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6 -Dic 2023- Maria Adelaide Lala Comneno Arch Armena
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ARCHITETTURA ARMENA, PERCHÉ? QUALCHE CONSIDERAZIONE
ASISTEMATICA
(lectio magistralis)
Maria Adelaide Lala Comneno
Ben lungi da una lectio magistralis questi scarni appunti, quasi didascalie del power point presentato, vogliono essere, piuttosto, una sorta di pulce nellʼorecchio, volti a suggerire curiosità, più che a dare risposte.
Qualche considerazione sull’architettura in generale. Secondo Gogol’, “L’architettura è anche annali del mondo, l’architettura parla quando ormai tacciono i canti e le storie, e quando ormai nessuno più parla di popoli passati”. Da aggiungere che per l’Armenia, e per gli Armeni, che sono ben lungi dall’essere un popolo passato, l’architettura è la storia non scritta di un popolo che ha scritto tanto. Più recentemente un giudizio di Renzo Piano “L’architettura è un servizio… L’architettura nasce dalla sintesi di società, scienza e arte…”. Anche se non mancano considerazioni diverse, come quella di Le Corbusier che scriveva: “Architettura è stabilire rapporti emozionali con materiali grezzi. L’architettura è al di là dell’utile. L’architettura è un fatto plastico”. E l’architettura armena si presta a riflessioni di questo tipo.
E la storia dell’architettura non deve essere scritta solo dagli architetti, ma anche dagli storici, proprio perché l’architettura è anche l’indice (o almeno uno degli indici) della civiltà dei popoli, uno dei segni più tangibili dei percorsi storici, religiosi, economici, sociali da indagare in modo pluridisciplinare.
Voglio riportare qui la definizione di architettura armena di un giovane studente di ingegneria, non addentro alla materia, ma che ha visto diversi edifici armeni: “insieme di geometrie razionali, di volumi astratti, di forme pure che si intersecano, si compenetrano e si espandono”. Come ha colpito nel segno, sinteticamente ! Qualche considerazione, asistematica, appunto, sull’architettura armena.
Una prima considerazione, forse provocatoria: architettura armena, architettura ʻorganicaʼ ante litteram ?
Esemplare è la Casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright (1867-1959), progettata nel 1935, costruita tra il 1936 e il 1939, in N. Pennsylvania. L’architettura organica utilizza, tra l'altro, solo materiali del luogo; alla base ci sono coordinazione, sintonia espressiva, principio di armonia. Viene ricercato e ottenuto un equilibrio tra ambiente naturale e ambiente costruito, un rapporto speciale tra l’individuo e la natura, e, in particolare, un rapporto tra lo spazio architettonico e la natura.
Comparabile, per certi versi, a numerose chiese armene che ‘dialogano’ con il paesaggio, in cui sono state perfettamente inserite, realizzando un equilibrio tra ambiente naturale e ambiente costruito. Una architettura del naturale, che in realtà contiene tanti altri elementi.
Tra gli esempi: Gndevankh del X e XVIII secolo, sullo sfondo di rocce a canne d’organo, Saghmosavankh del XIII secolo e Hovhannavankh del V e XIII secolo, entrambi vertiginosamente a picco sul fiume Kasagh, Tathev del X-XI e XIII secolo, straordinaria insula montana, Geghard del XIII secolo, parzialmente rupestre nella gola del fiume Azat, Haŕitchavankh del VII e XIII secolo, tra le ripide pareti di roccia da tre lati.
Una seconda considerazione su architettura armena e simbolo.
Le grandi croci volumetricamente rilevanti costituite dalle geometrie simboliche delle masse delle chiese, segnano in modo incontrovertibile un territorio che doveva essere cristiano per eccellenza. Ma chi poteva vederle dall’alto? E, del resto, in ambito geografico e storico completamente diverso, chi poteva vedere dall’alto i mastodontici (lunghi chilometri), nonché numerosi disegni, detti geoglifi, incisi sul terreno, realizzati dalla cultura Nazca, lungo le coste meridionali del Perù in un periodo probabilmente assai lungo (I-VII secolo d. C.)? Visibili solo dall’alto, di significato probabilmente religioso, ma ancora praticamente sconosciuto.
Tra gli esempi di chiese armene che si caratterizzano in modo particolare per la loro volumetria cruciforme si possono citare: Ōtzun e Lmbat del VII secolo e S. Amenaphrkitch nel convento di Sanahin del X secolo.
Aspetti più noti e maggiormente studiati riguardano gli aspetti simbolici della decorazione architettonica.
Una terza considerazione, anche questa, almeno in parte, provocatoria: gli architetti armeni hanno anticipato tutto?
Per quanto riguarda le chiese romaniche, specie quelle italiane in pietra, si può senz’altro dire che sono raffrontabili con edifici armeni di molti secoli più antichi, per volumetrie, strutture portanti e coperture; l’architettura armena potrebbe essere definita, per certi versi, un romanico d’Oriente. Il grande orientalista e storico dell’arte Ugo Monneret de Villard aveva, già molti decenni fa, scritto “… tale risultato è raggiunto completamente in Armenia durante il VII secolo, mentre per arrivare a tanta logica costruttiva bisogna attendere in Occidente il pieno sviluppo dell’architettura romanica, cioè il XII secolo... Le planimetrie così speciali dell’Armenia si trovano in Europa parecchi secoli dopo la costruzione del prototipo Orientale” (“Arte cristiana e musulmana del Vicino Oriente”, in Le civiltà dell’ Oriente, Roma 1962, p. 465). Ovviamente esistono anche teorie diverse.
Ma anche per il Gotico, gli architetti armeni ne anticipano, come ad esempio nella Cattedrale di Ani costruita tra il 980 e il 1001, opera di Trdat, alcuni elementi: archi acuti e pilastri polistili, oltre a un grande slancio verticale, specialmente all’interno.
Una quarta considerazione-provocazione: ma gli architetti erano tutti armeni? Anche in Occidente, in contesti ed epoche diverse sembra presente l’opera di architetti armeni oppure a loro attribuibile. La Cappella Palatina ad Aquisgrana, opera capitale dell’architettura carolingia, si deve a Eudes de Metz, noto anche come Oto, Oton o Odon, forse armeno.
L’ampio, imponente nartece della Cattedrale di S. Evasio, Casale Monferrato, del XII secolo è stato messo a confronto con il gawith di S. Nshan nel convento di Haghbat, del 1201. Ma è soprattutto in area anatolica e caucasica dell’epoca che noi definiamo Medioevo, che l’architettura locale rimanda insistentemente e strettamente all’architettura armena.
Gli esempi di edifici di architettura islamica che presentano somiglianze troppo stringenti con l’architettura armena per essere casuali, sono veramente numerosi. Si possono citare, tra gli altri, a Divriği la Ulu Cami e l’annesso Ospedale, del 1228-1250, esemplare costruzione di epoca selgiuchide. Anche diversi mausolei simili, specie nelle coperture a chiese armene: ad Ahlat (Achlat, in armeno), Hasan Padisa Kümbet del 1275 e almeno altre due türbe del XIII secolo. Sono anche altri particolari architettonici che, accostati, segnalano evidenti somiglianze. Le scale a sbalzo di S. Astwadzadzin di Haŕitchavankh, del 1201 e poi quella di S. Astwadzadzin nel complesso di Noravankh Amaghu, del 1331-1339, confrontabili con quelle della moschea nel cortile interno di Sultan Han, presso Konya, del 1230 circa. Il motivo delle arcatelle cieche presente a S. Nshan di Ketchaŕis del 1225 e a Erzurum nella Hatunye Türbe della Ҫifte Minareli Medrese, del 1255. Le coperture interne piatte si ritrovano generalmente nei gawith, e anche nella cosiddetta Biblioteca di Saghmosavankh, del 1255, e a Divriği nella già citata Ulu Cami del 1228-1229. In certi casi le finestre hanno decorazioni simili: S. Astwadzadzin a Eghvard, del 1321-1328 da confrontare con il Mausoleo di Kaçin Dorbatli (Azerbaigian) del 1314, nonché con quello, più tardo, Emir Bayındır Kümbet ad Ahlat del 1481-1482.
Il tema, qui solo accennato, si presta senz’altro a studi dagli esiti interessanti. Alireza Naser Eslami nel suo recente Architettura del mondo islamico, Dalla Spagna all’India (VII-XV secolo) del 2010, p. 219, parla, tra le altre, di tradizioni armene che daranno “origine a nuove forme di espressione artistiche”, proprio in ambito selgiuchide. Da citare Sinan (1490 circa-1588), il più grande tra gli architetti ottomani, le cui origini sono rivendicate, in primis, dagli Armeni. La sua eccezionale capacità, anche tecnica, sarebbe senz’altro in linea con la tradizione di costruttori che gli architetti armeni avevano saputo creare nel corso dei secoli. Non si può non citare la dinastia di architetti al servizio dei Sultani, dalla fine del XVIII a tutto l’Ottocento, i Balian, che di padre in figlio hanno costruito un numero incredibile di edifici, dalla moschee ai palazzi imperiali, come quello di Dolmabahçe a Istanbul, per i quale venne abbandonato lo storico Topkapı.
Anche il tema dell’architettura armena fuori dall’Armenia non va ignorato: da un lato Nuova Giulfa (Nor Djugha, in armeno) alle porte di Isfahan, non estranea all’architettura safavide del tempo, dall'altro l’amplissimo mondo della Diaspora e delle sue chiese fedeli alla tradizione architettonica armena, indipendentemente dalla latitudine del luogo di costruzione.
LE CITAZIONI BIBLICHE NELLAՊԱՏՄՈՒԹԻՒՆ ՀԱՅՈՑ (STORIA DEGLI ARMENI)
DI PHAWSTOS BUZAND:
UNA PRIMA RICOGNIZIONE
Loris Dina Nocetti
Università di Bologna
La relazione che segue è un breve resoconto della mia recente ricerca sulle citazioni bibliche presenti nella Storia degli Armeni (Պատմութիւն Հայոց) che la tradizione e una fonte autorevole quale lo storico armeno Ghazar Pharpetsi attribuisce a Phawstos Buzand (o Buzandatsi) impropriamente italianizzato in Fausto di Bisanzo. Questa ricerca segue l’importante lavoro di traduzione in lingua italiana dell’opera intrapresa anni fa presso la cattedra di armenistica di Bologna e sotto la vigile e competente supervisione della prof.ssa Uluhogian, da chi scrive e dal prof. Marco Bais .
Ambiente storico-culturale dell’Armenia nel IV e V secolo
La Storia degli Armeni, scritta molto probabilmente intorno al 470 d. C., narra le vicende accadute in Armenia nel lasso di tempo che va dal 330, anno presunto della morte del re Trdat il Grande (298-330) , al 387 d. C., anno in cui l’imperatore bizantino Teodosio I e il re sasanide Šahpūh III si sono spartiti il regno di Armenia5. I cento anni e più che separano le vicende storiche dalla loro cronaca scritta rappresentano il più importante filtro attraverso il quale l’autore della Storia interpreta e registra gli avvenimenti accaduti un secolo prima. In questi cento anni il mondo armeno ha subito dei profondi rivolgimenti politici, religiosi e culturali che hanno influito non solo sulle vicende contemporanee, ma che hanno influenzato la storia dei secoli successivi: l’adozione del Cristianesimo come religione di stato, avvenuta all’inizio del IV secolo, e la lotta per la sua diffusione contrastata dal preesistente universo pagano, l’affermazione della nascente Chiesa armena che, seguendo una dinamica opposta al lento tramonto della dinastia arsacide , culminata con la sua estinzione e la conseguente perdita dell’unità e dell’indipendenza territoriale, diventerà la forza principale del paese, la creazione dell’alfabeto, avvenuta agli inizi del V secolo, con la grande produzione letteraria che ne seguì; tutto ciò trova un suo riflesso nella Storia degli Armeni. Essa, infatti, ci tramanda la memoria del progressivo declino degli Arsacidi d’Armenia, di come fu accompagnato dalle sanguinose guerre contro i potenti stati limitrofi e dalle lotte intestine, causate dai tradimenti e dalle apostasie dei grandi nobili antagonisti della corona. Della dottrina cristiana la Storia registra la lenta ma progressiva diffusione, contrastata dal persistere dei culti pagani e dalla divulgazione dell’arianesimo.
Infine essa è una delle opere composte pochi decenni dopo la creazione dell’alfabeto e, pur subendo ancora gli influssi dell’oralità, rappresenta uno dei testimoni più antichi di questa importante tappa nella cultura armena. Tappa che contiene in sé un paradosso, poiché, in tutte le civiltà, l’alfabeto è stato creato per sostituire l’oralità con l’alfabetismo, ma il primo compito che esso si è trovato a svolgere è proprio quello di fornire un resoconto dell’oralità prima che quest’ultima fosse sostituita definitivamente. Dobbiamo immaginare questa sostituzione come un lungo e lento processo, dove l’alfabeto servì sempre più a mettere per iscritto un’oralità che andava essa stessa modificandosi a contatto con la scrittura. Si può, dunque, affermare che quest’opera, per il suo contenuto e la sua forma letteraria, si pone a cavallo tra due mondi tra loro contrastanti ma anche contigui: tra paganesimo e cristianesimo, tra cultura orale e civiltà della scrittura, tra l’Oriente rappresentato dagli influssi della cultura siriaca e iranica sull’Armenia e l’Occidente greco. Il paganesimo, la cultura orale e gli influssi della cultura siriaca e iranica sull’Armenia hanno trovato un’ultima eco nella Storia degli Armeni prima di cadere definitivamente nell’oblio.
Problemi relativi all’identità dell’autore e alla composizione dell’opera
La Storia, nella forma in cui è giunta a noi, presenta una serie di problemi che riguardano la lingua originale in cui è stata redatta e di conseguenza la sua data di composizione, gli aspetti redazionali che lasciano supporre interventi nella disposizione dei libri e dei capitoli che ne hanno modificato l’aspetto originale7, ma il problema più dibattuto dai critici è quello relativo all’identità dell’autore e al titolo dell’opera. Tra le molte proposte di soluzione, quella che ha avuto maggiore fortuna a proposito dell'identità dell'autore è stata avanzata da Nina Garsoïan. Riassumendo la complessa questione filologica sorta a questo riguardo, ricordiamo che esiste una discrepanza tra il titolo Պատմութիւն Հայոց (Storia degli Armeni) e il nome dell'autore tramandato dalla tradizione e dalla testimonianza dello storico Ghazar Pharpetsi, ossia Phawstos Buzand o Buzandatsi e l'espressione che compare nei manoscritti a capo di ciascun libro della Storia, ossia Buzandaran Patmuthiwnkh senza accenno al nome di un eventuale autore. Questa locuzione è stata interpretata dalla Garsoïan e da altri studiosi prima di lei come «Storie Epiche» e le ha permesso di intitolare significativamente la sua traduzione dell’opera in lingua inglese The Epic Histories. Secondo questa nuova prospettiva critica l’opera sarebbe una raccolta di racconti indipendenti, creati e tramandati oralmente da anonimi cantori nei secoli in cui l’Armenia era priva di scrittura e riuniti, poi, in un unico testo da un compilatore altrettanto anonimo, dopo la creazione dell’alfabeto armeno. In questo modo si risolve il problema dell’identità dell’autore negandone in modo radicale la presenza8.
Tuttavia, nel pubblicare la traduzione della Storia ho deciso di mantenere il nome dell’autore sia per rispetto della tradizione millenaria, così come afferma la Uluhogian nella sua introduzione9, ma anche perché sono convinta che dalle pagine di quest’opera non emergano racconti spersonalizzati e svincolati gli uni dagli altri, come sarebbe se essa derivasse da un semplice assemblaggio di materiale narrativo precostituito. Pur costatando che nel testo vi sono numerose digressioni e ripetizioni e che in esso sono presenti molti tratti tipici della lingua, dello stile e dei contenuti che sono generalmente ascritti alle composizioni orali10, tuttavia, ritengo che dietro tutto ciò vi sia, comunque, un vero e proprio autore che dimostra una grande abilità di narratore e un'arte matura e consapevole nella capacità di tenere le fila del proprio racconto, di collegare fra loro i vari fatti attraverso richiami interni, di dilatare o concentrare l’azione dei suoi personaggi che, in molte occasioni, approva, ma dai quali spesso si dissocia, esprimendo il proprio dissenso.
Le fonti della Storia
Le fonti alle quali Phawstos attinge sono molte e varie e ampiamente descritte11, tra queste, quella unanimemente considerata la fonte più importante è la versione armena della Bibbia, senza sminuire l’influenza esercitata dai componimenti orali sullo stile dell’opera. Phawstos Buzand inserisce, infatti, nella sua Storia il materiale proveniente dal grande patrimonio di racconti e leggende popolari composto intorno alle figure dei re arsacidi, dei primi patriarchi della Chiesa armena e dei nobili impegnati nella lotta contro il nemico persiano. Prima di trovare una sua fissazione scritta nella Storia, questo ciclo di racconti era stato trasmesso per via orale lungo i secoli che hanno preceduto la creazione dell’alfabeto armeno12. Citando e rielaborando forme e
presenti cf. Ibid. pp. 7-11 e relativa bibliografia; ULUHOGIAN (a cura di), Phawstos Buzand..., cit., Introduzione, pp.
7-10. 8
Cf. GARSOÏAN, The Epic Histories..., cit., pp. 11-16. Per l'analisi del termine buzandaran cf. A. PERICHANYAN, Sur arm. buzand, in Armenian Studies in Memorian Haïg Berbérian, D. KOUYMJIAN (ed.), Livraria Bertrand, Lisbona 1986, pp. 653-658.
9
Cf. ULUHOGIAN (a cura di), Phawstos Buzand..., cit., Introduzione, p. 9.
10 Cf. L.D. NOCETTI, Problemi di traduzione e interpretazione della Storia degli Armeni di Phawstos Buzand, in «Rassegna degli Armenisti Italiani» 1 (1998), pp. 13-17.
11
Cf. ULUHOGIAN (a cura di), Phawstos Buzand..., cit., Introduzione, pp. 15-19;
12 L’analisi più estesa e approfondita sulla importanza della tradizione orale nella genesi e composizione della Storia, la dobbiamo a Manuk Abeghyan, il quale, supponendo l’esistenza di più cicli di racconti epici (vēp) creati attorno a figure di eroi armeni distintisi nella «Guerra persiana», ha evidenziato come parti del testo della Storia presentino cadenze ritmiche all’interno dei cola che formano il periodo, e come, in combinazione con il ritmo, sia frequente
parole essenzialmente bibliche, l’autore della Storia le mescola e le interseca con il molteplice apporto delle strutture narrative e linguistiche della tradizione orale creando, in questo modo, una lingua e uno stile il cui tratto più evidente consiste nella ripetizione di vari elementi. Organizzati in un continuum, gli elementi ripetuti coinvolgono i diversi livelli del testo: dal livello sonoro si estendono al livello semantico e sintattico in una serie di espressioni che si ripetono nel corso della narrazione con gradi diversi di uniformità fino alla forma standard: la formula, che viene riprodotta in vari luoghi del testo in forma identica o con variazioni più o meno cospicue. Ne deriva una narrazione caratterizzata da una certa cadenza ritmica, a metà tra prosa e poesia; essa procede per simmetria di suoni, parole chiave, frasi ed effetti di significato rimarcati dall’armonia delle assonanze, dai giochi di suono, dai cumuli dei sinonimi di aggettivi, nomi e verbi, dai costrutti paratattici, dai parallelismi e dalle formule vere e proprie. Il carattere stereotipo riconoscibile nelle formule coinvolge anche i motivi e i temi del racconto generando una serie di scene tipiche quali la scena della caccia, del banchetto, dell’ambasceria, dell’assemblea e altre ancora che ricorrono nel testo con gradi diversi di uniformità tra di esse. Il testo si presenta allora caratterizzato da una fitta rete di relazioni tra loro inscindibili, ad esempio le espressioni formulari sono inseparabili dalle allitterazioni e dalle assonanze. Altri tipi di ripetizioni, costrette nel modello formulare, creano un tutt’uno con il loro stesso modello, con il motivo e con il tema.
