra mondiale, d mezzi di
guerra inumani come gli aggressivi chimici o, fino a guerre successive,
di pallottole dilaceranti e comunque di mezzi bellici dotati di
una carica di aggressività destinata a rendere più
terrificante e dunque, presumibilmente, più efficace l'avanzata
di uno dei contendenti; ma si continuava a confidare che anche queste
materie fossero destinate a cadere sotto le previsioni internazionali
e sotto l'auspicabile effetto preventivo delle relative sanzioni.
Di genocidio, nell'epoca della nostra gioventù, almeno in
questa parte d'Europa, non si parlava, anche perché un inspiegabile
silenzio era sceso sull'eccidio dei seicentomila armeni che vivevano
in Turchia nel 1915, come se l'amnistia implicita nel Trattato di
Losanna del 1923 avesse cancellato, con le conseguenze giuridiche,
anche il ricordo di quei terribili eventi" (scrissi "seicentomila",
ma molti testi da me visti successivamente parlano di un milione
e mezzo di vittime).
"La
seconda guerra mondiale ci pose, in Europa come in Asia, a contatto
diretto o quasi diretto con fatti di proporzioni e di atrocità
inaudite. Per quanto si fosse potuto immaginare, supporre o intuire,
le scoperte agghiaccianti del 1945 superarono ogni immaginazione
e dettero la riprova di quanto fosse stato preveggente l'atteggiamento
delle parti che poi uscirono vittoriose dall'immane conflitto quando
avevano sancito la necessità di punire gli autori di quei
disumani massacri e avevano stipulato i necessari accordi in vista
della realizzazione di quel fine.
"Per
i giuristi in generale, e per i penalisti in particolare, si ponevano
inderogabilmente numerosi problemi giuridici legati a quelle minacce
e a quegli accordi: da un lato la comune, e quasi universalmente
sentita, esigenza della punizione, dall'altro la ricerca di un suo
solido fondamento giuridico. Ricordo che questi problemi tormentavano
tutti, ma in particolare i penalisti più giovani, quelli
della mia generazione: forse l'età portava a riflettere sui
problemi più reali e profondi del reato e della pena e rendeva
meno scettici circa i destini dell'umanità.
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