Armenia,
il "Grande Male" scaccia il Paradiso
Di
Geraldina Colotti per "Le Monde Diplomatique"
del Maggio 2004
Lunghe
colonne di armeni, ridotti allo stremo, marciano verso la città
di Aleppo. È il 1915. Alle fonti del Tigri e dell'Eufrate,
dove la Bibbia dice si trovasse l'Eden, ora c'è l'inferno.
Pochi superstiti sopravviveranno, decimati dai banditi curdi e dagli
tchété, truppe irregolari formate da criminali comuni
turchi liberati apposta. Nei piani del ministro degli interni turco
Talaat, ogni maschio deve essere soppresso per evitare che possa
vendicarsi. Tutti gli uomini sono in prigione o eliminati. Nei primi
mesi dell'anno sono stati neutralizzati i battaglioni armeni, uccise
le élite di Costantinopoli e i notabili di una minoranza
colta e danarosa, che possiede il potere economico ma non quello
politico. Il 27 maggio, un decreto dei Giovani Turchi - i nazionalisti
al potere - consente ai militari di deportare la popolazione. Tra
il maggio e il luglio tutti gli armeni delle province orientali
di Bitlis, Trebisonda, Sivas, Kharpert, Erzerum, Van, Diyarbakir
vengono sterminati. Oltre un milione di morti. Da allora, il 24
aprile gli armeni celebrano Metz Yeghern, il Grande Male, termine
con cui definiscono il genocidio. «Quando è separato
dal diritto e dalla giustizia, l'uomo è il peggiore di tutti
gli animali», scriveva Aristotele.
In
quelle colonne sfinite restano pochi vecchi a ricordare i precedenti
massacri, compiuti dal sultano Abdul Hamid tra il 1894 e il 1896,
e poi ancora a Adana nel 1909. Restano le donne un tempo eleganti
e altere, ora «con i vestiti a brandelli e un cencio in testa».
Alla loro fierezza indomita, la studiosa Antonia Arslan dedica un
romanzo, La masseria delle allodole (Rizzoli, 2004, 15 euro), basato
sulle memorie di famiglia. Racconta il salvataggio di alcune profughe
e di un bambino vestito da femmina, compiuto da uno zio dottore,
ben introdotto nell'ambasciata francese. Tra i superstiti, dato
per morto insieme alla famiglia che ha visto sterminare, c'è
anche il giovane Soghomon Teylirian. Il 14 marzo 1921 sarà
lui a uccidere il turpe Talaat in un quartiere di Berlino.
Di
fronte a un tribunale tedesco racconterà gli orrori del Grande
Male e sarà assolto per infermità mentale. E questo
non è più romanzo ma storia. L'attentato scuoterà
qualche coscienza tedesca in un paese ispiratore e complice del
militarismo turco. La Turchia è infatti il baricentro d'azione
dell'imperialismo tedesco fin dalla seconda metà del 1800.
La Germania contende all'Inghilterra la costruzione di «grandiose
opere civili» che portano alla rovina i contadini dell'Asia
minore. Imprese colossali il cui costo viene coperto dalla Deutsche
Bank con un ampio sistema di debito pubblico.
«E
così - rileva Rosa Luxembourg negli Scritti politici - lo
Stato turco diviene per l'eternità debitore dei signori Siemens,
Gwinner, Helferich come lo era stato del capitale inglese, francese,
austriaco».
I
costi vengono coperti dal basso con un sistema di doppie tasse a
cui i contadini armeni si ribellano, chiedendo riforme. Anche gruppi
rivoluzionari greci, bulgari e macedoni insorgono contro il governo
ottomano. Gli armeni portano l'attacco all'interno del paese e nella
capitale dell'Impero. Rivolte e manifestazioni pacifiche finiscono
nel sangue. Finché, nell'agosto del 1896, un gruppo armato
occupa la Banca Ottomana, roccaforte della finanza europea, dove
prevalgono gli investimenti britannici e francesi: «Il tempo
dei giochi diplomatici è finito - scrivono in un volantino
rivolto alle Potenze - il sangue versato dai nostri centomila martiri
ci dà il diritto di pretendere la libertà».
Quindici dei 25 insorti vengono tratti in salvo dalla mediazione
russa e francese. Ma i tentativi di forzare la mano alle Potenze
per indurle a intervenire risultano vani. Non ci saranno riforme,
e anzi il potere si vendicherà sulla popolazione civile.