La risorsa letteraria per eccellenza per il nostro autore, come per tutti gli storiografi armeni, tuttavia, è rappresentata dalla Bibbia13. Tutto il testo è intessuto di citazioni, allusioni, accenni e
l’uso dell’allitterazione (հանգիտութիւն). Cf. M. ABEGHYAN, Երկեր (Opere), Vol. III, Erevan 1969, pp. 30-35; ID., Երկեր (Opere), Vol. I, Erevan 1966, p. 179. Nina Garsoïan approfondisce ulteriormente questa tesi nelle pagine introduttive del suo studio e segnala la presenza di numerose espressioni formulari e allitterative nell’Appendice V, dove la studiosa raccoglie le numerose formule presenti nel testo e ne registra le varianti rispetto alla forma standard, cf. GARSOÏAN, The Epic Histories..., cit., pp. 30-35 e 586-596; ULUHOGIAN (a cura di), Phawstos Buzand..., cit., Introduzione p. 17. Tuttavia parlare di oralità pura, in relazione a una determinata cultura, significa generalmente escludere che essa sia in possesso della tecnologia della scrittura. Questo non si può certo affermare per l’Armenia degli ultimi decenni del V secolo, data della redazione scritta della Storia. Ciò porta a ritenere con certezza che la fase di composizione dell’opera sia avvenuta in presenza del mezzo tecnico della scrittura. A prova di ciò testimoniano non solo la data della creazione dell’alfabeto armeno avvenuta all’inizio del secolo, i riferimenti e le citazioni implicite di testi che l’autore doveva conoscere anche nella loro forma scritta, ma anche i numerosi e chiari rimandi all’uso della scrittura che si trovano nel testo della Storia. Occorre inoltre aggiungere che anche nell’Armenia priva di un alfabeto autoctono erano in uso vari tipi di scrittura. È lecito, allora, supporre che solo la trasmissione e la pubblicazione (come fase di comunicazione di un’opera alla società che ne fruisce) fossero consegnate al canale sonoro. Non siamo, quindi, in presenza di una società caratterizzata da una oralità pura, ma in una fase di passaggio tra la cultura orale e la cultura scritta; perciò, sembra più appropriato, secondo la definizione di Walter J. Ong, utilizzare il termine di auralità, cf. W.J. ONG , Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, Methuen, London and New York 1982, [trad. it. W.J. ONG, Oralità e scrittura, le tecnologie della parola, il Mulino, Bologna 1986].
13 Per una trattazione generale sulla storiografia armena, i suoi canoni e il rilievo da essa assunto all’interno della letteratura armena e l'influenza esercitata dalle Sacre Scritture, cf. J. MUYLDERMANS, L’historiographie arménienne, in «Le Muséon», 76 (1963); J.-P. MAHÉ, Entre Moïse et Mahomet: réflexions sur l’historiographie arménienne, in «Revue des Études Arméniennes» 23 (1992), pp. 121-153; B.L. ZEKIYAN, L’Armenia tra Bisanzio e l’Iran dei Sasanidi e momenti della fondazione dell’ideologia dell’Armenia cristiana, preliminari per una sintesi, in H.J.
FEULNER – E. VELKOVSKA – R.F. TAFT (Eds), Crossroad of Cultures. Studies in Liturgy and Patristics in Honor of
Gabriele Winkler, «Orientalia Christiana Analecta» 260 (2000), pp. 717-744; R.W. THOMSON, The Writing of
History: The developement of the Armenian and Georgian Traditions, in Il Caucaso: cerniera fra culture dal Mediterraneo alla Persia (secoli IV-XI), (Settimane di Studio del Centro Italiano di studi sull’Alto Medioevo 43), Spoleto 1996, pp. 493-514. D’altra parte, l’influenza letteraria della Bibbia sugli storici armeni è sottolineata in molte introduzioni alle traduzioni delle loro opere in lingua occidentale, cf. ad esempio: R.W. THOMSON, Agathangelos. History of the Armenians, State University of New York Press, Albany 1976, pp. lxxx-lxxxiv; ID., The History of Ghazar Pharpetsi, Scholar Press, Atlanta (Georgia) 1991, pp. 24-25; The Armenian History attributed to Sebeos, transl. with notes by R.W. THOMSON, historical commentary by J. HOWARD-JOHNSTON, ass. by T. GREENWOOD, Liverpool University Press, Liverpool 1999, pp. xlix-li; EGHISHĒ, Storia di Vardan e dei martiri armeni, intr. trad. e note a cura di R. PANE, Città Nuova Editrice, Roma 2005, pp. 17-22; MOSES KHORENATSI, History of the Armenians,
parole chiave tratte dalla Bibbia e richiamate non come semplice ornamento stilistico, ma come parte integrante del discorso. Phawstos utilizza la Bibbia come fonte e materia del suo lessico, ne imita lo stile, allude a immagini bibliche e introduce nella Storia vicende tratte dalla Scrittura facendole proprie e adeguandole al proprio mondo e al proprio stile. È spesso difficile stabilire se egli stia citando consapevolmente o se il suo modo naturale di esprimersi conservi l’impronta di una formazione letteraria modellata sui libri della Bibbia, sui testi esegetici e liturgici che nel corso del V secolo furono non solo tradotti dal siriaco e dal greco ma anche composti in lingua armena. L’impiego così cospicuo del lessico e dell’immaginario biblico rappresenta, tuttavia, solo l’aspetto formale della continuità ben più profonda che si stabilisce tra la storiografia armena e la storiografia biblica. Gli storici armeni, e in particolare Phawstos, trovano nella Bibbia l’idea fondante della loro visione della storia sulla quale costruire quella concezione dell’identità nazionale del tutto peculiare agli Armeni: per essi i principali elementi unificanti non furono e non saranno nei secoli l’unità territoriale e politica, peraltro conquistata e mantenuta per brevi periodi della loro storia, bensì i fattori culturali quali l’alfabeto, la lingua e la religione cristiana14. Come nei libri che costituiscono il corpus storico della Bibbia, gli avvenimenti storici che riguardano il popolo d’Israele sono interpretati come lo strumento attraverso in quale Dio agisce e si rivela sollecitando il proprio popolo alla salvezza, anche gli Armeni diventano di diritto anch'essi popolo eletto, nel momento in cui adottano il cristianesimo e, grazie alla creazione dell’alfabeto, sono in grado di accogliere il messaggio biblico nella loro lingua. Ne consegue che le vicende narrate dagli storici armeni in epoche diverse devono essere lette come una continuazione della storia biblica15.
I rapporti testuali tra la Storia degli Armeni di Phawstos Buzand e la Bibbia armena
Questa riflessione ci agevola nell'introdurre la materia del presente resoconto che consiste nell'identificazione delle citazioni e delle allusioni bibliche presenti nella Storia e nella verifica di quale significato abbia il passo citato in relazione al testo di arrivo e di come esso si integri nel suo contesto narrativo16. Per meglio raggiungere questo scopo, reputiamo necessarie alcune precisazioni di carattere metodologico. Al fine di porre in evidenza le affinità morfologiche e contenutistiche presenti nella Storia rispetto alla Bibbia armena abbiamo mutuato, adattandole a
transl. and comm. by R.W. THOMSON, Harvard University Press. Cambridge (Mass.) 1978, pp.17-20. Per il particolare influsso esercitato dai libri dei Maccabei sugli storici armeni cf. ID, The Maccabees in Early Armenian Historiography, in Studies in Armenian Literature and Christianity, Variorum Ashgate Publishing Limited, Aldershot 1994, pp. 229-341.
14 Cf. B.L. ZEKIYAN, L’Armenia tra Bisanzio e l’Iran dei Sasanidi..., cit., pp. 723-724: «[…] è nella narrazione stessa storica, attraverso il far storia che la coscienza collettiva degli armeni, ciò che possiamo chiamare la ‘ideologia’ armena trova una delle sue formulazioni più limpide e mature. La storiografia armena, quella di maggior pregio almeno, vanta a buon diritto il merito di essere al tempo stesso una riflessione sulla storia, una teologia o, se si vuole, una filosofia cristiana della storia».
15 Cf. MAHE, Entre Moïse et Mahomet..., cit., p.126 e passim. Sulle connessioni tra Bibbia e storiografia armena cf. anche ID., Une légitimation scripturaire de l’hagiographie: la préface de Koriwn (443) à la Vie de Mashtots, inventeur de l’alphabet arménien, in De Tertullien aux Mozarabes. I, Antiquité tardive et christianisme ancien (IIIeVIe siècles), Mélange offerts à Jacques Fontaine, Institut d’Études Augustiniennes, Paris 1992, pp. 29-43; V. CALZOLARI, La citation du PS 78[77], 5-8 dans l’épilogue de l’Histoire de l’Arménie d’Agathange, in «Revue des Études Arméniennes» 29 (2003-2004), pp. 9-27.
16 Si tratta di un primo tentativo, mai provato in precedenza per il testo della Storia, non solo di individuare le citazioni e le allusioni, lavoro in parte fatto da Nina Garsoïan nella sua traduzione inglese dell'opera di Phawstos (cf. GARSOÏAN, The Epic Histories..., cit., Appendix IV: Scriptural Quotations and Allusions, pp. 577-585), quanto piuttosto, di distinguerle e classificarle secondo determinati criteri, con la coscienza che si tratta di criteri insufficientemente certi qualora si voglia scendere nei particolari e stabilire confini netti tra un tipo di citazione o allusione e un altro.
questo contesto e al nostro scopo le categorie di relazioni individuate da Roland Meynet nel suo studio sulla retorica biblica . Esse sono:
1. Citazioni esplicite
2. Citazioni implicite
3. Allusioni
Nell’analizzare queste tipologie di rapporti, si è proceduto secondo il loro grado di certezza, ossia dalla citazione esplicita fino alla semplice allusione. Ognuna di tali categorie presenta al suo interno diversi gradi di adesione al testo citato che saranno segnalati nel corso dell’analisi.
Ho ritenuto opportuno far seguire immediatamente dopo il testo biblico citato nella Storia, la corrispondente porzione di testo della Bibbia nella edizione di Zōhrapean . Per quanto concerne i versetti della versione greca della LXX, e del Nuovo Testamento, aggiunti quale termine di confronto con la traduzione armena, le edizioni di riferimento sono Septuaginta, id est Vetus Testamentum graece iuxta LXX interpretes, edidit A. RAHLFS, 2 voll., Württembergische Bibelanstalt, Stuttgard 1935, (d'ora in poi LXX), e Novum Testamentum Graece, edidit E. NESTLE – K. ALAND, Deutsche Bibelgesellschaft, Stuttgard 1999, (d'ora in poi NT).
1. Citazioni esplicite
Per introdurre le citazioni esplicite riferisco la definizione data da Meynet:
Ci sono dei casi nei quali l’intenzione dell’autore non può essere messa in dubbio: quando cita esplicitamente un testo rinviando alla sua fonte e quando si riferisce a un personaggio nominandolo. Queste saranno le due prime categorie: “la citazione esplicita” e il “riferimento” .
Il lettore/auditore è informato, in questo modo, di trovarsi di fronte a una citazione. All’interno della categoria è stato operata, sempre sulla scia di Meynet, ma adattandola al nostro testo, un’ulteriore classifica e precisamente:
1.1. Citazioni esplicite letterali con rimando a un passo preciso
1.2. Citazioni esplicite letterali con rimando alla Sacra Scrittura in generale
1.3. Citazioni esplicite modificate con rimando a un passo preciso
Le citazioni esplicite letterali presenti nel nostro testo, a volte, combinano e assemblano diversi versetti biblici, avremo, allora, la seguente ulteriore categoria:
1.1.a. Citazioni esplicite combinate letterali con rimando a passi precisi
Ogni citazione esplicita si distingue dalle altre perché è qualificata come tale dall’autore per mezzo della «formula introduttiva di citazione» che può assumere forme diverse, ma, nel nostro testo è, in genere, evidenziata dalla presenza di un verbum dicendi o scribendi come ասել (dire) e գրել (scrivere), e dalla congiunzione թէ o եթէ, che introduce il discorso diretto. Nella Storia le citazioni esplicite sono presenti in numero consistente (circa una trentina), e sono concentrate soprattutto nel IV libro, nei capitoli 4 e 5, dedicati alla figura di s. Nersēs , in particolare ricorrono nelle omelie da lui pronunciate. Non avendo lo spazio disponibile per fornire un esempio per ogni categoria sopra citata, si è scelto di riportare quello che, a mio giudizio, illustra maggiormente la capacità di Phawstos di adattare il versetto biblico al proprio intento narrativo e di armonizzarlo al contesto del racconto.
1.1.a. Citazione esplicita letterale combinata con rimando a passi precisi
PHB IV, 4
Սոյնպէս եւս առաւելագոյն զտէրունականն դնէր առաջի, որ մեծատունն էր՝ որ զամենայն պատուիրանսն կատարեալ էր, ապա լուաւ ի տեառանէ (...) եթէ դիւրին է մալխոյ մտանել ընդ ծակ ասղան, քան մեծատան ագահի յարքայութիւն Աստուծոյ։
Ugualmente ancor più proponeva quell’episodio della vita del Signore, di quello che era ricco e che aveva osservato tutti i comandamenti e poi udì dal Signore (…): «È più facile per un cammello entrare nella cruna di un ago, che per un ricco avaro nel regno di Dio».
Z: Mt 19, 24
Դարձեալ ասեմ ձեզ. դիւրին է մալխոյ մտանել ընդ ծակ ասղան, քան մեծատան յարքայութիւն Աստուծոյ մտանել։
«Di nuovo vi dico: è più facile per un cammello entrare nella cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Z: Mc 10, 24
24 (…) իսկ Յիսուս դարձեալ պատասխանի ետ նոցա՝ եւ ասէ. որդեակք՝ որչափ դժուարին է յուսացելոց յինչս մտանել յարքայութիւն Աստուծոյ։
25 Դիւրին է մալխոյ ընդ ծակ ասղա́ն անցանել, քան մեծատան յարքայութիւն Աստուծոյ մտանել։
24 (…) Ma Gesù di nuovo rispose loro e dice: «Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio!
25 È più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
Z: Lc 18, 25
Դիւրագոյն իցէ մալխոյ ընդ ծակ ասղան անցանել, քան մեծատան յարքայութիւն Աստուծոյ մտանել։
«Sarebbe più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio».
NT: Mt 19, 24
δὲ λέγω ὑμῖν, εὐκοπώτερόν ἐστιν κάμηλον διὰ τρυπήματος ϱαϕίδος διελϑεῖν ἢ πλούσιον εἰσελϑεῖν εἰς τὴν βασιλείαν τοῦ ϑεοῦ.
NT: Mc 10, 24-25
24 οἱ δὲ μαϑηταὶ ἐϑαμβοῦντο ἐπὶ τοῖς λόγοις αὐτοῦ. ὁ δὲ ᾽Ιησοῦς πάλιν ἀποκριϑεὶς λέγει αὐτοῖς, Τέκνα, πῶς δύσκολόν ἐστιν εἰς τὴν βασιλείαν τοῦ ϑεοῦ εἰσελϑεῖν· 25 εὐκοπώτερόν ἐστιν κάμηλον διὰ τρυμαλιᾶς ϱαϕίδος διελϑεῖν ἢ πλούσιον εἰς τὴν βασιλείαν τοῦ ϑεοῦ εἰσελϑεῖν.
NT: Lc 18, 25
εὐκοπώτερον γάρ ἐστιν κάμηλον διὰ τρήματος βελόνης διελϑεῖν ἢ πλούσιον εἰς τὴν βασιλείαν τοῦ ϑεοῦ εἰσελϑεῖν.
Contesto della citazione
La citazione di questo versetto, uno dei più noti e citati del Nuovo Testamento, è parte del racconto in cui Phawstos enumera le virtù di s. Nersēs e si pone in continuità, anche tematica, con le numerose citazioni che la precedono. Il fine dell’autore è di evidenziare quanto il tema della carità e del sostegno ai poveri fosse uno degli aspetti più importanti del ministero e dell’insegnamento di s. Nersēs. Il versetto qui evocato è inserito nella parabola del giovane ricco, narrata nei tre Vangeli sinottici. A conclusione della parabola Gesù, rivolgendosi ai suoi discepoli, ammonisce: «In verità vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Sì, ve lo ripeto: è più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno di Dio». S. Nersēs rende proprio lo stesso monito condannando i ricchi che non fanno l’elemosina. Risulta di particolare interesse il fatto che s. Nersēs non condanni la ricchezza così come fanno le parole del Signore riportate dagli evangelisti, ma, con l'aggiunta dell'aggettivo ագահ (avaro) alla citazione, condanni bensì l'avarizia. Il motivo di ciò si trova poche righe sopra nel racconto dove lo stesso Nersēs sollecita i ricchi a essere generosi e a fare la carità ai poveri, quindi, non poteva di certo rimproverare loro il fatto di possedere molti beni.
Per quanto concerne l'aspetto stilistico della citazione, va notato che essa riproduce il parallelismo presente nella Bibbia armena e greca:
դիւրին մալխոյ մտանել/անցանել ընդ ծակ ասղան քան մեծատան մտանել յարքայութիւն Աստուծոյ più facile per un cammello entrare/passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel regno di Dio
2. Citazioni implicite
Accanto alle citazioni esplicite, che l’autore inserisce annunciandole con chiare formule introduttive o evidenziandole in altri modi, la Storia presenta contatti di natura lessicale, formale e tematica con il testo biblico il cui grado di prossimità alla fonte non è dichiarato in modo palese da parte dell’autore: si tratta delle citazioni implicite. A proposito di esse, Maynet osserva:
Non è evidentemente possibile «provare» che una porzione di testo (…) è una citazione implicita, soprattutto quando essa non è assolutamente letterale. Da parte dell’autore, la citazione implicita è per definizione quella che quest’ultimo non segnala (…) Da parte dei lettori è possibile, invece, recensire le porzioni di testi che gli editori, i traduttori, o i commentatori riconoscono come citazioni .
E ancora:
Poiché il riconoscimento della citazione implicita è lasciato alla cura del lettore, non fa meraviglia che le opinioni degli uni e degli altri non sempre concordino (…) e che la loro percezione possa variare .
Avendo ben presente la soggettività e, quindi, l’opinabilità di qualsiasi definizione di «citazione implicita», come sottolinea Meynet, noi dobbiamo, tuttavia, fare uno sforzo di classificazione e di precisazione della terminologia utilizzata nel presente studio. A questo scopo ho mutuato la definizione di «citazione implicita» che più di ogni altra si addice ai passi citati che ho isolato nell’analisi del testo. Essa è stata formulata da Silvana Manfredi nel suo libro dedicato al profeta Geremia e recita:
Si propone come “citazione implicita” o “indiretta” la presenza anche non letterale ma pervasiva di un testo in un altro attraverso la ripresa articolata di molteplici elementi lessicografici, formali e contenutistici significativi, pur se parziali e tali da ripresentarsi organizzati e tematizzati in altro modo24.
Per quanto concerne la frequenza delle citazioni implicite presenti nella Storia, è impresa ardua fornire un numero preciso: mentre si possono definire cifre certe e attendibili per le citazioni esplicite, altrettanto non avviene per le citazioni implicite, in quanto la loro distinzione dalle allusioni lascia sempre un largo margine di opinabilità come ribadito in precedenza. Si può, tuttavia, affermare che il loro numero supera di gran lunga la somma delle citazioni esplicite e che la loro varietà è molto grande. Delle circa 370 citazioni segnalate nello studio della Garsoïan, più quelle individuate da chi scrive, considerando tutte le categorie entro le quali sono state classificate, esse rappresentano circa un terzo. Anche nell’ordinare le citazioni implicite si è utilizzata in parte la classifica proposta da Meynet25, distinguendole in:
2.1. Citazioni implicite con ripresa di una frase
2.2. Citazioni implicite con ripresa di una espressione
Non di rado Phawstos fonde insieme più brani biblici che hanno un contenuto sia letterale sia concettuale uguale o simile. Il testo che ne risulta non è facilmente riconducibile all’uno o all’altro passo biblico a meno che non intervengano segnali linguistici che ci indirizzano con sicurezza, allora avremo le:
2.3. Citazioni implicite combinate che riprendono passi di contenuto uguale
Anche in questo caso ci limitiamo a illustrare un solo esempio che appartiene all'ultima delle categorie sopra elencate:
2.3. Citazione implicita combinata che riprende passi di contenuto uguale
PHB III, 19
Աիլ որդիքն Յուսականն, Պապն եւ Աթանագենէս (…) զամենայն աւուրս կենաց
իւրեանց ի մեծի յանդգնութեան էին եւ ոչ երկեւղ Աստուծոյ արաջի աչաց նոցա
Ma i figli di Yusik, Pap e Athanagenēs (…) per tutti i giorni della loro vita erano molto presuntuosi e non c’era timore di Dio davanti ai loro occhi.
