"Deportazione,
una questione risolta al Mattatoio": intervista a Gérard
Chaliand
Articolo
di Idolina Landolfi per "Le Monde Diplomatique"
- Maggio 2004
È venuto il tempo della parola, che, dove arriva, lenisce,
ha scritto un poeta del nostro secolo. Gérard Chaliand, studioso
francese di origini armene, ha avuto la famiglia sterminata dai
turchi, ma per tutta la vita ha rifiutato di ricordare la storia
tragica del suo popolo, recuperando solo in età avanzata
il desiderio di saldare i conti con questo passato familiare e collettivo,
nascosto in un angolo profondo della sua coscienza. Perché
l'odio per questo popolo austero, laborioso, intelligente, a un
certo punto considerato una minaccia per la sua maestria negli affari,
la sua conquistata ricchezza; l'odio, soprattutto, per il loro essere
di fede cristiana, e non voler abiurare, è sentimento che
gli Armeni hanno ispirato sin dalla fine dell'Ottocento. Hanno partecipato
a tutti i movimenti rivoluzionari d'Oriente: nella Transcaucasia
contro lo zar, con i macedoni contro l'impero ottomano; fino alla
rivoluzione dei Giovani Turchi contro la tirannia di Abdul Hamid,
che hanno appoggiato. «Agli inizi del secolo li si ritrova
in tutte le lotte operaie, da Tbilisi a Baku, accanto ai menscevichi
e bolscevichi russi e georgiani. Nell'impero ottomano tentano invano
di diffondere gli slogan della lotta di classe e di predicare l'alleanza
dei popoli sfruttati contro i dirigenti e i loro abusi».
Del 1895 i primi massacri ordinati dal sultano Abdul Hamid, in cui
i turchi ammazzano il bisnonno di Chaliand; dopo varie vicissitudini,
suo nonno diviene ricco e amico dei potenti turchi, che riceveva
a casa propria, che lo trattavano da amico. Costruì un ospedale,
per loro, ora adibito a caserma. Nel 1908 scoppia la rivoluzione
dei Giovani Turchi e cominciano nuovi massacri; del triumvirato
Talaat, Enver e Gemal Pascià la decisione di liquidare l'intera
comunità.
«La questione armena risolta al mattatoio» scrive secco
Chaliand.
E cominciano dapprima le carneficine degli uomini, quindi le deportazioni
in massa di vecchi, donne e bambini, istradati in lunghe file verso
il deserto della Siria («destinazione il nulla», come
nel film Ararat, di Atom Egoyan), senza acqua né viveri,
finché non ne resta nessuno.
«Carovane di folli tra cui le madri uccidono i propri figli.
Occhi accecati, labbra tagliate col rasoio, donne incinte sventrate
per riderne. Alcuni vecchi sono stati ferrati come degli asini e
si trascinano a quattro zampe prima di ricevere una sciabolata nell'ano.
Altri, con la lingua tranciata, schiumano, con la bocca aperta,
un atroce dolore muto». Dalla parte del bisnonno di Chaliand
ne sono sopravvissuti due, di nove che erano. E suo nonno, sua nonna,
e cinque di loro fratelli e sorelle sono stati uccisi nella successiva
ondata di epurazioni.
Le torture: perché tanta ferocia? Qui non c'era nulla da
ammettere, da confessare. E allora perché giocare a pallone
con le teste mozzate, tirare in aria i bambini e infilzarli con
la baionetta, o impalare badando a non ledere subito gli organi
vitali? Con pudore ma con grande forza assertiva Chaliand parla
dell'«ossessione del sesso»: «Il massacro è
finalmente in libera uscita». Poter finalmente avere le ragazze,
vergini, che si sono viste passare tante volte per strada, promesse
ad altri. Farne scempio. Pochi anni dopo questi orrori, scatta l'operazione
Nemesis, contro i responsabili del genocidio (più di un milione
e mezzo di Armeni sterminati, e gli altri in diaspora), organizzata
in tre continenti, «la caccia all'uomo più straordinaria
del XX secolo». Nel 1921, a Berlino viene abbattuto l'orrendo
Talaat, per mano di un ventiquattrenne che ha perduto l'intera famiglia;
nello stesso anno, a Roma, un «vendicatore» di ventidue
anni giustizia con una pallottola in testa l'ex gran visir del primo
governo dei Giovani Turchi, Said Halim; a Berlino, ancora, vengono
colpiti a morte Behaeddin Shakir e Gemal Azmi.
La scrittura di Chaliand, tra tanti orrori, si leva a tratti nella
descrizione lirica della sua terra, brulla, irraggiungibile, parrebbe;
i monasteri fortificati in vetta ad asperrime montagne, le chiese-rifugio
sulle vie tra la Cilicia e la Cappadocia, i paesini «a nido
d'aquila».
O si abbandona talvolta alle private visioni che gli riporta una
memoria a lungo volutamente oscurata, immagini di vecchie nere,
in perenne lutto per troppi morti, e che ancora recano alla cintola
la chiave di una casa che non hanno più da tanto, tanto tempo.
Note:
Gérard
Chaliand, Memoria della mia memoria, traduzione di Gianni
Schilardi, Lecce, Argo, 2003, 8,00 €.
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