Per
Abdul Hamid, gli armeni ottomani si dividono in 3 categorie: quelli
che vogliono l'indipendenza, quelli che premono per l'annessione
alla Russia e quelli che sono «perfettamente legali»,
la grande massa della popolazione. E infatti, a parte questi anni
di rivolte e un episodio di resistenza sulla Montagna di Mosé
(il Mussa Dagh), conclusosi felicemente nel 1915, gli armeni si
consegnano increduli al boia o alla diaspora. Vakan N. Dadrian,
sociologo e direttore del Genocide Research presso il Zoryan Institute
di Toronto lo dimostra in una monumentale ricerca d'archivio, Storia
del genocidio armeno (Guerini e associati, 2003, 35 euro). Decenni
di lavoro frutto di numerosi viaggi di studio in Europa, in Medioriente
e nell'America del Nord alla ricerca delle fonti. Il libro s'interroga
sul processo di «vittimizzazione» di una collettività
vulnerabile a opera di un gruppo potente determinato a distruggerla
e sulle conseguenze nefaste che «le idee possono avere in
certe circostanze».
Le
circostanze, sono gli interessi geopolitici delle grandi potenze
a cui l'Armenia è d'ostacolo e le guerre (i conflitti balcanici
e la prima guerra mondiale) che banalizzano il valore della vita
umana. Dadrian racconta come abbia deciso di abbandonare gli studi
di matematica e filosofia per dedicarsi all'analisi di «un
argomento tanto terribile».
Accadde
dopo la scoperta del famoso romanzo di Franz Werfel, I Quaranta
giorni del Mussa Dagh (Corbaccio). Un libro scritto per «informare
il resto del mondo, e in particolare gli ebrei, per mezzo della
letteratura, dello spaventoso presagio che lo sterminio degli armeni
rappresentava». Il volume di Dadrian si propone di analizzare
il genocidio armeno in prospettiva storica e storiografica, basandosi
soprattutto su documenti ufficiali turchi ottomani e poi su fonti
provenienti dagli archivi dell'allora Unione sovietica, dove fu
inclusa la Repubblica armena. Il 28 maggio del 1918, infatti, gli
armeni insorgono a Sartarabad e proclamano la Repubblica, e quel
giorno è ancora oggi festa nazionale. Nuovamente assediati
dai turchi, vengono salvati dall'Armata Rossa reduce dalla rivoluzione
del '17. Nel 1920 i sovietici annettono l'Armenia. Oggi quel paese
montuoso posto tra la Georgia e l'Azerbaigian, la Turchia e l'Iran
su una superficie di 29.800 km2, è di nuovo indipendente
dal '91 (dopo il crollo dell'Urss) e comprende 3,8 milioni di persone.
«Assassinare un uomo è un crimine, assassinare un popolo
è "una questione"», scriveva Victor Hugo.
Dadrian mette la frase in evidenza per spiegare il lungo cammino
nel «vuoto di memoria delle Nazioni unite» compiuto
dal popolo armeno. Un altro saggio ponderoso, Voci dall'inferno
dell'americana Samantha Power (Baldini Castoldi Dalai, 2003, 22,60
euro) ricostruisce l'origine del termine genocidio a partire dalle
memorie dell'ebreo polacco Raphael Lemkin che lo impose all'attenzione
mondiale. Il ventenne Lemkin, che studia linguistica quando l'armeno
Teylirian uccide il ministro turco Talaat, chiede alla madre, filosofa
e pittrice: «È reato per Teylirian uccidere un uomo
e non lo è per il suo oppressore uccidere più di un
milione di persone?». E la madre risponde che quando lo Stato
decide di eliminare un gruppo etnico o religioso, la polizia e la
cittadinanza diventano «complici e non custodi della vita
umana». Inorridito «dalla frequenza del male»,
Lemkin dedicherà tutta la vita alla questione del genocidio,
inascoltata Cassandra nell'incombere dell'Olocausto che gli distruggerà
la famiglia. Genocidio, combinato del greco geno (razza o tribù)
col latino cidio (dal verbo caedere, ovvero uccidere). Il termine
entra nell'uso comune e viene adottato dall'Onu il 9 dicembre 1948.
Ma la grande fiducia che Lemkin depone nel linguaggio non servìrà
a prevenire altri crimini contro l'umanità nel corso del
Novecento. Nel '94, i media razzisti dell'Hutu Power in Ruanda fomenteranno
il genocidio di oltre un milione di tutsi e hutu moderati proprio
usando ad arte il linguaggio: i tutsi sono inyenzi, scarafaggi,
come gli armeni all'epoca erano chiamati dai turchi giaurri, infedeli.
Samantha Power evidenzia responsabilità o inadempienze degli
Stati uniti nel bestiario degli orrori che ha costellato il secolo
scorso, ma non ne cita che alcuni. Una stagione all'inferno (Une
saison au Congo, titolava Césaire a proposito del pogrom
dei Luba in Congo), inaugurata dal Grande Male armeno, che la Turchia
attuale non ha ancora riconosciuto. La Turchia che mette in galera
chi pubblica libri sul genocidio armeno. La Turchia, alleata di
Sharon e gendarme d'Oriente. La Turchia che vuole entrare in Europa.
|