Z: Sal 35, 2
Ասէ անօրէնն ի մեղանչել ընդ միտս իւր, թէ չիք երկեւղ աստուծոյ արաջի աչաց նորա
L’empio, mentre pecca, dice nella sua mente che non c’è timore di Dio davanti ai suoi occhi.
LXX: Sal 35, 2
Φησὶν ὁ παράνομος τοῦ ἁμαρτάνειν ἐν ἑαυτῷ, οὐκ ἔστιν ϕόβος ϑεοῦ ἀπέναντι τῶν ὀϕϑαλμῶν αὐτοῦ·
Z: Rm 3, 18
Ոչ է երկեւղ աստուծոյ արաջի աչաց նոցա Non c’è timore di Dio davanti ai loro occhi
NT: Rm 3, 18
οὐκ ἔστιν ϕόβος ϑεοῦ ἀπέναντι τῶν ὀϕϑαλμῶν αὐτῶν.
Contesto della citazione
I figli di Yusik , Pap e Athanaginēs, sono i protagonisti del capitolo III, 19. Phawstos li descrive come indegni del loro padre e della carica di patriarchi, fin dal loro concepimento. Ricordiamo che Yusik, non appena sua moglie rimase incinta, ebbe una visione divina nella quale una voce gli annunciò che i suoi figli non sarebbero stati degni di succedergli nella carica pastorale. In effetti, in questo capitolo, Phawstos descrive in dettaglio i motivi di questa indegnità: non solo erano quotidianamente dediti alla lussuria e ai bagordi, ma giunsero persino a profanare la residenza dei vescovi, nella città di Ashtishat, invitandovi ballerine, meretrici, giocolieri e musicanti per fare festa tutti insieme. La punizione divina, tuttavia, non tardò ad arrivare sotto forma di un fulmine che li colpì a morte sul divano dove giacevano. I loro commensali fuggirono spaventati e nessuno ebbe il coraggio di rientrare per raccogliere le loro spoglie e dare loro sepoltura. Solo dopo molto tempo, quando ormai erano rimaste solo le loro ossa, qualcuno entrò, le raccolse e le seppellì accanto alla chiesa. Il motivo «non c’era timore di Dio davanti ai loro occhi» è ripreso letteralmente sia dal Sal 35, che descrive la malignità del cuore dell’empio, ma anche la bontà di Dio al quale il salmista chiede protezione contro i malvagi, sia dalla Lettera ai Romani, in particolare dal capitolo 3. In esso Paolo dimostra che tutti, pagani ed Ebrei, sono contaminati dal peccato. Elenca questi peccati citando passi presi dall’Antico Testamento che menzionano peccati e modi di agire malvagi, tra i quali anche il Sal 35. Il versetto 18, che chiude l’elenco, spiega, poi, il motivo di tutti i peccati: la mancanza del timore di Dio (vv. 3, 9-18).
3. Allusioni
Procedendo nell’analisi dei rapporti intertestuali che intercorrono tra la Storia di Phawstos e la Bibbia, giungiamo a quel tipo di rapporto che Meynet definisce come il meno certo poiché è il più implicito: l’allusione .
Poiché non è possibile fornire una definizione univoca di «allusione», perché «pare che l’accordo 'tra gli studiosi' sulla distinzione tra citazione implicita e allusione sia lontano dall’essere realizzato» , nel presente studio prendiamo a prestito la definizione di W.W. Fields , secondo il quale l’allusione letteraria può essere realizzata dalla condivisione di una singola parola-cardine tra due testi o dalla condivisione di un evento descritto in un testo precedente. Sulla scorta di questa definizione, possiamo classificare ulteriormente le allusioni in questo modo:
3.1. Allusioni prossime (condivisione di un termine-chiave tra due testi)
3.2. Allusioni parziali (realizzate attraverso la somiglianza di contenuto tra due testi)
Sulla base di un criterio del tutto soggettivo, non potendo stabilire confini netti tra citazione indiretta e allusione, nella Storia sono state contate circa una quarantina di allusioni ai testi biblici, da distribuire secondo le categorie sopra elencate.
3.1. Allusioni prossime
Siamo in presenza di un’allusione prossima ogni volta che registriamo la condivisione di un termine fondamentale o altamente significativo tra due o più testi. Ponendo la Storia in relazione con l’originale biblico, constatiamo che essa registra innumerevoli identità e somiglianze di vocaboli, molti dei quali esprimono concetti teologici centrali nella dottrina cristiana e sono caratterizzati da uno spessore semantico estremamente profondo. La mia ipotesi è che Phawstos abbia saputo cogliere tutte le implicazioni culturali e, probabilmente, anche teologiche di ciascun termine biblico da lui utilizzato. L’allusione espressa da una parola chiave, infatti, presuppone la comprensione della cultura nella quale è nato il testo di origine e il nostro autore, attraverso la riproposizione di semplici elementi semantici, opera consapevolmente la ripresa di quella cultura riattualizzandola nel suo racconto. A scopo di esempio si elencano alcune parole, con le rispettive occorrenze, che rivestono un’importanza significativa nella Bibbia che Phawstos traspone nel suo testo:
a) salvezza = փրկութիւն/σωτηρία (capp. III, 10; III, 11; III, 13; III, 14; IV 4; IV, 5; V, 6; V,
27)
b) giogo = լուծ/ζυγός (capp. III, 5; III, 13 4 volte; IV, 51; V, 7)
c) calice = բաժակ/ποτήριον (capp. IV, 15; IV, 57; V, 24; V, 28)
d) colonna = սիւն/στῦλος (capp. III, 5; IV, 4)
e) abisso = խորխորատ/βόθρος (capp. III, 13; IV, 4; IV, 54)
f) pastore = հովիւ/ποιμήν (capp. III, 5; III, 10; III, 13 3 volte; III, 14; III, 17; IV, 3 4 volte; IV, 4; IV, 5 2 volte; IV, 9; IV, 12; IV, 13; IV, 55; V, 28)
Per ragioni di spazio ho citato solo alcune delle parole chiave della Bibbia riprese da Phawstos e, sempre per gli stessi motivi, mi limiterò ad approfondire solo una di queste: բաժակ (calice/coppa).
3.1.a. La parola բաժակ/ποτήριον nella Bibbia e nella Storia
Il termine բաժակ registra all’interno della Storia 5 occorrenze, ognuna delle quali richiama o allude alla funzione che il vocabolo ha nella letteratura biblica. Si tratta, infatti, di una parola che, nei vari contesti, assume significati diversi e la cui nozione risulta complessa se rapportata al corrispondente բաժակ nella Bibbia armena e a τo ποτήριον nella Bibbia greca. Per questo motivo è utile un confronto tra gli usi del termine nei libri dell’AT e del NT e in Phawstos. Seguendo la traccia delineata nel Grande Dizionario del Nuovo Testamento32, possiamo, infatti, distinguere due principali usi della parola «calice» (բաժակ, ποτήριον) nella Bibbia: l’uno consiste nell’uso proprio o letterale, l’altro nell’uso metaforico o figurato dove indica il recipiente ma anche il suo contenuto; si procederà, poi, nel confronto con gli usi del termine nella Storia.
A) Uso proprio o letterale del termine «calice» (բաժակ, ποτήριον)
Nell'Antico e nel Nuovo Testamento
Il termine ποτήριον compare nell’AT una trentina di volte ed è impiegato con significati diversi. In senso proprio è usato in 2 Sam 12, 3 dove denota un utensile di uso casalingo, in 1 Re 7, 24-26 è riferito a un arredo del tempio, mentre in 2 Cr 4, 5 riguarda i corredi dell’altare per gli olocausti. I traduttori della Bibbia armena mostrano una grande attenzione e fedeltà al lessico del greco e una coerenza nell’utilizzo dell’equivalente armeno: infatti, in ognuno dei casi sopra citati ποτήριον è tradotto sempre con բաժակ.
Anche nel Nuovo Testamento ποτήριον registra una diversità di usi. Nel senso di semplice vaso o contenitore di liquidi è usato ad esempio in Mt 10, 42 al termine delle istruzioni che Gesù impartisce agli apostoli; oppure in Mt 23, 25 dove Gesù rimprovera i Farisei che, in rispetto delle norme legislative dell’AT , ripuliscono dalle impurità non solo l’interno dei recipienti, ma anche l’esterno, non curandosi della purezza delle loro anime.
Limitandoci a questi pochi esempi su tanti, osserviamo che anche in questi contesti la traduzione di ποτήριον in armeno è in tutti i casi è բաժակ.
Nella Storia di Phawstos Buzand
Un aspetto molto significativo è che, quando Phawstos si riferisce alla nozione di «calice» come semplice contenitore e, quindi, privo di echi religiosi, non usa affatto բաժակ, quasi che riservasse questa parola solo ai contesti dove egli vuole creare intenzionalmente delle associazioni tra gli eventi da lui narrati e i racconti della Bibbia. Il sostantivo usato in alternanza a բաժակ è il suo sinonimo տաշտ34, le cui occorrenze sono le seguenti:
1) Il cap. V, 2 racconta come il generale dell’esercito armeno Mushegh Mamikonean dopo aver sconfitto l’esercito persiano e messo in fuga il loro re, ucciso a fil di spada tutti i soldati, fatto scuoiare e impagliare i nobili e raccolto un ingente bottino, abbia risparmiato e rimandato presso il re vinto tutte le donne del suo harem. Il re persiano Šapuh, meravigliato e ammirato dal nobile gesto, durante le feste dedicava un brindisi particolare «all’uomo dal cavallo bianco»:
(...) Եւ ետ նկարել զտաշտ ի պատկեր զՄուշեղ ճերմակաւն. եւ ի ժամ ուրախութեանն իւրոյ դնէր զտաշտ առաջի իւր, եւ յիշէր հանապազ զնոյն բանս ասելով թէ ճերմակաձի գինի արբցէ։
(...) E fece dipingere su una coppa il ritratto di Mušeł con il cavallo bianco e nell’ora della festa poneva quella coppa davanti a sé e sempre lo ricordava dicendo le medesime parole: «Che l’uomo dal cavallo bianco beva vino!»
2) Il cap. V, 32 racconta l’uccisone del re Pap per ordine di un imperatore bizantino del quale Phawstos non specifica il nome . Invitato a un banchetto, Pap fu trucidato dai soldati romani, proprio nel momento in cui si accingeva a bere il vino dalla coppa:
Եւ մինչ դեռ թագաւորն Պապ զուրախութեան գինին ունէր ի մատունս իւր , եւ նայէր ընդ պէսպէս ամբոխ գուսանացն, ահեակ ձեռամբն յարմուկն յոր յեցեալ բազմեալ էր ունէր տաշտ ոսկի ի մատունս իւր (…)
Անդէն ի բերանս տապալէր թագաւորն Պապ, եւ գինին տաշտիւն եւ արիւնն պարանոցին նովաւ հանդերձ ի վերայ բաժակալն սկտեղն անկանէր առ հասարակ, եւ անդէն սատակէր թագաւորն Պապ։
Mentre il re Pap teneva tra le dita il vino della festa e guardava al variegato stuolo dei musicanti, ed era sdraiato appoggiandosi sul gomito della mano sinistra tra le cui dita teneva la coppa d’oro (…)
Il re Pap si riversava bocconi all’istante, con lui cadevano insieme sul vassoio il vino con la coppa e il sangue del collo, e là il re Pap moriva miseramente.
B) Uso metaforico del termine «calice»(բաժակ, ποτήριον)
Il «calice» come icona del destino umano: il «calice della salvezza» e il «calice dell'ira divina» nella Bibbia
Il calice diventa in molti passi biblici un simbolo rilevante per designare il destino di ogni essere umano agli occhi di Dio. Questo destino può avere due sbocchi antitetici che corrispondono appunto al giudizio divino. Illuminante a questo proposito è il Sal 74 (75), 8-9. Il calice colmo, può essere simbolo di comunione perfetta con Dio come in Sal 16, 5, e, ancora, in Sal 23, 5 Dio è il buon pastore che protegge e difende chi si affida a lui, lo colma di ricchezze, benessere, abbondanza e pace, il calice pieno fino all’orlo esprime questa dovizia di doni. La benevolenza divina, simboleggiata dal calice colmo, diventa, allora, la prova di salvezza ricevuta per la quale il salmista ringrazia come in Sal 116, 4-5 e in Sal 115, 3-4.
Ma può essere anche un calice contenente l’ira punitiva di Dio come il «calice dell’ira divina» che tanto spazio occupa nella letteratura biblica . Chi è colpito dall’ira divina è perso, non ha salvezza come in Sal 11, 6.
Il «calice dell’ira divina» nella Storia
La prima occorrenza del termine բաժակ, con significato metaforico all’interno della Storia, appartiene al cap. IV, 15 che legge:
Եւ կործանումն որ բերանով մարգարէին ածի ի վերայ ձեր, ըմպել ազգիդ Արշակունեաց զյետին բաժակն, արբջիք արբեսջիք եւ կործանեսջիք, եւ այլ մի եւս կանգնեսջիք։ E per bocca del profeta ho pronunciato la rovina su di voi, che cioè voi, stirpe degli Arshakunikh berrete il calice fino in fondo, lo berrete, vi inebrierete, vi perderete e non vi rimetterete più in piedi.
La menzione di բաժակ è inserita all’interno della supplica rivolta da Nersēs al re Arshak per convincerlo a risparmiare la vita del suo giovane nipote Gnel. Non ottenendo ascolto il santo pronuncia questa maledizione contro la casata degli Arsacidi con la quale decreta la loro estinzione.
La nozione di «calice» nell’uso metaforico ha anche un'ulteriore accezione presente soprattutto nei racconti evangelici della passione di Cristo. In essa è possibile individuare un parallelo con l’immagine del calice come giudizio di Dio nota all’AT .
Il «calice della passione» nei Vangeli sinottici
I tre Vangeli sinottici (Mt 26, 36-46; Mc 14, 32-42; Lc 22, 39-46) ci informano, seppure con ampiezza e linguaggio diverso, che Gesù, prima di essere catturato, si ritirò nel podere del Getsemani insieme ai suoi discepoli, e, allontanatosi da essi, si mise in preghiera. Egli chiese al Padre di allontanare da lui il calice, per poi aderire pienamente alla sua volontà.
Ecco allora che, in virtù delle parole pronunciate da Gesù, il calice diventa «figura» del martirio. Ed è proprio in questa accezione che Phawstos lo utilizza nelle occorrenze del termine բաժակ, delle quali diamo conto qui di seguito.
Il «calice della passione» nella Storia
Nel cap. IV, 57 Zuith, il sacerdote della città di Artashat, imprigionato e deportato in Persia dal re Shapuh , prima del suo supplizio, decretato dal re persiano stesso, rivolge un’intensa preghiera a Dio, dicendo, tra molto altro:
(...) Եւ յայնմ աշտիճանէ պատրաստեցեր ըմպել զվկայութեան բաժակն փրկութեան, զոր ըմպելով զանուն տեառն կարդացից, զաղօթս իմ ես տեառն տաց առաջի ամենայն ժողովրդոց նորա.
(...) E da questa condizione mi hai preparato a bere il calice salvifico del martirio, bevendo il quale, invocherò il nome del Signore, rivolgerò al Signore la mia preghiera davanti a tutti i suoi popoli.
Le parole di Zuith ricordano il versetto 4 del Salmo 115 del quale diamo anche la versione armena:
Բաժակ փրկութեան ընկալայց, եւ զանուն տեառն կարդացից։
Prenderò il calice di salvezza e invocherò il nome del Signore.
Il «calice» è, dunque, l’immagine della perfetta comunione con Dio che porta sì alla salvezza, ma conquistata al prezzo del martirio, al quale Zuith giunge dopo una lunga preparazione ed esercizio per divenirne degno.
La seconda occorrenza di բաժակ usato in questa accezione è nel cap. V, 24. Vi si narra la morte di Nersēs che, dopo aver bevuto il calice contenente il veleno offerto dal re Pap, avendo immediatamente capito che cosa contenesse, pronuncia le seguenti parole:
Օրհնեալ է տէր աստուած մեր, որ արժանի արար զիս ըմպել զբաժակս զայս, եւ հասանել մահուս որ վասն տեառն է, որում եւ ցանկացեալ էի ի մանկութենէ իմմէ. արդ զբաժակս փրկութեան ընկալայց, եւ զանուն տեառն կարդացից, զի եւ ես հաւասարեցից հասանել ի մասն ժառանգութեան սրբոցն ի լոյս.
Benedetto è il Signore Dio nostro, che mi rese degno di bere questo calice e di giungere a questa morte che è per il Signore e che ho desiderato fin dalla mia giovinezza. Ora prenderò il calice di salvezza e invocherò il nome del Signore affinché anch’io possa ugualmente avere parte all’eredità dei santi nella luce.
Il tenore del discorso di Nersēs non è lontano da quello precedente: entrambi i sacerdoti si rallegrano di potere testimoniare attraverso il martirio, simboleggiato dal calice della passione, il proprio amore per Dio.
3.2. Allusioni parziali
Le vicende raccontate in alcuni brani della Storia riconducono il lettore o l’ascoltatore attento a eventi analoghi narrati nei libri della Bibbia. Poiché non si può affermare che si tratti di parafasi perché cambiano sia l’ambiente della narrazione sia i protagonisti stessi, e nemmeno di semplice imitazione o similitudine perché lo spessore del richiamo è ben più profondo, pensiamo che sia più appropriato parlare di «allusioni parziali» secondo la definizione data in precedenza. La categoria delle «allusioni parziali» si può definire come la categoria che comprende quelle allusioni che coinvolgono non solo aspetti linguistici ma anche il contenuto di un dato testo che rinvia ad un contesto analogo nel testo di origine. Nella Storia vi sono molti episodi che per i modi in cui si sviluppano si possono inserire nella tradizione biblica. Di seguito, alcuni esempi:
1) Il cap. IV, 4 dedica alcuni passi alle riforme attuate dal patriarca Nersēs all’interno della Chiesa armena. Tra le pratiche proibite vi sono i lamenti funebri e il lutto sfrenato sui morti praticati dai pagani che richiamano le proibizioni vetero-testamentarie contenute in Lv 19, 28 e Dt 14, 1.
2) Il cap. IV, 22 racconta uno dei tanti scontri tra l’esercito armeno e l’esercito persiano. A capo di uno dei contingenti armeni vi era il fratello del generale dell'esercito armeno Vasak Mamikonean: Bagos, che pensando di compiere un gesto eroico e di risolvere a suo favore la battaglia ha pensato bene di tagliare i garretti di un elefante ornato in modo sfarzoso in groppa al quale riteneva vi fosse il re persiano. Naturalmente l’elefante, privato delle zampe, cadde su se stesso schiacciando e uccidendo il misero Bagos. In I Mac 6, 43-46 leggiamo la vicenda di Eleazaro :
43 Eleazaro, soprannominato Avaran, avendo osservato un elefante coperto di regali bardature e più alto degli altri, pensò che sopra ci fosse il re (scil. Antioco). 44 Allora, sacrificando se stesso per liberare il suo popolo e acquistarsi un nome eterno, 45 corse coraggiosamente verso l’elefante attraverso la legione, uccidendo a destra e a sinistra, e sbaragliando chi si parasse davanti 46 si cacciò sotto l’elefante, lo infilò con la spada e l’uccise. L’elefante gli cadde addosso ed egli morì.
3) Durante la battaglia di Bagawan raccontata nel cap. V, 4, Phawstos narra che Nersēs e il re Pap assistono allo scontro dall’alto del monte Npat per poter meglio osservarne lo svolgimento. Il patriarca prega con le braccia in alto, rivolte al cielo, affinché Dio conceda la vittoria degli Armeni. Lo stesso episodio, mutatis mutandis, è narrato in Es 17, 8-11:
Ora, Amalec venne a muovere guerra ad Israele, in Rifidim. 9 Allora Mosè disse a Giosuè «Scegli, da parte nostra, degli uomini e preparati a combattere contro Amalec; io domani me ne starò sulla vetta del monte, con la verga di Dio in mano» E Giosuè fece come gli aveva comandato Mosè e combatté contro Amalec. Mentre Mosè, Aronne e Hur salirono sulla vetta del monte. Ora avveniva che quando Mosè teneva alzate le mani, vinceva Israele; ma quando egli le abbassava, vinceva Amalec.
