Le
donne d'Armenia
Di seguito presentiamo l'articolo di Pietro Kuciukian
per "Il Sole 24 Ore", in cui il giornalista recensisce
"La masseria delle Allodole" di Antonia Arslan
"Antonia
Arslan, dopo avere scavato nelle memorie della famiglia, compone
un romanzo che, partendo dalle vite della zia Henriette, del nonno
Yerwant, dello zio Zareh, rilancia con forza la figura femminile
Armena.
Con determinazione la donna Armena ha conservato per millenni, assieme
alla Chiesa, la Nazione.Se nelle intenzioni dell'autrice c'era prepotente
la denuncia del genocidio degli Armeni, il primo del XX secolo,
negato fino ad oggi dai successori dei carnefici, ciò che
colpisce nel libro è la capacità sovrumana di resistenza
delle donne Armene. Fin dall'antichità il femminile negli
Armeni ha avuto un'importanza che non ha uguali negli altri popoli:
dai miti fondativi dell'Armenia pagana e cristiana (la Dea Anahid,
la santa Hripsimé) alle vedove dei soldati della battaglia
di Avarayr contro i Persiani nel 451 che strapparono allo Shah i
primi diritti umani. Dal VII secolo gli invasori si sono accaniti
contro i maschi Armeni deportandoli, decimandoli e la sopravvivenza
della nazione è stata affidata alla donna.
Anche
oggi, con la migrazione degli uomini dall'Armenia in cerca di lavoro,
le donne rimangono tenacemente attaccate al Paese, custodi di "orfani
sociali". La Arslan ha diviso il suo romanzo, scritto in uno
stile e un italiano perfetto (una rarità al giorno d'oggi),
in due capitoli, uno dedicato allo zio Sempad e l'altro alla moglie
Shushanig. Il primo narra la vita quotidiana degli Armeni in un
villaggio d'Anatolia, il secondo la deportazione ed il genocidio
del 1915. Ad una lettura accurata, ciò che colpisce, ciò
che sembra togliere la speranza del perdono e della riconciliazione
è il "capitolo nascosto", le pagine che descrivono
il massacro a fil di spada da parte dei gendarmi Turchi Ottomani,
gli "Zaptiè" di propri sudditi innocenti, ridotti
a brandelli non per ciò che avevano fatto ma per ciò
che erano: Armeni.
Sono
pagine che giungono nel profondo dell'uomo d'oggi, che lacerano
qualsiasi fede, che hanno senso in quanto raccontano il non senso.
Nella vita quotidiana del villaggio Armeno anatolico, ago e filo,
giocattoli e bambini, arrosti e pilav, pianoforte e violino, messe
e canti, descritti nella prima parte del libro in maniera analitica,
irrompe prepotente e catastrofica la storia che tutto scardina:
i corpi si degradano, le proteine ritornano sostanze azotate, sali,
terra. Non "Morte", ma passaggio diretto dalla vita alla
terra.
Oggi,
come in quel lontano 1915, ci giungono quotidiane notizie di carne
innocente spezzata e non abbiamo "donne armene" che inglobino
l'orrore, neutralizzandolo con la forza del silenzio, testimoni
viventi di ciò che ci sta accadendo, ma capaci di lenire
le ferite della memoria, di dare un senso al rimosso, di vincere
le patologie della perdita. Non abbiamo più una zia Henriette
che ripeteva sempre: "Quando sarò proprio stanca di
stare con voi, me ne andrò. A Beirut da Arussiag, ad Aleppo
da zio Zareh, a New York da Ani o anche a Copacabana dal cugino
Michel. Lui però per ultimo, perchè ha sposato un'assira".
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