Frequenza e distribuzione delle citazioni e delle allusioni
Vediamo ora la frequenza delle citazioni e delle allusioni presenti nella Storia. Secondo le mie stime i riferimenti al testo biblico presenti nella Storia sono circa 400 distribuiti in misura quasi uguale tra citazioni e allusioni. Il Testamento più citato è il Nuovo con circa 208 richiami, all’interno dei quali i testi più citati risultano le lettere paoline con 55 citazioni e circa 20 allusioni. L’antico Testamento è presente in circa 200 tra citazioni e allusioni e, di queste, la maggioranza appartiene ai libri dei profeti, in particolare al profeta Geremia con 11 richiami. Sempre secondo una mia valutazione statistica le citazioni si concentrano maggiormente nei capitoli della Storia che riportano le omelie dai patriarchi della Chiesa armena. In esse appare evidente la loro volontà di trasmettere, ai loro interlocutori e al popolo tutto, la vera dottrina cristiana, di castigare le degenerazioni morali e i costumi licenziosi e soprattutto di convincere i membri della corte armena e bizantina ad abbandonare l’eresia ariana per tornare in seno all’ortodossia.
Analisi delle citazioni
L’impiego così cospicuo dei passi biblici registra inevitabilmente delle variazioni e degli adattamenti, tuttavia le citazioni non subiscono mai alterazioni o manomissioni tali da stravolgerle o renderle irriconoscibili. Tra le variazioni registrate vi sono:
a) variazioni di carattere grammaticale e sintattico tali da permettere all’autore una maggiore armonizzazione dal punto di vista letterario della citazione al contesto narrativo della Storia (es. uso del tempo imperfetto rispetto all’aoristo dei versetti biblici, ma ciò è dovuto all’adattamento al tempo della narrazione della Storia che è prevalentemente l’imperfetto).
b) variazioni o sostituzioni di termini sono presenti raramente e nei rari casi in cui compaiono servono a conferire al dettato della citazione una maggiore efficacia.
c) al contrario sono molto frequenti le aggiunte di termini che hanno la funzione di spiegare e dare risalto al pensiero che Fausto condivide con l’autore del versetto biblico.
d) le omissioni di parti di versetti presenti nelle citazioni, invece, sono rare e, quando presenti, riguardano elementi che probabilmente sono ritenuti superflui nell’economia della narrazione.
e) spesso si registra, nelle citazioni, la tendenza ad invertire l’ordine dei termini rispetto al testo scritturale; ciò denota ancora una volta la capacità di Phawstos di adattare la citazione al suo racconto.
Come considerazione finale, si può affermare che, a mio avviso, le citazioni presenti nella Storia non hanno mai una semplice funzione decorativa, ma confermano e giustificano il pensiero espresso da Phawstos incastrandosi nel tessuto narrativo in modo così naturale da fare corpo unico con l’esposizione dell’autore. Inoltre, la coerenza dimostrata nell'utilizzare e nell'inserire la citazione nel proprio racconto, può rappresentare una delle tante prove a favore della presenza di un unico autore.
PRESENZA ARMENA NELLA CITTÀ VECCHIA DI GERUSALEMME:
TESTIMONIANZE, DESCRIZIONI E IMPRESSIONI DI VIAGGIATRICI ITALIANE FRA 1850-1935
Maria Cristina Rattighieri
Premessa
Questa presentazione si occupa delle impressioni e dei commenti riportati da cinque viaggiatrici italiane circa la comunità armena nella Città Vecchia di Gerusalemme tra gli anni 18501935 .
Le viaggiatrici sono state scelte in base ai seguenti criteri e tratti comuni: sono viaggiatrici italiane; viaggiano da sole, senza marito o alcun membro adulto della famiglia, o come partecipanti non accompagnate in un gruppo di pellegrini; hanno scritto e pubblicato un diario della loro esperienza di viaggio dove descrivono ciò che hanno visto e a cui hanno assistito direttamente e non per sentito dire. Quattro viaggiatrici sono cristiane e una ebrea. Tre di loro si sono recate in Terrasanta nella seconda metà del 1800 e due nella prima metà del 1900.
Questi diari di viaggio, di cui alcuni composti nello stesso periodo, hanno spesso titoli simili ma sono molto diversi per intenti narrativi e tipo di narrazione. Alcuni riflettono l’esperienza di una viaggiatrice motivata da curiosità e interesse per i nuovi luoghi e per l’avventura; altri sono la testimonianza di una pellegrina spinta dalla fede e dal desiderio di visitare i luoghi sacri descritti nella Bibbia o nel Vangelo.
Nessuna di queste donne è un’esploratrice; nessuna di loro si propone di studiare scientificamente il paese che visita e nessuna vuole dire intenzionalmente qualcosa di nuovo sulla geografia e la topografia dei luoghi o sulla sua popolazione. Tuttavia, l’importanza di tali libri è messa in evidenza da importanti studiosi israeliani come Yehoshua Ben-Arieh o Nathan Schur, i quali sostengono che – seppur diversi per valore e importanza, e nonostante molti limiti e inesattezze – essi contribuiscono alla ricostruzione della Palestina storica, magari a causa di un dettaglio riportato involontariamente, che tuttavia aggiunge un tassello al quadro d’insieme. In quanto testimonianze oculari dirette e genuine, tali testi costituiscono una fonte primaria preziosa per gli studiosi contemporanei . Molti esperti sottolineano, inoltre, la grande importanza di questi racconti di viaggio per conoscere ambienti e popolazioni. La studiosa Billie Melman, in particolare, mette l’accento sull’importanza degli scritti di donne viaggiatrici che, sostiene, hanno contribuito notevolmente a dare una nuova prospettiva per la descrizione dell’Oriente e il suo modo di vivere .
È evidente che, in generale, i visitatori, privi di qualsiasi preparazione scientifica, conoscenze o strumenti, si basano solo sulle loro impressioni, storie personali, spirito di osservazione e talento per la descrizione. Un credente convinto non metterà in dubbio la verità dei luoghi sacri indicati. Spesso l’unica fonte d’informazione era fornita principalmente da sacerdoti e monaci, e molte delle informazioni fornite erano inesatte o non scientifiche . Ma vedremo che non tutte le nostre viaggiatrici hanno accettato ciecamente quello che veniva loro detto dalle guide.
Le viaggiatrici oggetto di questo studio sono andate a Gerusalemme con interessi e personalità molto diversi tra loro. Le testimonianze sono qui presentate in ordine cronologico inverso, dalla più recente alla più remota. Saranno riportati solo i commenti più interessanti, saltando ad esempio, quanto più possibile, le minuziose descrizioni, quali quelle riguardanti il numero di lampade presenti all'interno dei luoghi santi appartenenti all'una o all'altra confessione cristiana. Saranno riferite invece le descrizioni fisiche dei preti armeni e dei loro paramenti poiché rilevanti in questo studio. Il loro aspetto è sempre riportato dalle nostre autrici, ben attente agli interessi del loro pubblico, come facente parte dell’‘esotico’, del misterioso, dell’ignoto che sempre costituiscono il fascino di un racconto dall’Oriente. Anche la descrizione degli Armeni è dunque parte di questo fascino, suscitando curiosità e interesse nei lettori i quali, molto spesso, non avevano contezza del mondo armeno e della sua cultura e ne ignoravano forme e contenuti.
SCHEDA SINTETICA
VIAGGIATRICI
DURANTE IL MANDATO BRITANNICO
Viaggio a Gerusalemme
• Maria Anna Spinelli
1934
• Maria Sticco
1930
DURANTE L’IMPERO OTTOMANO
• Matilde Serao
1893
• Flora Randegger 1856
• Cristina Trivulzio di Belgiojoso
1852
Viaggiatrici della prima parte del Novecento
In questo periodo, successivo alla fine della Prima Guerra Mondiale, Gerusalemme e la Palestina erano sotto il Mandato britannico.
Entrambe queste viaggiatrici erano cattoliche e si recarono in Terrasanta come partecipanti, non accompagnate da un familiare o conoscente, di un pellegrinaggio organizzato. Sebbene abbiano viaggiato a soli quattro anni di distanza l’una dall’altra e in situazioni analoghe, tuttavia le loro personalità e i loro interessi sono molto differenti, come viene riflesso dai loro rispettivi diari.
Maria Anna Spinelli
Il titolo del suo diario è Ricordi di un Viaggio in Terra-Santa . Rimane a Gerusalemme dieci giorni nell’aprile del 1934. Parte da Pistoia, in Toscana, da sola, per unirsi al pellegrinaggio in partenza dal porto di Napoli.
Il suo diario riunisce le caratteristiche del racconto del viaggiatore e del pellegrino. La sua intenzione è quella di offrire più che una semplice descrizione dei Luoghi Santi. Unisce le impressioni del pellegrino a un genuino interesse per la gente che incontra e per il paese che visita. Lamenta la sua impossibilità di comunicare nella lingua locale, distinguendosi così dalle altre nostre viaggiatrici nel porsi, unica, questo importante tema della comunicazione e della comprensione dell’idioma proprio dell’ambiente circostante.
Nulla si sa della sua biografia se non che il diario è dedicato a una sua amica gravemente ammalata che non può accompagnarla in Terrasanta; per questo motivo l'autrice afferma che abbonderà nelle descrizioni, in modo da renderla partecipe del viaggio attraverso il suo scritto.
Il suo diario è ricco d’informazioni sulla vita del paese che visita. Spinelli mostra talento per i dettagli e la narrazione; le sue nozioni di storia e di religione sono ben fondate. Osserva attentamente l’ambiente che la circonda e descrive la topografia del Paese: registra, ad esempio, la presenza dell’oleodotto che lo attraversa. Il suo racconto è affascinante e stimola l’immaginazione del lettore.
Cita gli Armeni in relazione alla visita dei luoghi sacri, come fanno moltissimi viaggiatori quando descrivono per i loro lettori la variegata comunità cristiana che popola la Città Vecchia di Gerusalemme. I suoi due riferimenti alla presenza armena sono, infatti, inseriti nella visita al Santo Sepolcro. Nell’entrare per la prima volta nella Basilica, ella afferma:
Intorno al Santo Sepolcro la mattina vi sono funzioni in vari riti, e quando si entra nella Basilica per la prima volta tutta quella babilonia, non fa davvero un bell’effetto, ma passato il primo momento di sbigottimento e di stupore, commuove il pensiero che tutta quella gente loda ed adora Gesù. I Greci, i Cofti, gli Armeni, gli Abissini, i Siri, i Latini, etc. in fogge tanto diverse... .
E, poi, descrivendo il Santo Sepolcro, continua:
Al centro della Basilica c’è una piccola cappella, chiamata Edicola, in stile greco e armeno; culmina in una sorta di piccola cupola in stile moscovita .
Maria Sticco
Il titolo del suo diario è Una settimana in Terrasanta8. L'autrice si trova a Gerusalemme la settimana santa di Pasqua, nell’aprile del 1930. Sticco è una fervente cattolica. Viene da Milano e partecipa al primo pellegrinaggio in Terrasanta organizzato dalla Gioventù Femminile Cattolica Italiana, in partenza dal porto di Brindisi e diretto a Giaffa. È un gruppo di cinquanta donne provenienti da varie regioni italiane, di strati sociali ed età differenti, ma tutte ugualmente entusiaste e impazienti di vedere i Luoghi Santi tanto studiati e sognati. Erano pellegrine piene di aspettative e curiose di verificare se quei luoghi, a lungo immaginati, corrispondessero effettivamente alla realtà.
Il diario della Sticco è introdotto da una breve prefazione scritta dal Direttore del GFCI e non dall’autrice. Egli non fa alcun cenno alla Sticco: non dà alcuna informazione su di lei né le dà credito per l’opera. Ciò è abbastanza insolito.
Il racconto della nostra viaggiatrice è a tutti gli effetti un racconto per pellegrini. La narrazione è impersonale e vi si descrivono nei dettagli i Luoghi Santi. Nulla si sa della biografia dell’autrice, la quale non compare mai come io narrante, non offrendo dettagli personali né alcuno degli inevitabili aneddoti di viaggio. Tuttavia, le numerose fotografie scattate con la Kodak, che arricchiscono il testo di un prezioso apparato illustrativo, costituiscono un prezioso materiale storico per gli studi sulla Terrasanta dell’epoca.
Anche la Sticco, come la Spinelli prima di lei e tanti altri pellegrini, commenta le diverse confessioni cristiane presenti nella Città Vecchia di Gerusalemme e il caos che regna al Santo Sepolcro. Descrive gli Armeni nel modo classico, in relazione alla religione e ai siti religiosi, in particolare alla Basilica del Santo Sepolcro.
La Sticco dà un’ampia descrizione della chiesa armena e della cerimonia pasquale che si svolge al suo interno, qui di seguito riportata. Descrive anche il monastero armeno, dilungandosi in una sua particolareggiata descrizione, insolita per una fervente pellegrina cattolica:
Le pellegrine si fermarono nella chiesa di San Giacomo maggiore appartenente agli armeni non uniti, la quale custodisce in una cappella foderata d’argento il capo del primo apostolo martire, mentre il corpo riposa in Compostella, termine dei fervidi pellegrinaggi medievali. La chiesa è sfarzosa: ha pilastri rivestiti di maioliche bianche e turchine, molte e ricche lampade, quadri non brutti. L’altare maggiore era quel giorno nascosto da una cortina di seta azzurra, dalla quale di quando in quando, uscivano e rientravano dei sacerdoti lungo chiomati e barbuti, in sontuosi paramenti. Quando la cortina si rialzò come un sipario, scoprì dodici vescovi, paludati riccamente, e in mezzo il patriarca armeno, mitrato, che avrebbe dovuto lavare i piedi a quei dodici. Salmodiavano. (…). Le pellegrine italiane non assistettero alla cerimonia della lavanda; passarono a visitare i luoghi sacri del Sion. E prima videro nel monastero armeno attiguo alla chiesa di San Giacomo, la casa di quel volpone di Hanna (...) e poi la casa del suo degno suocero Caifa .
Evidentemente la straordinaria bellezza della chiesa armena e dei suoi dintorni l’avevano molto colpita. Lo storico Kevork Hintlian, a Gerusalemme, mi ha confermato che la cortina azzurra si usa effettivamente in chiesa per le cerimonie durante il periodo pasquale, quindi la descrizione della Sticco è pertinente e realistica.
Viaggiatrici della seconda parte del XIX secolo
In questa epoca, Gerusalemme e la Palestina erano sotto il dominio ottomano. Matilde Serao da Napoli, Flora Randegger da Trieste e Cristina Trivulzio di Belgiojoso da Milano erano tre donne straordinarie, colte e coraggiose, che intrapresero un viaggio da sole in Terrasanta. Queste tre viaggiatrici rappresentano tre diverse storie, essendo i loro viaggi animati da intenti diversi.
Matilde Serao
Nata a Napoli nel 1856, giornalista e scrittrice, è stata una delle più importanti figure letterarie italiane della fine dell’Ottocento-inizi Novecento. Con il marito, il giornalista napoletano Edoardo Scarfoglio, fondò il quotidiano Il Mattino, tuttora il giornale più autorevole di Napoli. È autrice di innumerevoli romanzi, novelle, editoriali, reportages e articoli di soggetti più vari dall’attualità alla cronaca mondana alla moda, maniere e costumi dell’epoca. È l’unica scrittrice di professione fra le nostre viaggiatrici. Era molto conosciuta in Italia, a Parigi e anche negli Stati Uniti grazie alla sua amicizia con lo scrittore Henry James, incontrato nei circoli letterari parigini, il quale cita la Serao come unica scrittrice italiana in uno dei suoi scritti, insieme a Gabriele D’Annunzio .
La Serao era una cattolica ‘tiepida’, ma molto rispettosa della tradizione religiosa. Nel maggio 1893 partì dal porto di Napoli per la Palestina, da sola, con una piccola pistola per autoprotezione e molti libri. Vi rimase quasi due mesi, di cui venticinque giorni a Gerusalemme. Durante il suo viaggio, scrisse articoli sulla Palestina per il suo giornale che in seguito raccolse in un libro-diario, intitolato Ricordi di Palestina. Un viaggio nel Paese di Gesù11, l’unico racconto di viaggio all’interno della sua vasta produzione letteraria.
La Serao s’imbarcò «nella sera odorosa di maggio» 1893 in direzione di Giaffa12. Da lì raggiunse direttamente Gerusalemme in treno. La scrittrice preparò il suo viaggio in modo molto coscienzioso, documentandosi con guide sulla Terrasanta e incontrando esperti sulla Palestina. I suoi articoli ci restituiscono le sue impressioni ed emozioni, ma anche una descrizione esatta dei luoghi, con misure che si dimostrano accurate e veritiere. Il suo occhio acuto per la moda e l’abbondanza di dettagli ci descrivono gli abiti e i vestiti di donne e uomini che incontra. L’occhio della giornalista si sofferma sull’ambiente orientaleggiante ed esotico molto pittoresco fatto di bazaar, di tanti colori e della variegata popolazione, che costituiscono l’affascinante teatro del viaggiatore in Medioriente. Ovviamente, la Serao non tralascia di descrivere diligentemente i Luoghi Santi per il suo pubblico a casa.
Le sue osservazioni sugli Armeni sono collegate principalmente alla religione. Gli Armeni compaiono, infatti, quando l'autrice descrive l’interno della Chiesa del Santo Sepolcro, in particolare la Pietra dell’Unzione, sopra cui pendevano otto lampade: tre appartenevano alla chiesa Latina, tre ai Greci scismatici, una agli Armeni cristiani e una ai Copti . Descrive la chiesa in questi termini:
La chiesa del Santo Sepolcro ha tutte le forme architettoniche, mescolate insieme. Essa è rotonda nel suo corpo centrale, dove sorge l’edicola in cui è racchiuso il Santo Sepolcro, ed ha un colonnato intorno e poi un largo corridoio buio, che vi gira intorno: ma essa ha un ovale molto allungato, dalla parte dell’abside, dove, a tre metri dal suolo, sopra una piattaforma, si apre la cappella dei greci scismatici: essa pare rettangolare verso la cappella di Santa Maria Maddalena, che appartiene alla chiesa latina, ma forma un gran trapezio, sul suo lato, dove gli armeni cristiani, i figliuoli di San Giacomo, hanno il loro dominio ecclesiastico .
Riporta anche vari aneddoti di cui sono protagonisti preti armeni, colti in azione all’interno della Basilica in una descrizione tanto vivida che sembra animarsi sotto gli occhi del lettore: infatti, presso la Pietra dell’Unzione la Serao aiutò un bambino molto piccolo a raggiungere la pietra e, poiché lui la baciava con baci tanto schioccanti, il prete armeno, custode del luogo sacro, gli gridò yalla, yalla (via! via!) in arabo, ma allo stesso tempo sorrideva e, mentre il bambino a piedi nudi fuggiva senza far rumore, lo benedisse con l’acqua di rose .
Altro aneddoto vivace di seguito riportato con le parole dell’autrice:
Girate ancora intorno, verso la cappella sotterranea dove, in un pozzo, sant’Elena rinvenne la Croce, e, a un tratto, da una porticina che si schiude, vi appare un prete straniero, tutto vestito di nero, con un gran cappuccio di seta nera abbassato sugli occhi, con una barba nera che gli fluttua sul petto: è un prete armeno, ha l’aspersorio nelle mani, vi benedice e l’acqua benedetta, che vi va sul volto e sulle mani, odora di rose .
La Serao si lascia andare alla commozione, e diventa aulica quando parla del persistente canto di uccellini che si sente al Golgota, il quale «si mescola, nelle ore dei sacri riti, agli inni mistici che i latini, che i greci, che gli armeni, che i cofti elevano, senza fine, alla memoria del Redentore: e si unisce, questo sottil canto di uccelli, alla grave e toccante voce dell’organo, su cui i padri francescani cantano le laudi della tenera madre di Gesù» . Ma poi commenta a lungo nel suo diario sulle lotte tra cristiani. È sconvolta e polemica, lamenta i litigi tra i sacerdoti greci e armeni presso il Santo Sepolcro e i continui disturbi per i pellegrini, dove è chiaro che i credenti cattolici non sono molto graditi:
Nell’angolo della cameretta del Santo Sepolcro vi è quasi sempre un prete greco, o un prete armeno; non si muove; vi sogguarda attentamente e vi riconosce subito per cristiano cattolico romano; (…) se restate troppo a lungo, borbotta; vi fa segno di andarvene; voi non ubbidite e seguitate a pregare. Talvolta, per amore di pace, ve ne andate: in qualunque modo, la vostra preghiera è stata turbata .
Si duole che i frati francescani abbiano perso, oltre alla tutela di altri siti nella città santa, anche «il loro diritto secolare di celebrare i divini ufficii, un giorno all’anno, nella chiesa di San Giacomo, occupata dagli armeni scismatici…» . La Serao, nell’informare i suoi lettori, fornisce preziosi dati sul numero della popolazione armena presente a Gerusalemme in quel tempo. Infatti, afferma:
Così, quattromila greci, duemila latini, mille armeni, oltre tutte le divisioni cristiane, formano una riunione discorde, sempre in guerra, che non piglierà un carattere di unità, mai. I credenti latini, greci, armeni, copti e persino i protestanti, vivono a Gerusalemme in uno stato d’inquietudine, di disagio, di collera, in cui solo la Sublime Porta giunge a imporre la quiete, quando le ire scoppiano .
Tali informazioni sono preziose per noi oggi. Nei suoi commenti, la scrittrice afferma che tutte queste ‘nazioni’ cristiane si sentono fedeli al loro scisma ritenendo di possedere la verità, senza sforzarsi di avanzare verso l'unità e senza nemmeno darsi ad alcun lavoro materiale «[...]. Latini, Greci, Armeni, vivono all’ombra dei loro conventi e dei loro ospizii, avendone, in dono, alloggio, soccorsi di denaro, medici, medicine, scuole, ogni protezione, ogni aiuto. L’ozio più profondo regna in queste nazioni» .
Un commento che meriterebbe di essere discusso.
Flora Randegger
Di origine ebraica, era nata a Trieste nel 182422. Suo padre era il Rabbino della sinagoga ashkenazita di Trieste e nel 1848 aveva aperto una scuola privata per ragazze ebree. L’educazione e la formazione culturale di Flora derivano da due tendenze fondamentali: Illuminismo e ricettività di diverse culture unite all’aderenza all’ebraismo tradizionale, che si rifletteva in un amore sconfinato per Eretz Israel (Terra d’Israele). Anche Flora era un’insegnate nella scuola del padre.
Moses Montefiore, in occasione della sua visita in Terra d’Israele nel 1875, scrisse nel suo diario che a Venezia una giovane insegnante italiana, Flora Randegger, gli aveva sottoposto un progetto di cui avrebbe beneficato Gerusalemme: aveva l'intenzione di aprire colà una scuola femminile .
Flora, «donna importante, intelligente e colta», come Montefiore la descrive, si recò a Eretz Israel due volte, nel 1856 e nel 1864, rimanendo a Gerusalemme per un totale di due anni e mezzo.
I suoi due straordinari viaggi sono descritti nel suo diario intitolato Un po’ di tutto, seconda strenna israelitica, scritto in un italiano di gradevole freschezza . Il diario di Flora costituisce una testimonianza unica dei sentimenti e del mondo interiore di una donna colta, dedicata anima e cuore al Giudaismo. Tutti i suoi sforzi e l’amore per Eretz Israel erano diretti alla redenzione degli Ebrei in Italia, la sua terra.
Il 10 novembre 1856 Flora, sola e timorosa per l’audacia della sua impresa, lascia il porto di Trieste su una nave diretta a Giaffa con pochi soldi e alcune lettere di raccomandazione. Arriva sei giorni più tardi, dopo un viaggio molto problematico, con due obiettivi in mente: la redenzione degli Ebrei in patria e l’istituzione di una scuola femminile a Gerusalemme.
Il diario di Flora è pieno di informazioni su ciò che vede, ma contiene anche molti dati personali, soprattutto di natura economica: trovare un alloggio e un lavoro. Flora non manca mai di elogiare gli Ebrei osservanti di Gerusalemme, molti dei quali hanno lasciato le loro case accoglienti e i loro lavori ben retribuiti in Occidente per venire a morire a Gerusalemme, nella terra dei loro avi, vivendo nella più assoluta indigenza. Ripete più e più volte la sua ammirazione per gli Ebrei ortodossi di Gerusalemme, descrive le loro pratiche religiose e le abitudini di vita di tutti i giorni, al fine di risvegliare negli Ebrei d’Italia l’ardore religioso, che secondo lei si è assopito.
Le intenzioni di Flora e gli scopi della sua narrazione differiscono in modo sensibile da quelli delle altre viaggiatrici-autrici qui presentate. Flora non è solo una pellegrina, ma anche una nuova immigrata. Lamenta la mancanza cronica di denaro e descrive con dovizia i disagi che un povero immigrato deve affrontare. Non va in giro a visitare luoghi e monumenti. Si ferma a Gerusalemme. Ha altre priorità.
Informa i suoi lettori che la popolazione di Gerusalemme è di 20.000 abitanti. Flora divide la popolazione in due parti, nettamente distinte dalla condizione economica, che per lei è prevalente: circa la metà sono Ebrei, quasi tutti poveri, in ansiosa attesa di donazioni e fondi europei, mentre l’altra metà, Turchi e occidentali, sono ricchi. In particolare i Turchi possiedono case e campi, studiano il Corano a memoria e hanno scuole solo per maschi.
Come tutte le nostre viaggiatrici cristiane, anche Flora cita gli Armeni. La sua unica menzione di loro è molto interessante: «Gli Armeni, tutti ricchi, hanno un quartiere a parte, una chiesa con piazzale e giardino, un convento. Tutte le sette religiose vi hanno chiesa e pochi o molti rappresentanti» . Se soltanto una di loro l’avesse aiutata per la sua scuola, le cose sarebbero state molto diverse per Flora.
Cristina Trivulzio di Belgiojoso
Il suo viaggio avventuroso dall’Anatolia a Gerusalemme inizia nel 1852, «in una fredda giornata di gennaio con una scorta a cavallo, senza la quale è impossibile viaggiare in Oriente», come lei stessa afferma . Arriva a Gerusalemme nella primavera dello stesso anno.
Le motivazioni che la spinsero a viaggiare all’estero furono molto diverse dal desiderio di avventura o di partecipare a un pellegrinaggio nei Luoghi Santi: viaggiava in Oriente per sfuggire a una situazione politica pericolosa.
Cristina Trivulzio era nata nel 1808 da un’antica famiglia aristocratica lombarda. Si poté avvalere di un’educazione eccellente improntata al libero pensiero e alle larghe vedute che spiegano poi il suo impegno nella politica attiva. Sposata al principe Emilio Barbiano di Belgiojoso d’Este e poi divorziata, partecipò alle guerre per costringere gli Austriaci a lasciare la Lombardia. Per evitare di essere arrestata, fuggì in Francia e poi in Oriente, in Anatolia, dove acquistò una grande tenuta. Risedette lì per quattro anni con la figlioletta e altri rifugiati. Questa era la sua situazione nel 1852, quando decise di intraprendere un viaggio a Gerusalemme dove voleva arrivare per le celebrazioni pasquali.
Il suo diario, Vita intima e vita nomade in Oriente, prima scritto in francese, è un diario di viaggio e non di pellegrinaggio. Descrive con occhio lucido e sincerità – che suscita apprezzamento nel lettore – la sua vita avventurosa in Oriente e il viaggio compiuto a cavallo dall’Anatolia a Gerusalemme. Per lei, la Palestina, insieme al Libano, è solamente una parte di un itinerario più vasto, una parte dell’Oriente cristiano che era curiosa di visitare; in effetti, la descrizione della Palestina occupa solo le ultime trentasei pagine del suo diario. Il suo intento, infatti, non è quello di visitare meramente i famosi Luoghi Santi, come l’autrice stessa dichiara:
Malgrado i ricordi vividi e piacevoli che conservo del mio soggiorno a Gerusalemme, devo confessare che mi era riservata ancora più di una delusione, e che la mia propensione ad anticipare con l’immaginazione l’aspetto dei luoghi celebri, poi a restare fredda davanti alla realtà, venne messa anche troppo alla prova. Per fortuna cercavo in Oriente tutt’altro che siti o monumenti .
Il suo diario si propone di studiare e descrivere la vita privata e familiare in Oriente, soprattutto la condizione delle donne musulmane. Il suo libro diventa quindi una preziosa testimonianza al riguardo. Visitò harem di tutti i tipi e di tutte le condizioni sociali, tra cui uno per bambini, dimostrando un interesse sincero verso alcune persone incontrate e per le loro storie. Nella prefazione del suo diario di viaggio, il rinomato critico letterario Giorgio Cusatelli definisce la Belgiojoso una donna eccezionale e scrive a proposito del suo diario:
[L'autrice] descrive con grande partecipazione la condizione della donna mussulmana, così da costruire un vero e vivace documento etnografico, scritto con uno stile elegante e avvincente28.
La Belgiojoso era una scrittrice semi-professionista. Aveva scritto per riviste e fondato giornali. Aveva pubblicato numerosi libri su soggetti vari: la Chiesa Cattolica, la storia della Lombardia e Casa Savoia, la condizione sociale delle donne e la condizione politica di Italia e Francia. Incontrò anche Matilde Serao nei circoli letterari parigini.
Il suo diario è particolare, perché è scritto da una donna italiana, presumibilmente di tradizione cattolica, che visita però la Terra Santa con un atteggiamento laico. Ad esempio, non menziona la Via Dolorosa, fatto più unico che raro nel vasto panorama degli scritti di viaggio su Gerusalemme, e neppure la Grotta della Natività quando descrive Betlemme. Mostra più volte un forte scetticismo di fronte a ciò che vede. Trova difficile accettare il dogma. Lei è una pratica donna lombarda, che proviene da una terra dove prevale la cultura illuminista. La sua fede religiosa non è né chiara né mai menzionata nel suo diario.
La Belgiojoso era un’aristocratica, molto benestante e con amicizie importanti. Il suo viaggio, sebbene difficile e pericoloso, fu confortato dal denaro che lei usava per vitto, alloggio, buone scorte e dragomanni che avevano la duplice funzione di guida-interprete e di guardia lungo la via.
La Belgiojoso entrò a Gerusalemme al galoppo del suo cavallo dalla porta di Damasco e si diresse verso l’alloggio dei francescani, Casa Nova, che era ed è ancora oggi poco distante da essa, all’interno della Città Vecchia. Era il Sabato Santo del 1852. Rimase a Gerusalemme per un mese.
Il suo sguardo è sempre abbastanza disincantato, realista fino a diventare crudo, e il suo scetticismo prevale, impedendole di prestar fede a tutto ciò che le viene detto dalle guide. Su tutti i Luoghi Santi, esprime dubbi circa l’autenticità del luogo e la loro topografia. Il primo che visita è la chiesa del Santo Sepolcro. La sua impressione immediata riguarda la strada: aveva immaginato di salire su per la collina del Calvario mentre, in realtà, la strada era in discesa. Al Cenacolo, che trova in uno stato di totale degrado, commenta «È uno spettacolo penoso e ripugnante quello di un simile luogo trasformato in tana», e della cella dove Cristo sarebbe stato imprigionato dopo l’arresto sul monte degli Ulivi «... una celletta così piccola che si ha qualche difficoltà a credere che sia mai stata destinata a contenere un essere umano» .
La Belgiojoso non è particolarmente interessata a descrivere la Gerusalemme storica. Al contrario, si mostra interessata agli aspetti moderni della città. Visita e descrive le più importanti istituzioni laiche che vi sono: un ospedale, una farmacia, una scuola; descrive il lebbrosario di Gerusalemme e le condizioni dei pazienti. Tutte testimonianze preziose e piuttosto inusuali per un viaggiatore straniero in Terrasanta.
Si concentra sulle varie comunità presenti nella Città Vecchia. Dedica una lunga pagina del suo diario agli Armeni, qui riportata integralmente:
Avevo visto i monaci e le suore di carità, avevo conosciuto gli ospizi protestanti e altri; mi restava da visitare il convento degli armeni. Mi ci recai e vi trovai un’accoglienza squisita. Gli armeni dell’Asia Minore non assomigliano ai greci di questo paese che, sotto la dominazione dei loro padroni non civilizzati, hanno acquisito una certa rozzezza estranea alla razza ellenica. Superiori ai greci per intelligenza e ricchezza, gli armeni della Siria e della Palestina li superano anche per una grazia e una dignità tutte particolari. Non c’è niente di più bello, di più ricco né di miglior gusto dei loro edifici, degli ornamenti delle loro chiese e delle loro abitazioni. In tutte le città dell’impero ottomano, le case più belle appartengono a loro, e queste case, così come le loro chiese, non solo sono magnifiche; sono pulite, ben tenute, eleganti e comode. Essi hanno maniere da gran signori e l’interno dei loro palazzi risponde perfettamente all’idea che ci facciamo in Europa di una dimora principesca in Asia. Il convento armeno di Gerusalemme è immenso, composto da parecchi edifici e circondato da giardini deliziosi. Una biblioteca ricca di bei manoscritti e di miniature su pergamena, il tesoro pieno di pietre preziose montate con gusto squisito, infine i paramenti sacerdotali tessuti d’oro, d’argento e delle sete più splendenti, tutto ciò abbaglia gli occhi e seduce l’immaginazione. Il patriarca Armeno, circondato dai suoi monaci con le lunghe barbe ben curate, con l’abito viola con il copricapo e il velo dello stesso colore, non assomiglia affatto a un capo di comunità monastica europea. Deve essere costato loro molto umiliarsi come hanno fatto per tanti secoli davanti al potere dei loro conquistatori, o piuttosto devono aver ottenuto grandi vantaggi da questa umiliazione sopportata così pazientemente, poiché non sono uomini che si prosternino nella polvere solo perché è pericoloso restare in piedi30.
La Belgiojoso parla degli Armeni non solo a proposito della religione, come generalmente succede nei resoconti di viaggio a Gerusalemme, ma anche e soprattutto come una comunità di individui. È l’unica fra le nostre viaggiatrici che lo fa. Non dice quasi nulla nel suo diario dei suoi contatti e della sua conoscenza del popolo armeno e della sua cultura, ma certamente doveva aver frequentato e conosciuto bene questo popolo per poterlo descrivere come ha fatto. Certamente, provenendo da uno spirito così anticonformista e libero, questa descrizione degli Armeni che fa Cristina di Belgiojoso deve essere reale e sincera. Inoltre, il suo aristocratico ambiente di provenienza l’aveva educata alla bellezza, alla ricchezza e alle buone maniere, tutte caratteristiche che celebra negli Armeni. La sua opinione deve quindi essere considerata davvero preziosa e lusinghiera.
Conclusioni
Dai commenti, scritti in diversi periodi, delle nostre viaggiatrici sulla presenza armena nella Città Vecchia di Gerusalemme, i dati più evidenti sono:
- la presenza armena non può mai essere ignorata. È sempre riferita e commentata da tutte loro. È quindi una presenza rilevante;
- l’ammirazione delle nostre viaggiatrici per la bellezza della chiesa armena e il monastero. Non possono evitare di menzionarli mentre descrivono i tesori della Città Vecchia di Gerusalemme; - l’impressione di opulenza, di ricchezza e di magnificenza degli Armeni: i loro abbigliamenti, i paramenti sacri, gli ornamenti e gli arredi. «Gli Armeni sono tutti ricchi», riassume Flora. Questa è l’impressione che le nostre viaggiatrici hanno degli Armeni. E questo deve essere sembrato vero a tutti i viaggiatori, moderni e contemporanei, di fronte alla chiesa di San Giacomo o al Patriarcato Armeno. I possedimenti armeni nella Città Vecchia di Gerusalemme danno un’impressione di abbondanza. Perfino l’eccellente ristorante, The Armenian Tavern, vicino al Patriarcato verso la Porta di Giaffa, è spettacolare, molto bello e riccamente adornato.
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L’ATTIVITÀ DEL COPISTA MIKHAYĒL DI THOCHATH (TOKAT),
1606 - 1658
Khachik Harutyunyan
(Matenadaran di Erevan)
Introduzione
Le principali fonti sulla vita di uno scriba sono ovviamente i suoi stessi colofoni. Il colofone è una parte rilevante nel manoscritto: è il luogo nel quale il copista scrive non solo le informazioni principali (data e luogo della scrittura, chi era il committente ecc.), ma anche i dettagli della sua vita personale, che sono molto importanti per la ricostruzione della sua biografia .
In generale, quanto più numerosi sono i manoscritti copiati da uno scriba, tanto più sarà probabile avere informazioni su di lui; e, naturalmente, viceversa: la mancanza di queste fonti non ci permette di ricostruire particolari della sua vita e della sua attività. Ma questa ʻregolaʼ non sempre funziona: accanto, infatti, a copisti ʻloquaciʼ, che nei loro colofoni si soffermano a descrivere a lungo gli avvenimenti del loro tempo o anche aspetti della vita quotidiana, ne esistono altri più restii a parlare di sé e del contesto storico in cui si trovano a operare. All’interno di questi ultimi può essere individuato un gruppo di scribi che redigono colofoni brevi, che contengono generalmente i loro nomi, la data e il luogo di scrittura inseriti in espressioni formulari, e niente di più. Il motivo di ciò è da ricercarsi, secondo noi, nello scopo principale dell’attività di copiatura, ovvero la vendita del manoscritto. Se alla fine del lavoro era già presente il compratore-destinatario, il copista inseriva nel suo colofone anche il nome del committente e spesso anche quelli dei suoi familiari; in caso, invece, di assenza del destinatario, si lasciava uno spazio bianco, destinato a essere riempito dopo la vendita.
La nostra ricerca ha individuato, come vedremo, più di trenta manoscritti copiati da Mikhayēl Thochathetsi, un numero molto alto che ci permette di collocarlo tra gli scribi in assoluto più produttivi nella storia della scrittura armena. Il fatto che la maggior parte dei suoi colofoni presenti le stesse formule lascia supporre che la sua produzione fosse, in un certo senso, ʻserialeʼ e che egli copiasse i manoscritti per venderli.
Nel corso della nostra ricerca abbiamo potuto raccogliere ben 34 codici realizzati da Mikhayēl e custoditi oggi in varie biblioteche del mondo (si veda la tabella I). L’esistenza di altri 3, oggi perduti, è testimoniata da patriarca armeno di Costantinopli Yovhannēs Chul, del quale si parlerà in seguito. Il numero dunque preciso dei manoscritti attualmente conosciuti di Mikhayēl è 37, ma siamo certi che dovevano essere di più: i suoi primi due codici sono stati realizzati nell'anno 1606, l'ultimo nel 1658: tra queste due date intercorrono 52 anni, di cui 35 risultano, nel conto generale, ʻliberiʼ da manoscritti, i quali manoscritti, viceversa, sono frutto di un lavoro di copiatura avvenuto nel corso di 17 anni (si veda la tabella II). È su questa base che ipotizziamo che Mikhayēl avesse copiato in realtà un numero maggiore di manoscritti, che nel corso del tempo non si sono salvati. La causa principale della loro perdita è costituita, secondo noi, dagli anni del genocidio, quando il popolo armeno e la sua eredità culturale furono annientati . Notiamo, infatti, che quasi tutti i manoscritti di Mikhayēl a noi noti sono stati portati via prima di questa pagina nera della storia armena: essi si trovavano infatti già al sicuro in varie collezioni fuori dall’attuale Turchia, e così si sono salvati.
La vita e lʼattività di Mikhayēl
Nonostante le migliaia di pagine copiate e i più di trenta colofoni conservati, le informazioni sulla vita e l'attività di Mikhayēl restano scarse. I suoi colofoni, come si è accennato, seguono uno stesso modello nel quale sono generalmente menzionati solo i principali dati del codice.
L’epiteto «Thochathetsi» indica la provenienza di Mikhayēl da Thochath (in turco Tokat, città nota anche come Evdokia), nella parte nord-orientale dell’odierna Turchia, un centro culturale, commerciale e artigianale abitato nel corso dei secoli sempre da Armeni. Qui Mikhayēl nacque presumibilmente intorno alla metà degli anni Novanta del XVI secolo, e da qui, al volgere del secolo, si trasferì a Costantinopoli, dove si suppone che sarebbe vissuto fino a circa il 1660. Dal momento che, come ha evidenziato la nostra ricerca, tutti i suoi codici furono scritti tra gli anni 1606 e 1658 a Costantinopoli, possiamo considerare Mikhayēl Thochathetsi come un copista costantinopoliano. Lo stesso conferma anche A. Alpōyatchean nel suo prezioso lavoro dedicato alla storia di Evdokia. Egli scrisse «Gli studiosi di Thochath continuavano le loro attività culturali e scientifiche a Costantinopoli. Tra loro si deve assegnare un posto speciale a Mikhayēl di Thochath che a Costantionopoli copiò un gran numero dei manoscritti»3.
Solo in due colofoni, mediante un breve accenno, l’artista spiega perché avesse lasciato la città natale di Thochath. Riportiamo qui quello dell’anno 1609:
«Gretsaw ŔDZË. (1609) i mayrakhaghakhn Stampol (sic)… tzeŕamb anarjan thoxathtsi Mikhaēlin… Ard, gretsaw i daŕn ew i dijar (sic) jamanakis, zi cheghdch khristoneaykhn dchalalots hamar phachean, ew ekn i Stampol (sic)»4 [Fu scritto [questo libro] nell’anno 1609, nella capitale Istanbul… dalla mano dell’indegno Mikhayēl Thochathetsi. Fu scritto in un tempo duro e difficile, perché i poveri cristiani fuggirono a causa dei djalali e giunsero a Istanbul (il grassetto è nostro)].
Negli altri colofoni Mikhayēl non menziona più le ragioni del suo trasferimento, ma è ormai chiaro che dovette lasciare la sua città a causa dei «djalali»5. Un altro copista originario di Thochath, Stephanos Thochathetsi ricorda in prima persona cosa avesse subito da questi stessi djalali nel momento in cui arrivarono nella città:
«Ew yetoy tareal i tun mi ew kapetsin ztzeŕn i yetews ew kachetsin aynpēs, or thewers shitketsaw, ew B. (2) hogi hast brokh ayntchaph harin, or tzayns hataw ew tchuann ktretsaw, ew anka i bartzruthenē i vayr...»6 [E poi, dopo avermi portato in una casa, mi legarono con le mani dietro e mi
KHŌLANTCHEAN, Y. HIWSEAN, B.KIWLĒSĒREAN, G. TĒR-VARDANEAN, Egheŕnë ew mer tzeŕagrakan korustnern u phrkuthwiunnerë [Il genocidio e i nostri manoscritti perduti e salvati], Ēdjmiadzin, 2015, pp. 10-13.
3
A. ALPŌYATCHEAN, Patmuthiwn Ewdokioy hayots [Storia degli armeni di Evdokia], Cairo, 1952, p. 913.
4
Hayeren tzeŕagreri JĒ dari hishatakaranner (1601-1620) [Colofoni dei manoscritti armeni del XVII secolo (anni 1601-
1620)], vol. 1, a cura di V. HAKOBYAN, A. HOVHANNISYAN, Erevan, 1974, p. 337.
5 Nelle fonti armene della metà del XVI secolo è possibile reperire notizie su questi briganti/ribelli dell’epoca di Mikhayēl. Le più importanti si trovano in opere storiche, come quella di Aŕakhel Dawrijetsi e la cronologia di Grigor Daranaghtsi, che descrivono le invasioni e i saccheggi da loro compiuti in varie regioni dell'Impero ottomano, soprattutto in villaggi e in piccole città, come Thochath. Ecco, ad esempio, cosa facevano dopo l'irruzione in un villaggio secondo Dawrijetsi: «…kaleal zarsn kachēin, zomans yotits ew zomans i bazkats ew zomans yerkuoreats, ew anoghorm ganiw hareal bradzedz aŕnēin mintch anshuntch leal ibr zmeŕeals daŕnayin, ew omankh ews i tandjans meŕanēin» […dopo aver preso gli uomini, li appendevano alcuni per i piedi, altri per le braccia, e altri ancora per tutti e due, e li bastonavano crudelmente finché non respiravano più e diventavano come morti; e alcuni morivano dalle torture]. Cf. A. DAWRIJETSI, Girkh patmutheants [Libro delle storie], a cura di L.A. CHANLARYAN, Erevan, 1990, p. 103.
6
Hayeren tzeŕagreri JĒ dari hishatakaranner, vol. 1, cit. nota 4, p. 126. Sui djalali si veda M. ZULALYAN, Djalalineri sharjumë ev hay joghovrdi vidchakë Osmanyan kaysruthyan medj (XVI-XVII darer) [Il movimento dei djalali e la situazione del popolo armeno nell’impero Ottomano (secc. XVI-XVII)], Erevan, 1966.
appesero con le braccia diritte, e due persone mi colpirono con dei grossi bastoni così tanto che persi la voce, la fune si ruppe e io caddi dall’alto].
Riteniamo dunque che Mikhayēl fosse fuggito da Thochath e fosse arrivato a Costantinopoli tra il 1602 eil 1606. Ecco perché nel suo primo codice dell'anno 1606, copiato a Costantinopoli , leggiamo: «…amenayn zerkir dchalalikhn aweretsin, ew mekh vtaretsakh i yawtaruthiwn ew ekakh i yastuadzapah khaghakhs ëStampawl» […i djalali hanno distrutto tutto il Paese e noi fummo cacciati in terra straniera, e arrivammo a Istanbul, città protetta da Dio].
Nonostante, si è detto, il gran numero dei suoi manoscritti, di Mikhayēl, della sua vita, della sua famiglia ecc. sappiamo molto poco, perché egli non menziona nei suoi colofoni i nomi dei suoi familiari. I più importanti per la ricostruzione dei suoi dati biografici sono quelli risalenti agli anni 1609, 1626 e1628. Nel primo leggiamo:
«…yishetsēkh mek Hayr meriw mi zMikhayēl gritchs ew zdznoghsn im ew zeghbayrs ew kenakitss…» [… ricordate con un “Padre nostro” lo scriba Mikhayēl, i miei genitori, mio fratello e mia moglie…].
Mikhayēl aveva dunque una moglie e un fratello, del quale tuttavia non parlerà più. Dal momento che in nessuno dei colofoni precedenti l’anno 1609 Mikhayēl menziona sua moglie, mentre a partire da quella data chiede quasi costantemente ai suoi lettori di ricordarla, deduciamo che si fosse sposato negli anni 1608-9 e che dopo circa 17 anni sua moglie morisse, come ricorda un suo colofone dell’anno 1626:
«…mēk Hayr meghayiw yishetsēkh zanarjan gritchs ew zcënawghsn (sic) im, ew zkenakitsn im` hangutsealn aŕ Khristos…» [Ricordate con un “Padre, abbi pietà!” lo scriba indegno, i miei genitori e mia moglie che riposa in Cristo].
Non trovandosi, nei colofoni precedenti, alcun accenno alla morte della consorte, possiamo dedurre che la donna morì nel 1626.
Dal terzo colofone, scritto nel 1628, apprendiamo che Mikhayēl aveva dei figli:
«… mēk Hayr meghaiw (sic) yishetsēkh zanarjan gritchs ew zcnawghsn im, ew zkenakitsn im` zhangutsealn aŕ Khristos, ew ztghaykhn im ...» [Ricordate con un “Padre, abbi pietà!” me, scriba indegno, i miei genitori, mia moglie che riposa in Cristo e i miei figli].
Uno di loro, Khristosatur, morì molto giovane probabilmente nel 1635: in un colofone di quell’anno, infatti, Mikhayēl ne ricorda la scomparsa a soli 15 anni .
Non ci sono altre informazioni sulla vita del nostro scriba. Secondo quanto abbiamo potuto ricostruire, l’ultimo suo manoscritto risale al 1658, quando Mikhayēl aveva circa 70 anni. Non abbiamo alcuna testimonianza che ci permetta di affermare che Mikhayēl avesse cominciato a copiare manoscritti a Thochath, sua città natale; sicuramente, tuttavia, è lì che ha appreso l’arte della scrittura, dal momento che immediatamente dopo il trasferimento a Costantinopoli lo troviamo già all’opera. Nella capitale ottomana Mikhayēl divenne famoso a partire dal 1606, anno dopo il quale il numero dei suoi codici aumenta gradualmente (fig. 1).
Fin dai suoi primi manoscritti appare chiaro che il copista conosce bene le tradizioni relative alla scrittura e alla miniatura armena. Inoltre, dal momento che nei colofoni egli usa il grabar (lʼarmeno classico), possiamo dedurre che fosse uno scriba abbastanza colto. Sempre riguardo alla lingua va rilevato che, pur essendo egli originario di Thochath, nei suoi colofoni non traspare alcun elemento dialettale, tranne due soli casi nei quali è attestata la forma del presente indicativo con la particella ku, tipica della varietà linguistica dell'armeno occidentale, di cui fa parte anche il dialetto di Thochath .
Come si è già accennato, nei suoi colofoni il nostro copista adotta un modello breve e fisso, che ripete in tuttii manoscritti, come una sorta di ʻcopyrightʼ:
«Ard, aghatchem zameneseand, orkh handipikh sma kardalov kam yōrinakelov mēk hayr meghaiw(sic) mi yishetsēkh zanpitan gritchs [Mikhayēl] ew zdznawghsn im, ew znndjetsealsn im, ew Astuadz zyishoghd yishē yiwr miws angam galësteann. amēn» [Ora prego tutti voi, che vi imbattete in questo [libro] per leggerlo o copiarlo, ricordate con un “Padre, abbi pietà di me!” l’inutile scriba [Mikhayēl], i miei genitori e i miei cari defunti, e Dio nella sua prossima venuta ricorderà chi ricorda].
Dall’insieme che abbiamo ricostituito dei manoscritti di Mikhayēl notiamo come lo scriba lavorasse piuttosto velocemente: in un anno era in grado di copiare almeno cinque codici, come è avvenuto nel 1628, quando realizzò un Innario, un Salterio e tre Vangeli (si veda la tabella I), quasi tutti miniati. Va inoltre osservato che in quest’epoca, cioè all'inizio del XVII secolo, nonostante la stampa armena avesse compiuto più di cento anni, nella stessa Costantinopoli, che era uno dei suoi centri principali, si registrava ancora una forte richiesta di manoscritti.
Passiamo ora a qualche considerazione su come il copista vendesse i suoi manoscritti e chi fossero i suoi committenti. La nostra ricerca ha evidenziato che la maggior parte dei destinatari dei codici di Mikhayēl erano dei religiosi, che compravano essi stessi o ricevevano in donazione i codici per le loro chiese. Eccone un esempio:
«Yishetsēkh zstatsogh sorin zYovakimn, hawrn` Vardanin, mawrn Eazkulē…, or etun i tzeŕn tēr Simēonin» [Ricordate il committente di questo [libro] Yovakim, suo padre Vardan, sua madre Yazkule, che hanno donato[questo libro] per mezzo del sacerdote Simēon].
La vendita dei manoscritti era favorita anche dall’azione di alcuni intermediari, che in alcuni colofoni sono menzionati per nome. La prima attestazione della presenza di un intermediario tra Mikhayēl e un acquirente la leggiamo in un manoscritto copiato nel 1618:
«...yishetsēkh zAwetisn, or majaŕos eghaw ew yordorets zLoys chathunn, ew etur grel zsurb awetarans i halal ëntchitsn JĒ. (17) oski yishatak iwreants» [Ricordate Avetis, che fece da intermediario e consigliò Luys chathun, e fece copiare questo santo Vangelo per 17 monete d’oro onestamente guadagnate in memoria dei suoi (n.d.t. cari)].
In un altro esempio troviamo menzionata come intermediaria una coppia di coniugi:
«...yishetsēkh ew zYovhannēsn ew ziwr kinn` Dchoharn, or patdchaŕ eghan»15 [Ricordate Hovhannēs e la sua moglie Dchohar, che furono la causa (n.d.t.: della vendita del libro)].
La mediazione per la vendita di manoscritti non era una novità nel mondo armeno del XVII secolo, perché è già attestata a partire dal XIII secolo16. Nei colofoni esistono alcune espressioni fisse per designarla, come ad esempio «midjnordlinel» (essere mediatore), «yordorel» (consigliare), «majaŕoslinel» (essere intermediario, servitore) «aŕith linel aŕ i statsumn mateni» (essere motivo diacquisto del codice), «patdchaŕ greloy linel» (essere causa della scrittura [di un codice]) ecc.
L’esistenza del mediatore conveniva alle tre parti, perché in questo modo lo scriba vendeva il suo lavoro, il committente otteneva il manoscritto desiderato, e il mediatore metteva in contatto diretto i primi due oppure vendeva lui stesso il codice ad un prezzo conveniente. Bisogna riconoscere che i manoscritti erano piuttosto costosi, come conferma la nota di possesso presente in una Bibbia copiata dal nostro Mikhayēl prima degli anni Quaranta del XVII secolo. In questa nota il suo possessore, il sacerdote Astwadzatur, riferisce di essere venuto da Gerusalemme a Costantinopoli per comprare un manoscritto, e di aver incontrato tre preti nella chiesa della Surb Astwadzadzin (Santa Madre di Dio), che gli proposero di acquistare la Bibbia. Il testo recita:
«… ays Astwadzashuntch greal kayr, G. (3) khahanaykh berin, thē dzachu ē» [c’era questa Bibbia scritta, tre preti me la portarono poiché era in vendita].
La parte successiva, nella quale Astwadzatur racconta dettagliatamente di come riuscì a comprare il manoscritto, è particolarmente interessante:
«es anarjans asi, thē gin tchunim, ew ekeghetsoy (sic) joghovurdn amenekhean asatsin, thē mekh ku tamkh; i vets ekeghetswoy joghovrdean trōkhn kisaginn vdcharetsaw, ew mnatseal gin, ekeal i Hayastaneayts mēdjn asti ew anti khristonēits trōkhn vdcharetsakh» [Io, indegno, dissi che non avevo i soldi, ma tutta la gente della chiesa disse: “Te li diamo noi!”. Col contributo della gente di sei chiese è stata pagata la metà [del prezzo], la restante parte la pagammo col contributo di cristiani di diverse parti dell'Armenia].
Questo manoscritto dunque, che ora è custodito nella Biblioteca del Monastero di S. Giacomo a
Gerusalemme, con la segnatura 1932, fu acquistato grazie ai soldi dei fedeli di sei chiese armene di Costantinopoli e di diverse regioni dell’Armenia. Un’altra testimonianza relativa al valore di un codice di Mikhayēl proviene dal patriarca armeno di Costantinopoli Hovhannēs Chul, che presumibilmente nel 1623-1624 comprò una Bibbia copiata da Mikhayēl in maniera incompleta al prezzo di 13000 dram; fu poi lui stesso a portare a termine la copiatura e la decorazione di questo manoscritto che ora si trova nella Biblioteca Apostolica Vaticana con la segnatura Vat. arm. 1 .
Per quanto riguarda Mikhayēl miniatore, dobbiamo dire che nei suoi colofoni l’artista non ricorda mai se stesso in questa veste, ma sempre e solo come copista . È interessante segnalare che lo stile e i colori delle miniature dei suoi manoscritti sono diversi. Si può supporre per spiegare quest’aspetto che egli abbia collaborato con diversi pittori, come ad esempio nel caso del Vangelo dell’anno 1606, il cui miniatore fu Yovhannēs Stampoltsi (fig. 2).
Nel corso della nostra ricerca, tuttavia, abbiamo trovato una testimonianza lasciata da Mikhayēl
Thochathetsi in riferimento alla sua attività di miniatore: in un manoscritto dell’anno 1612 conservato presso la Biblioteca dei Padri Mechitaristi di Vienna, l’artista ha lasciato due brevi attestazioni sotto due ornamenti marginali: «Dzaghiks Mikhayēlin ē» (le miniature sono di Mikhayēl) (fig. 3). Nel colofone dello stesso manoscritto, invece, secondo la sua abitudine, Thochathetsi non dice nulla circa la miniatura del codice. Quest’unica testimonianza conferma dunque che Mikhayēl fosse anche miniatore, ma di certo la sua attività principale fu quella di copista.
In conclusione, lo scriba Mikhayēl Thochathetsi fu una delle figure più importanti e più produttive della storia della scrittura armena. Nel corso di 52 anni egli copiò a Costantinopoli un notevole numero di manoscritti, di cui 37 sono noti oggi.
Tabella I
ANNO DI COPIATURA CONTENUTO COLLOCAZIONE ATTUALE
1. 1606 Innario Bibliothèque Nationale de
France, ms.arm.71
2. 1606 Vangelo Ginevra, Fondazione Martin
Bodmer, ms. 34
3. 1607 Comentario di Salterio MM, ms. 1199
4. 1609 Vangelo -
5. 1609 Vangelo Ēdjmiadzin, ms. 40
6. 1609 Vangelo Tbilisi (?)
7. 1611 Bibbia MM, ms. 186
8. 1611 Rituale Venezia, Biblioteca dei PP.
Mechitaristi, S. Lazzaro, ms. 940/39821
9. 1612 Salterio Vienna, Biblioteca dei PP.
Mechitaristi, ms. 658
10. 1615 Vangelo Gerusalemme, Biblioteca del Monastero di San
Giacomo, ms. 3259
11. 1618 Vangelo MM, ms. 7576
12. 1619 Vangelo Venezia, Biblioteca dei PP.
Mechitaristi, S. Lazzaro, ms. 1480/120
13. 1619 Vangelo Gerusalemme, Biblioteca del Monastero di San
Giacomo, ms. 3141
14. 1620 Vangelo MM, ms. 3472
15. 1620 Vangelo Istanbul, Biblioteca del Sultano Ahmed III, ms. 124
16. 1620 Parte della Bibbia Nor Djugha, Monastero del
S. Salvatore, ms. 256, armadietto 23
17. 1621 Vangelo MM, ms. 10375
18. 1624 Vangelo Dublino, Biblioteca Chester
Beatty, ms. 577
19. 1625 Bibbia Biblioteca Apostolica
Vaticana, Vat. arm. 1
20. 1625 Vangelo Gerusalemme, Biblioteca del Monastero di San
Giacomo, ms. 2637
21. 1626 Innario MM, ms. 1599
22. 1628 Innario MM, ms. 8534
23. 1628 Vangelo MM, ms. 291
24. 1628 Vangelo MM, ms. 10380
25. 1628 Vagelo MM, ms. 10427
26. 1628 Salterio, breviaro Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 186
27. 1629 Innario Sofia, Bulgaria (collezione privata)
28. 1630 Nersēs Šnorhali, Miscellanea Venezia, Biblioteca dei PP.
Mechitaristi, S. Lazzaro, ms.343/1094
29. 1635 Innario Leida, Biblioteca dell’Università di, or. 5528,
30. 1638 Innario MM, ms. 4319
31. Prima dell’anno 1640 Bibbia Gerusalemme, Biblioteca del Monastero di San
Giacomo, ms. 1932
32. 1641 Innario Nicosia, Cipro (collezione priv.)
33. 1658 Innario MM, ms. 9799
34. XVII sec. Rituale -
Tabella II
1606 + 1620 + 1634 - 1648 -
1607 + 1621 + 1635 + 1649 -
1608 - 1622 - 1636 - 1650 -
1609 + 1623 - 1637 - 1651 -
1610 - 1624 + 1638 + 1652 -
1611 + 1625 + 1639 - 1653 -
1612 + 1626 + 1640 + 1654 -
1613 - 1627 - 1641 + 1655 -
1614 - 1628 + 1642 - 1656 -
1615 + 1629 + 1643 - 1657 -
1616 - 1630 + 1644 - 1658 +
1617 - 1631 - 1645 -
1618 + 1632 - 1646 -
1619 + 1633 - 1647 -
Fig. 1: esempio della scrittura del copista Mikhayēl Thochathetsi (MM, ms. 10375, f. 38v)
Fig. 2: ritratto dell’evangelista Luca. Lo scriba è Mikhayēl Thochathetsi, il miniaturista Yovhannēs Stampoltsi (Ginevra, Fondazione Martin Bodmer, ms. 34, f. 106v)
Fig. 3: sotto la miniatura marginale si legge «Dzaghiks Mikhayēlin ē» [Queste miniature sono di Mikhayēl], Vienna, Biblioteca dei PP. Mechitaristi, ms. 685, f. 12v
(la cerchiatura in rosso è nostra)
LA COMUNITÀ ARMENA DI COSTANTINOPOLI ALL’INIZIO DEL XVIII SECOLO:
SCONTRI E TENTATIVI DI ACCORDI INTERCONFESSIONALI
Cesare Santus
Nella mia tesi di dottorato ho cercato di studiare la costruzione delle identità confessionali dei cristiani orientali in età moderna attraverso una chiave interpretativa particolare, analizzando cioè il fenomeno della communicatio in sacris . Questo è il termine con cui la Chiesa di Roma ha inteso definire e poi sempre più limitare o vietare qualunque genere di partecipazione di un cattolico alle celebrazioni liturgiche e ai sacramenti di un culto non cattolico: si tratta di un fenomeno che raggiunse dimensioni particolarmente durature e significative nel Mediterraneo orientale, nell’Impero ottomano e nelle sue vicinanze, soprattutto a seguito dei successi missionari della Controriforma nella conversione delle comunità cristiane lì stanziate . Il tema è molto ampio e riguarda sia i rapporti tra Greci e Latini, sia quelli tra orientali cattolici e ortodossi: in questa sede mi concentrerò sulla situazione della comunità armena di Costantinopoli, in un momento storico particolarmente delicato e importante, cioè l’inizio del XVIII secolo. Dato il limitato spazio a disposizione, mi limiterò a presentare essenzialmente il contesto storico, gli attori coinvolti e le problematiche che essi si trovarono ad affrontare.
1. Nel corso del Seicento le missioni organizzate sotto l’egida dei vari ordini religiosi e poi della Congregazione di Propaganda Fide ottennero un discreto successo tra i cristiani del Levante, anche se per lungo tempo i missionari dovettero accettare una certa dose di ambiguità da parte dei novelli convertiti. In altre parole, si accontentavano di ricevere durante le confessioni una professione segreta (“privata”) di fede cattolica, richiedendo spesso al penitente la semplice promessa di conformarsi alle opinioni degli antichi Padri della Chiesa o, nel caso armeno, di S. Gregorio Illuminatore – cosa che non poneva particolari difficoltà ed evitava gli ostacoli nati dalle successive divisioni dottrinali. Tale professione, del resto, non implicava in molti casi l’abbandono delle Chiese nazionali e la pratica della communicatio in sacris era sostanzialmente tollerata: la strategia di fondo era quella del “cavallo di Troia”: convertire segretamente il maggior numero di individui, specialmente all’interno dell’alto clero orientale, senza necessariamente dividerli dalla Chiesa d’origine (anche perché questa era l’unica ufficialmente riconosciuta dalle autorità ottomane) . L’idea era che, una volta sicuri di aver installato nei posti chiavi un numero sufficiente di prelati cattolici, l’unione delle Chiese orientali a Roma sarebbe venuta spontaneamente e senza traumi. Tale progetto era evidentemente utopistico, ma nella seconda metà del Seicento condusse ad alcuni momentanei successi, come nel caso dell’unione della Chiesa giacobita ad Aleppo, grazie anche al ruolo cruciale giocato dal supporto della monarchia francese, protettrice del cattolicesimo nel Levante .
Anche con gli Armeni si cercò dunque di procedere in questo modo, grazie anche all’opera prestata da alcuni religiosi armeni cattolici formatisi a Roma, come il vardapet Chatchatur Aŕakhelean. Quest’ultimo era particolarmente abile nel guadagnarsi la fiducia e la collaborazione della gerarchia armena apostolica, riuscendo progressivamente a portarla su posizioni cattoliche . Tuttavia, questo approccio venne messo seriamente in questione proprio negli anni a cavallo tra Sei e Settecento, quando un numero sempre maggiore di missionari cominciò ad avvertire la problematicità della situazione e a scrivere a Roma per avere delucidazioni sulla communicatio in sacris e in particolare per ricevere una regola chiara in merito al permesso o no per i convertiti di continuare a frequentare le chiese armene. Il Sant’Uffizio si pronunciò in maniera definitiva e generale sulla questione solo nel 1729, ma già negli anni precedenti una serie di decreti proibitivi della communicatio vennero a complicare la vita degli Armeni cattolici. Non era più il tempo delle prime missioni, in cui un atteggiamento tollerante poteva essere giustificato come strumento apostolico: ora si trattava piuttosto di difendere le comunità cattoliche già esistenti dal rischio dell’indifferentismo dottrinale .
Non tutti i missionari la pensavano però allo stesso modo e ben presto emerse un aperto conflitto tra chi continuava a difendere l’utilità apostolica delle conversioni segrete e delle buone relazioni con gli «scismatici» e quanti argomentavano invece per la necessità di una separazione netta dei neofiti dalle comunità d’origine. Nel caso della Costantinopoli d’inizio Settecento i cappuccini erano piuttosto elastici, mentre i gesuiti furono tra i primi a richiedere rigidamente ai convertiti armeni di smettere di frequentare le chiese della loro nazione e di ricorrere soltanto a quelle latine di Galata, dove non correvano rischi di contaminazione ereticale . In questo modo, però, sostanzialmente imposero ai cattolici armeni una latinizzazione di fatto, che si esprimeva nella frequentazione delle chiese latine, nella ricezione dei sacramenti da parte di sacerdoti latini e nell’osservanza di calendari e digiuni occidentali. Anche tra i religiosi armeni cattolici, vi erano approcci molto differenti: gli alunni di Propaganda Fide, educati a Roma nel Collegio Urbano, si preoccupavano innanzitutto dell’ortodossia dottrinale e ritenevano eretica la Chiesa armena apostolica, predicando come necessaria una chiara separazione; al contrario, i primi discepoli dell’abate Mechitar pensavano innanzitutto a preservare il patrimonio liturgico e culturale specifico del cristianesimo armeno, cercando di mostrarne la sostanziale cattolicità e continuando a credere nel dialogo con la gerarchia armena esistente8. Considerata la confusione e la gravità del problema, si capisce perché il primo decennio del Settecento corrisponda al momento in cui «esplose» il problema della communicatio: è infatti allora che arrivò a Roma il maggior numero di segnalazioni da parte dei missionari di questo problema, costringendo i teologi del Sant’Uffizio a promulgare negli anni seguenti diverse istruzioni e decreti in materia.
2. Prendendo più da vicino in esame la comunità armena di Costantinopoli, all’inizio del secolo XVIII si aggirava probabilmente sulle 40.000 unità, di cui, secondo alcune stime, circa un quinto erano i cattolici. Le conversioni erano però in notevole aumento se vent’anni dopo il vicario patriarcale affermava che i cattolici armeni erano già 20.0009. Bisogna prendere questi numeri con molta cautela, perché gli stessi religiosi europei che li riferiscono, oltre probabilmente ad esagerarli, premettono subito che i cattolici non erano tutti uguali, ma di tre tipi differenti: quelli che frequentavano solo le chiese latine, quelli che frequentavano le chiese nazionali ma senza prendervi l’eucarestia e confessandosi invece segretamente dai missionari, e quelli infine che praticavano una completa communicatio in sacris con la Chiesa apostolica (i cosiddetti cattolici «occulti»). Questo genere di divisione dei cattolici in «classi» è un topos estremamente ricorrente durante tutta la prima parte del secolo e dà la misura di quanto confusi fossero i confini confessionali e quanto ambigua potesse essere allora l’identità religiosa10. Insomma, la diversità di opinioni tra i missionari in merito alla communicatio provocava divisioni anche tra i fedeli a loro affidati, dato che i seguaci della separazione cominciarono ad accusare di eresia i cattolici che frequentavano le chiese armene e questi risposero a loro volta chiamandoli “Franchi”, utilizzando cioè il nome allora impiegato per definire i cattolici di rito latino, Europei o loro discendenti, come a sancirne il tradimento rispetto alla comunità d’origine. Non era solo una questione puramente religiosa: abbandonando le chiese nazionali, infatti, i cattolici provocavano una minore entrata economica per il clero armeno che le officiava e dimostravano disubbidienza alle autorità religiose della comunità11.
Questa peraltro non era l’unica fonte di tensione. Per rendersene conto, basta guardare ad un dato eclatante, quello relativo agli avvicendamenti al patriarcato armeno di Costantinopoli tra Sei e Settecento: nel solo primo decennio del secolo XVIII passarono sul trono ben undici patriarchi, per una durata media dell’incarico inferiore all’anno e sempre terminata con una deposizione; cinque di loro, tra l’altro, avevano già ricoperto la carica in precedenza12. La spiegazione risiede nell’elevata conflittualità che dilaniava allora la comunità armena, divisa non soltanto dalla spaccatura
Latin-Roman loyalty», in: «Het Christelijk Oosten», 52 (2000), 3-4, pp. 251-267; ID., «La visione di Mechitar del mondo e della Chiesa: una ‘Weltanschauung’ tra teologia e umanesimo», in: B.L. ZEKIYAN – A. FERRARI (ed.), Gli Armeni a Venezia. Dagli Sceriman a Mechitar: il momento culminante di una consuetudine millenaria, Venezia 2004, pp. 177-200
9 HOFMANN, Il vicariato apostolico…, cit., pp. 78-83 (3 agosto 1700, relazione del visitatore David di S. Carlo), pp. 95102 (relazione del vicario Mauri, 28 marzo 1721). 10 Archivio della Congregazione per Dottrina della Fede (ACDF), Stanza Storica, M 3 a, cc. 232r-233v, cc. 270r-271v.
11 La documentazione principale riguardo ai conflitti riguardanti gli Armeni di Costantinopoli si trova nell’Archivio della Congregazione di Propaganda Fide (APF, SC, Armeni, vol. 4 e sgg.; Romania, vol. 4 e sgg.), nella corrispondenza dell’ambasciatore francese a Costantinopoli (Archives Nationales, Affaires Étrangères, B/I, voll. 383-388), nelle Archives Provinciales des Capucins de Paris (APCP, fonds Constantinople - St. Louis de Pera, série E), oltre che nel manoscritto 1261 conservato presso la biblioteca di quest’archivio e in parte pubblicato da R.H. KÉVORKIAN, Documents d’archives français sur le Patriarcat arménien de Constantinople (1701-1714), in «Revue des études arméniennes» 19 (1985), pp. 333-371. Una sintesi molto utile dei problemi incontrati dalla comunità armeno cattolica è fornita da CH.A. FRAZEE, The Formation of the Armenian Catholic Community in the Ottoman Empire, in «Eastern Churches Review» 7 (1975), pp. 149-163.
12
Le statistiche si basano sulla lista edita da François TOURNEBIZE nelle voce «Arménie» del Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastiques: vol. 4, Paris 1912, coll. 376-377. È possibile che nel 1706 si conteggi un patriarca in più (Matt'eos Sari, probabilmente patriarca di Gerusalemme).
confessionale provocata dall’apostolato cattolico, ma anche da una serie di lotte intestine tra gruppi di potere per il controllo dell’istituzione patriarcale, regolata ormai da logiche sempre più economico-politiche. La rivalità tra i vari gruppi di sarraf (cioè prestatori-banchieri) finiva peraltro per arricchire le tasche degli ufficiali ottomani e lo stesso tesoro imperiale, dato che, nel tentativo di farsi eleggere, i candidati continuavano a promettere donativi e ricavi fiscali sempre maggiori, adattandosi in questo alle necessità crescenti dello Stato ottomano. All’indebitamento cronico del Patriarcato si sommava la ricorrente instabilità del suo vertice, esposto ormai all’avidità dei ministri della Sublime Porta, sempre pronti a prendere in considerazione la sostituzione di un patriarca con un rivale disposto a offrire di più.
3. Veniamo dunque alle autorità ottomane: in precedenza non avevano mostrato una particolare preoccupazione per il crescente numero di conversioni di sudditi cristiani alla fede di Roma, nonostante fosse evidente che l’attività dei missionari andava ben al di là di quello che era stabilito nelle Capitolazioni, secondo le quali essi si sarebbero dovuti dedicare essenzialmente alla cura pastorale degli Europei là residenti. Nei decenni a cavallo tra il Sei e Settecento la situazione cambiò però radicalmente. L’atteggiamento sempre più aggressivo ed intransigente di alcuni missionari e i loro successi provocarono disordini sociali nelle comunità cristiane dell’impero, spingendo le gerarchie ortodosse e apostoliche a rivolgersi alle autorità ottomane per difendere le proprie prerogative. Tali rivendicazioni trovarono pieno appoggio da parte della Sublime Porta a causa di due fattori congiunti: da una parte, l’importanza sempre maggiore assunta all’interno dell’amministrazione ottomana dai patriarchi orientali, ai quali venivano affidati compiti fiscali e disciplinari indispensabili, tra cui il compito di mantenere l’ordine tra le minoranze cristiane; dall’altra, le difficoltà militari e politiche dell’Impero nella lunga guerra con Austriaci e Veneziani, da cui uscirà alla fine sconfitto nel 1699 . In questo contesto, si verificarono due eventi che peggiorarono ulteriormente la situazione: nel 1694 i Veneziani occuparono brevemente l’isola di Chio, vicinissima alle coste turche, grazie anche al sostegno offerto dalla popolazione cattolica locale . L’evento fece scalpore e contribuì, insieme ad altri rovesci, alla deposizione del Sultano allora regnante e all’avvento di un nuovo sovrano, Mustafa II; insieme a lui giunse a corte anche il suo precettore, Feyzullah Efendi, nominato şeyhülislam, la massima carica religiosa dell’impero. Feyzullah era un avversario giurato dei missionari cattolici, essendosi scontrato con loro quando era ancora cadì di Erzurum: in questa città era presente un’importante comunità armena e il giudice islamico aveva potuto assistere negli anni precedenti ai disordini che l’apostolato dei gesuiti aveva prodotto, senza però poter intervenire veramente in quanto questi ultimi erano stati protetti dall’ambasciatore francese . Una volta raggiunto il vertice del potere, però, approfittando degli eventi di Chio, Feyzullah convinse il nuovo sultano che i convertiti cattolici erano una quinta colonna degli Europei nel seno dell’Impero e che perciò la propaganda dei missionari andava fermata. A partire dal 1695 furono così promulgati una serie di hatt-ı şerif (decreti imperiali) che limitavano fortemente le attività dei religiosi europei e che soprattutto imponevano ai convertiti orientali di tornare alle loro Chiese d’origine . Alcuni Armeni cattolici riuscivano ad incontrare segretamente i missionari europei per ricevere l’eucarestia o confessarsi, ma non potevano comunque evitare di ricorrere al clero apostolico per il battesimo, il matrimonio e i funerali: tali atti religiosi avevano infatti un valore “civile” e pubblico e come tali, secondo il quadro giuridico ottomano, potevano essere amministrati solo dalle autorità religiose ufficialmente riconosciute, vale a dire le gerarchie ecclesiastiche nominate dal Sultano. Chi si fosse rifiutato di obbedire al proprio legittimo patriarca sarebbe stato considerato un ribelle e un sovvertitore dell’ordine pubblico.
Abbiamo visto dunque come gli Armeni cattolici si trovassero prigionieri di continue conflittualità e di imposizioni contrastanti: da una parte alcuni missionari e più tardi la stessa Roma vietavano la communicatio in sacris, dall’altra le autorità ottomane e le gerarchie apostoliche la imponevano. Come si poteva risolvere una situazione così complessa? Nella tesi discuto tre tentativi diversi: ciascuno di essi dovrebbe in realtà essere trattato nel dettaglio, ma in questa sede mi limiterò a mostrarne i caratteri essenziali e soprattutto le ragioni del loro fallimento.
4. Il primo tentativo si ebbe nel 1701: sotto l’influenza di Feyzullah venne deposto l’allora patriarca Melkhisedek Suphi, accusato di essere troppo conciliante verso i missionari, e al suo posto fu eletto Ephrem di Ghaphan, avversario dei «Franchi», che si affrettò a far arrestare i principali Armeni cattolici della capitale. Quattro dei religiosi più conosciuti si rifugiarono allora nel convento dei cappuccini di Galata, sotto la protezione dell’ambasciata di Francia: tra di loro il già citato Chatchatur e anche il giovane Mechitar . Di fronte allo scoppiare della persecuzione il custode locale del convento, padre Hyacinthe-François di Parigi, ritenne che l’unica via possibile fosse quella della diplomazia e del compromesso. Era necessario ricompattare la comunità armena ed eliminare le cause che avevano prodotto l’ostilità di una parte di essa contro i Cattolici: ovvero la latinizzazione e il comportamento imprudente di quei convertiti che apostrofavano apertamente come eretici i propri connazionali. La soluzione era dunque quella di far tornare i Cattolici nelle chiese armene senza però che questo li costringesse a rinnegare la loro fede o a compiere atti contrari ad essa. Dopo una mediazione con alcuni rappresentanti della comunità, il 22 ottobre 1701 si arrivò alla stesura di un documento approvato dalle due parti .
L’accordo, provvisoriamente in lingua francese, si componeva di una serie di «articoli» concordati «tra gli Armeni che vanno alle chiese latine e gli Armeni che vanno alle chiese armene», evitando dunque sin dal principio qualificazioni di tipo confessionale o giudizi di valore: i primi dovevano tornare a frequentare le chiese nazionali e a seguire interamente il rito armeno nel calendario e nei digiuni; i secondi non avrebbero preteso da loro nessuna professione di fede e avrebbero eliminato dalla liturgia gli aspetti più visibilmente anticattolici, come l’anatema contro papa Leone e il Concilio di Calcedonia. Chatchatur Aŕakhelean tradusse in armeno e in latino il testo di questo compromesso, che fu accettato anche dal vicario patriarcale Gasparini e da tutti i superiori degli ordini religiosi della capitale, ad eccezione dei gesuiti, che cercarono anzi in ogni modo di boicottare l’accordo. Perché l’accordo entrasse in vigore, però, era ovviamente necessario che fosse ratificato dalle autorità religiose delle due parti e da qui vennero le maggiori difficoltà: il patriarca Ephrem si mostrava infatti restio a sottoscrivere qualunque compromesso con i Cattolici, temendo l’ira di Feyzullah, mentre da parte di Roma vi erano seri dubbi sull’ammissibilità dottrinale di un accordo di questo genere. Alla fine, nell’agosto del 1703 il Sant’Uffizio decretò che le condizioni poste ai cattolici erano inaccettabili nella misura in cui prevedevano una esplicita communicatio in sacris e che quindi gli articoli andavano rigettati .
5. A quella data, comunque, il progetto era già naufragato e la comunità era in pieno subbuglio a causa di un ennesimo cambio di vertice in seno al patriarcato. Nel marzo 1702, infatti, Feyzullah aveva fatto eleggere patriarca un proprio fedelissimo, il vescovo di Erzincan Avetikh, con il quale aveva collaborato ai tempi della sua permanenza ad Erzurum nella lotta contro i missionari europei. La nomina di Avetikh esasperò ulteriormente le tensioni: i Cattolici temevano un ulteriore inasprimento delle violenze a loro danno, mentre anche gli Apostolici non erano felici di vedersi imposto un patriarca nominato dall’alto e che per giunta, grazie all’appoggio del Şeyhülislam e all’esborso di molto denaro, era riuscito ad ottenere anche il titolo di patriarca di Gerusalemme, cumulando così le due cariche . Per cercare di superare le ostilità trasversali, Avetikh finse un atteggiamento conciliante e propose di incontrare i religiosi armeni cattolici rifugiati nel convento dei cappuccini per una mediazione: in realtà era una trappola, a cui solo Mechitar riuscì a fuggire, imbarcandosi segretamente per la Morea veneziana . Questo e altri eventi convinsero l’ambasciatore francese dell’epoca, Charles de Ferriol, che l’unica soluzione possibile passava per la deposizione di Avetikh. Ma neanche questa misura era sufficiente: nel 1703, infatti, una rivolta militare ottomana portò all’uccisione di Feyzullah e ad un cambio di sultano, mentre il Patriarca veniva fatto arrestare e inviare in esilio dagli stessi rivoltosi . Dopo neanche un anno, però, Avetikh riusciva a tornare sul trono promettendo di versare una cifra spropositata, 100.000 akçe. L’ambasciatore si decise allora per un colpo di mano che risolvesse definitivamente la questione: nell’aprile 1706, approfittando dell’assenza di appoggi politici del Patriarca e di una sua momentanea caduta in disgrazia, lo fece rapire e segretamente condurre in Francia, dove fu rinchiuso dapprima nell’abbazia di Mont Saint-Michel e poi alla Bastiglia .
La sua permanenza lì in assoluto segreto fu all’origine di una serie di fantasiose interpretazioni ottocentesche che volevano identificare in lui il misterioso prigioniero dalla “maschera di ferro” . A questa storia, già di per sé romanzesca, si deve aggiungere un particolare importante: durante la prigionia francese Avetikh scrisse un memoriale autobiografico in armeno, in cui cercò di dimostrare di esser sempre stato amico dei Cattolici, mostrando addirittura di credere che la propria deposizione e rapimento fossero stati dovuti a manovre di mercanti stranieri, i quali volevano il pagamento dei debiti del Patriarcato, e al tradimento di un suo vicario, che avrebbe rivelato il fatto che egli mescolava di nascosto l’acqua nel calice, come i Cattolici. Viene spontaneo interpretare questa versione come l’estremo tentativo di ingraziarsi i propri carcerieri, ma si tratta in realtà di un testo più complesso e che merita di essere analizzato seriamente: dall’esame incrociato delle fonti si ricava infatti l’impressione che la maggior parte dei conflitti interni alla comunità armena non fossero dovuti veramente a motivazioni settarie, quanto piuttosto a rivalità politiche e necessità economiche, ammantate solo successivamente di parvenze confessionali . Sta di fatto che nel 1710
Avetikh fece formalmente professione di fede cattolica, un anno prima di morire ed essere interrato nella chiesa di Saint-Sulpice a Parigi .
6. Tornando a Costantinopoli, il rapimento di Avetikh ebbe conseguenze del tutto opposte a quelle sperate da Ferriol: le autorità ottomane e la gerarchia apostolica intuirono subito le responsabilità dell’ambasciatore e scatenarono rappresaglie contro il clero armeno cattolico. A peggiorare la situazione ci si mise anche la contemporanea elezione di un kathoghikos decisamente ostile a Roma, Alekhsandr I Djughayetsi, che per corroborare la propri politica anticattolica appoggiò fortemente la nomina a patriarca di Costantinopoli di un ex vicario di Avetikh che condivideva i suoi stessi sentimenti, Giovanni di Smirne (Yovhannēs Izmirtsi). Il risultato fu che nel 1707 dieci Armeni cattolici, già imprigionati nel Bagno, furono condannati a morte. Nove di essi scamparono al boia convertendosi all’Islam, e soltanto uno non volle rinnegare la propria fede: un prete sposato, già collaboratore di Mechitar, chiamato «Der Gomidas» (Tēr Komitas) e fratello del letterato Eremia Khēōmiwrtchean. La sua morte fece all’epoca molta impressione e gli guadagnò in seguito un posto d’onore nel pantheon dei neomartiri .
È in questo contesto che prende forma l’ultimo tentativo che analizziamo, promosso non come gli altri da religiosi o diplomatici europei, ma direttamente da un religioso armeno, il vescovo di Mardin Melkhon Tasbas (o Thaspasean). Quest’ultimo ipotizzò nel 1714 l’idea di domandare alle autorità ottomane l’utilizzo di una chiesa separata per i convertiti, officiata in rito armeno da sacerdoti nazionali cattolici; in tal modo si sarebbe proceduto di fatto ad una loro separazione liturgica, senza però prestare il fianco alle accuse di esser divenuti «Franchi» o di dipendere dai missionari europei, rendendo così inoffensiva l’arma con cui si erano in passato giustificate le misure violente contro i convertiti. La maggiore opposizione non venne allora dalla gerarchia apostolica ma dai religiosi europei: in particolare, i gesuiti insorsero contro questa proposta, affermando che senza la loro guida gli Armeni cattolici sarebbero ricaduti nell’eresia: ma era chiaro a tutti che ciò che li preoccupava veramente era il danno economico derivante dalla perdita delle offerte ed elemosine . In tale occasione si sollevò anche per la prima volta il problema più generale della dipendenza degli Armeni cattolici dagli organi della Chiesa latina di Costantinopoli: gli sforzi della comunità per raggiungere un certo grado di autonomia furono lungamente ostacolati e solo nel 1759 si arrivò all’istituzione di un Vicariato per gli Armeni, in ogni caso ancora subordinato al vicario patriarcale latino, rappresentante locale di Roma con funzioni di vescovo .
Nei decenni seguenti gli sforzi continuarono in questa direzione, ma i Cattolici armeni riuscirono ad ottenere l’utilizzo esclusivo di alcune chiese solo nelle regioni più distanti (come a Mardin) o in situazioni particolari e contingenti (ad esempio quando erano la maggioranza in un villaggio) e comunque sempre in modo irregolare ed episodico. Nella maggioranza dei casi, i sacerdoti armeni cattolici celebravano nelle case private o nelle chiese dei missionari latini che li accoglievano. Nel 1745 la Congregazione di Propaganda e il Vicario regolarono in modo ufficiale questa situazione, imponendo ai rettori delle chiese latine dei giorni ed orari appositamente riservati alla liturgia e al catechismo dei fedeli armeni .
7. Tra gli ultimi anni del XVIII secolo e i primi del XIX, il dibattito sulla communicatio in sacris tra gli Armeni oltrepassò l’ambito delle missioni e le stanze della Curia romana per raggiungere il grande pubblico, grazie soprattutto alle pubblicazioni legate all’ordine mechitarista e finanziate dal banchiere veneto di origine armena Giovanni de Serpos. Sotto il suo nome comparvero allora una serie di pamphlet e di opere storico-liturgiche miranti a dimostrare la liceità di alcune forme di communicatio, così come la sostanziale cattolicità della tradizione armena: ne seguirono repliche e controrepliche da parte di teologi e polemisti, fino a sfociare in un esame inquisitoriale dei testi31. Nonostante la rinnovata attenzione dell’opinione pubblica sulla questione, tuttavia, tale dibattito intellettuale non ebbe reali ripercussioni. Da un lato, la costruzione d’identità confessionali ormai chiare e distinte e la scelta definitiva per l’uniatismo richiedevano una soluzione che non poteva più passare per la tolleranza del compromesso o della collaborazione tra le comunità, ma soltanto dalla separazione; dall’altro, la discussione teorica non arrivava in nessun caso a modificare realmente la condizione dei sudditi cattolici della Sublime Porta.
Per risolvere veramente la questione era necessario un profondo mutamento della società ottomana, che si verificò soltanto nell’epoca immediatamente precedente alle Tanzimat. In seguito alle crescenti pressioni delle potenze europee e alla sconfitta ottomana nella guerra con la Russia, nel 1831 fu approvata la costituzione di un millet cattolico: al primate armeno che lo presiedeva furono riconosciuti i poteri civili sui propri fedeli, così come sui Cattolici siri e caldei. I Cattolici sudditi dell’Impero erano finalmente emancipati dal controllo delle gerarchie orientali: soltanto allora vennero meno le condizioni che fino a quel momento avevano reso inevitabile la communicatio in sacris, anche se questo non risolse tutti i problemi e anzi, in un certo senso, ne creò di nuovi .
II PARTE
Rassegna delle attività armenistiche in ambito italiano (autunno 2015-autunno 2016)
PUBBLICAZIONI ARMENISTICHE DI STUDIOSI ITALIANI O ATTIVI IN ITALIA
AIMI Chiara, Codex M 437 (Appendix to L. Pagani - G. D’Alessandro, Homer in the Armenian tradition), in Francesca Gazzano, Lara Pagani, Giusto Traina (eds.), Greek texts and Armenian traditions. An Interdisciplinary Approach, De Gruyter, 2016, pp. 270-274.
— con A. Sirinian, I manoscritti armeni copiati a Roma nel XIII secolo. Atti del convegno “Roma e il suo territorio nel medioevo. Le fonti scritte fra tradizione e innovazione” (Roma, 25-29 ottobre 2012), a cura di Cristina Carbonetti, Santo Lucà, Maddalena Signorini, Spoleto, 2015, pp. 121-160, tavv. I-X.
— conseguimento del titolo di Dottore di ricerca il 27 maggio 2016 presso l'Università di Bologna (relatore: Anna Sirinian, titolo della tesi: "La versione armena del Libro V delle Leggi di Platone: edizione critica con commento e note al testo").
ALPI Federico, «Grigor Pahlawowni Magistros: un esempio riuscito di reazione culturale alla crisi politica nell’Armenia dell’undicesimo secolo», Crisi: immagini interpretazioni e reazioni nel mondo greco, latino e bizantino (Alessandria: Edizioni dell’Orso), pagg. 293–303
— «Messaggi attraverso il confine: l’Armenia e il confine orientale di Bisanzio nelle “Lettere” di Grigor Pahlawowni Magistros (ca. 990-1058)» (tesi di dottorato, Pisa: Università di Pisa)
— conseguimento del titolo di Dottore di ricerca il 22 settembre 2015 presso l'Università di Bologna: accessibile all'indirizzo https://etd.adm.unipi.it/t/etd-08102015-094929/
BAIS Marco, «Alans (Alani)», pp. 26-27; «Armenian Church: History (16th-20th cent.)», pp. 185190; «Caucasian Albania: Albanian Language», p. 387; «Caucasian Albania: Christianization», pp. 387-388; «Caucasian Albania: History», pp. 388-390; «Het‘um of Koṙykos», pp. 941-942; «Mesrop Mashtots‘», pp. 1263-1264; «Nerēs I the Great», pp. 1322-1323; «Nersēs of Lambron», pp. 13231324; «Pahlavi Language», p. 1418; «P‘awstos Buzand», pp. 1460-1461; «Sebēos», pp. 1650-1651; «Sogdian, language», pp. 1696-1697 in E.G. Farrugia sj, ed., Encyclopedic Dictionary of the Christian East, Pontifical Oriental Institute, Rome 2015 (second edition revised and expanded). ISBN 978-88-7210-391-3.
— “Armenia and Armenians in Het‘um’s Flos Historiarum Terre Orientis”, in Medieval Encounters 21 (2015), pp. 214-231. E-ISSN 1570-0674.
— «Like a flame through the reeds: an Iranian image in the Buzandaran Patmut‘iwnk‘», in U. Bläsing, V. Arakelova, M. Weinreich (eds.), Studies on Iran and the Caucasus. In Honour of Garnik Asatrian, Brill, 2015, pp. 9-24. ISBN 9789004302013.
— (con Emidio Vergani), «La corona di Costantino nella tradizione armena», in R. Zarzeczny (a cura di), Aethiopia fortitudo ejus. Studi in onore di Monsignor Osvaldo Raineri in occasione del suo 80° compleanno, (Orientalia Christiana Analecta, 298), Pontificio Istituto Orientale, Roma 2015, pp. 59-92, ISBN 978-88-7210-392-0.
FERRARI Aldo, monografia: Quando il Caucaso incontrò la Russia. Cinque storie esemplari, Guerini e Associati, Milano 2015.
— monografia: L’Armenia. Una cristianità di frontiera, Il Cerchio, Rimini 2016.
— curatela (con E. Ianiro): Dal Paleolitico al Genocidio Armeno. Ricerche su Caucaso e Asia Centrale, Edizioni Ca' Foscari, Venezia 2015.
— curatela (con E. Ianiro), Armenia, Caucaso e Asia Centrale. Ricerche 2016, Edizioni Ca’ Foscari 2016.
— Persia and Persians in Raffi’s “Xamsayi melikʻutiwnnerə”, in U. Bläsing, V. Arakelova and M. Weinreich (eds.), Studies on Iran and the Caucasus in honor of Garnik Asatrian, Brill Academic Publishers, Leiden 2015, pp. 97-106.
— Van: il Paradiso Perduto degli Armeni, in M. Guidetti, S. Mondin (a cura di), A mari usque ad mare. Cultura visuale e materiale dall’Adriatico all’India. Scritti in memoria di Gianclaudio Macchiarella, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2016, pp. 317-336.
HARUTYUNYAN Khachik, L'attività del copista Mikhayēl di Thochath (Tokat), 1606-1658, in «Rassegna degli Armenisti Italiani», vol. XVII (2016), pp. 38-49.
LALA COMNENO Maria Adelaide, Architettura armena, perché? Qualche considerazione asistematica, in «Rassegna degli Armenisti Italiani», vo. XVII (2016), pp. 5-7.
MILDONIAN Paola, curatela di Sayat'-Nova. Canzoniere armeno, edizione bilingue, ed. Ariele: Milano 2015.
NOCETTI Loris Dina, Le citazioni bibliche nella Պատմութիւն Հայոց (Storia degli Armeni) di
Phawstos Buzand: una prima ricognizione, in «Rassegna degli Armenisti Italiani», vol. XVII (2016), pp. 9-25.
ORENGO Alessandro, 500 Years of Printed Armenian Books, in Th. M. van Lint – R. Meyer (eds), Armenia. Masterpieces from an Enduring Culture, Oxford, 2015, pp. 60-67.
— Recensione di: V. Calzolari and M. E. Stone (eds), Armenian Philology in the Modern Era. From Manuscript to Digital Text, Leiden-Boston: Brill, 2014 (“Handbook of Oriental Studies”. Section Eight. Uralic and Central Asian Studies), XVI + 595 pp. – ISBN: 9789004259942, «Philology», 1, 2015, pp. 293-296.
— I poveri nell'Armenia del quarto e quinto secolo, in: Povertà e ricchezza nel cristianesimo antico (I-V sec.). XLII Incontro di Studiosi dell'Antichità Cristiana, Roma, 2016, pp. 521-534.
— Eznik of Kołb as a Translator of Methodius of Olympus, in: F. Gazzano-L.Pagani-G.Traina (eds.), Greek Texts and Armenian Traditions. An Interdisciplinary Approach, Berlino-Boston, 2016, pp. 31-45.
PANE Riccardo, Pour une interprétation théologique d’Agathange, in «Sacra Doctrina» LX/1 (2015), pp. 173-195.
– La questione armena nelle pagine del quotidiano “L’Avvenire d’Italia”, in
«Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione» XIX/38 (2015), 455-483.
POGHOSSIAN Zara, “Jews in Armenian Apocalyptic Traditions of the 12th century: a Fictional Community or New Encounters?”, In Peoples of the Apocalypse: Eschatological Beliefs and Political Scenarios. Eds. W. Brandes, F. Schmieder, R. Voß, 147-192. Berlin: De Gruyter, 2016.
— “Locating Religion, Controlling Territory: Conquest and Legitimation in Late Ninth Century Vaspurakan and its Inter-religious Context.” In Locating Religions: Contact, Diversity and Translocality. Eds. R. Glei and N. Jaspert, 173-233. Leiden: Brill, 2016.
— “Государство и религия: основание монастырей и покровительство им как способ контроля над территориями в Армении во второй половине IX в.” [State and Religion: Foundation and Patronage of Monasteries as a Method of Territory Control in 9th c. Armenia], Государствo, Религия, Церковь [Gosudarstvo, Religija, Tserkov'] 22/33 (2015): 34-60.
— Book Review of Barbara Crostini and Sergio La Porta (eds), Negotiating Co-Existence: Communities, Cultures and Convivencia in Byzantine Society. Bochumer Altertumswissentschaftlisches Colloquium. Vol. 96. Trier: Wissentschaftlicher Verlag Trier, 2013, in Medieval Encounters 21 (2015): 313-319.
RATTIGHIERI Maria Cristina, Presenza armena nella Città Vecchia di Gerusalemme: testimonianze, descrizioni e impressioni di viaggiatrici italiane fra 1850-1935, in «Rassegna degli Armenisti Italiani», vol. XVII (2016), pp. 27-38.
SANTUS Cesare, La comunità armena di Costantinopoli all'inizio del XVIII secolo: scontri e tentativi di accordi interconfessionali, in «Rassegna degli Armenisti Italiani», vol. XVII (2016), pp. 51-59.
SIRINIAN Anna, (con Ch. Aimi), I manoscritti armeni copiati a Roma nel XIII secolo, in Roma e il suo territorio nel medioevo. Le fonti scritte tra tradizione e innovazione. Atti del Convegno internazionale di studio dell'Associazione italiana dei Paleografi e Diplomatisti (Roma, 25-29 ottobre 2012), a cura di C. Carbonetti - S. Lucà - M. Signorini, Spoleto, Centro italiano di studi sull'alto medioevo, 2015, pp. 121-160
TINTI Irene, ORENGO, A., with contributions by TINTI, I. (forthcoming), "The Reception of Galen in the Armenian Tradition (5th‒17th Centuries)", in BOURAS-VALLIANATOS P. ‒ ZIPSER B. (eds.), Brill's Companion to the Reception of Galen, Brill (Brill's Companions to Classical Reception), Leiden ‒ Boston.
— (forthcoming), "Problematising the Greek Influence on Armenian Texts", Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology and Literature 7.1.
— "Grecisms in the Ancient Armenian Timaeus", in GAZZANO, F., TRAINA, G., PAGANI, L. (eds.), Greek Texts and Armenian Traditions. An Interdisciplinary Approach, de Gruyter (Trends in Classics. Supplementary Volumes 39), Berlin: 2016, 277–298.
ULUHOGIAN Gabriella, «Due manoscritti armeni salvati dai Cappuccini», Revue des Études Arméniennes, XXXVI (2014), pp. 211-236.
INTERVENTI E ATTIVITÀ DEI SINGOLI STUDIOSI E SOCI DELL’ASSOCIAZIONE
ALPI Federico, lezione introduttiva sulla lingua armena all’Università di Parma, su invito del Prof. Davide Astori (Parma), 7 ottobre 2015.
– lezione sulla traduzione armena della Bibbia e in particolare di Gen. 1:1, Università di Parma, 26 novembre 2015.
– sessioni di traduzione delle lettere di Grigor Magistros Pahlawowni presso l’università di Oxford, su invito del Prof. Theo van Lint, gennaio-marzo 2016.
– assegnista di ricerca nell'ambito del progetto “The universal Rome in cross-cultural perspective. Perceptions of the Orient at the Papal court in the late Middle Ages” presso l'Università di Bologna tutor Prof.ssa Irene Bueno, da maggio 2016.
– "Imperi e fedi a confronto: la corrispondenza fra Leone III e ‘Umar II (VIII secolo)", intervento per il convegno "La costruzione culturale dell’alterità religiosa nel Mediterraneo tardo antico (sec. IV-IX)" (Padova, 25-26 maggio 2016).
– "Microlessico medico armeno", intervento per il convegno "Parlare la medicina: fra lingue e culture, nello spazio e nel tempo" (Parma 5-7 settembre 2016).
BAIS Marco, Luce, creatrice di luce: gli šarakan di Nersēs Šnorhali per l’ora del sorgere del Sole, III Jornada de Poesía Religiosa, Universidad San Dámaso, Facultad de literatura cristiana y clásica San Justino, Madrid (24 febbraio 2015).
— Storia della civiltà armena, conferenza nell’ambito di: «Armenia: metamorfosi tra memoria e identità. Una settimana di incontri, cinema ed editoria» Roma (ICRCPAL, 25 marzo 2015).
— Serie di Seminari sull’Epideixis di S. Ireneo, Universidad San Damaso, Madrid (tra il giugno 2014 e il dicembre 2015).
— editor del Newsletter n° 50 dell’Association des études arméniennes.
FERRARI Aldo, South Caucasus. A lost multiculturalism?: International Workshop “Azerbaijani and Italian perspectives on multiculturalism”, October, 20th 2015, Università Ca’ Foscari, Venezia. — Un orientalismo armeno-russo? La Persia e i Persiani in Raffi, 3 novembre 2015, Università Ca’ Foscari, Venezia.
— La Transcaucasia dell’Ottocento: il giardino dei sentieri che si incrociano (Griboedov, A. Č’avč’avadze, Parrot, Abovean, Axundov): Convegno “Ricerche italiane sull'Asia centrale e sul Caucaso”, Università degli Studi “Roma Tre”, Roma 19-20 Novembre 2015.
— Brat’ja Ajvazovskije meždu Krymom i Veneciej: convegno “Armjanskaja Diaspora i armjanorossijskie otnošenija: istorija i sovremennost’”, Università Statale di Mosca, 14-16 settembre 2016. — Le nobiltà armena e georgiana a Costantinopoli e nell'Impero russo: XXXVI Seminario Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla Terza Roma », Migrazione, imperi e città: da Roma a Costantinopoli a Mosca e San Pietroburgo, Accademia delle Scienze, Mosca, 25-26 ottobre 2016. — Organizzazione del III Ciclo di conferenze “Armenia. Una civiltà di frontiera”, Università Ca’ Foscari di Venezia, 6 ottobre – 3 novembre 2015.
— Organizzazione (con Marco Ruffilli) del II Seminario di Arte Armena, Università Ca’ Foscari di Venezia, 10 marzo – maggio 2016.
LUCCA Paolo, Jews and Jewish traditions in Armenian History and Literature, conferenza per la 31° edizione del Corso estivo di lingua e cultura armena di Venezia, 16 agosto 2016.
— Tra Italia, Persia e Armenia: una storia di frati domenicani armeni, con il prof. Stefano Pellò, conferenza presso la Biblioteca Nazionale Marciana, 10 marzo 2016.
— Biblical and Fable Wisdom in Medieval Armenian Literature: The Cases of Mxit‘ar Goš and Vardan Aygekc‘i, per il congresso: «Hors d'Espagne : postérité et diffusion du corpus médiéval Aliento en Europe et Méditerranée», 6ème Colloque International ALIENTO, Nancy (MSH Lorraine) – Paris (INALCO), 16-17 marzo 2016.
ORENGO Alessandro, Gli Armeni, da sudditi ottomani a vittime del genocidio, intervento fatto il 20 gennaio 2015 presso la Sala consiliare del palazzo comunale di Livorno, all’interno dell’audizione e discussione in merito alla mozione presentata dalla consigliera Simoncini “Riconoscimento da parte della città di Livorno del genocidio armeno”.
— L’invenzione dell’alfabeto armeno: fatti e problemi, comunicazione presentata al congresso “Contact Phenomena between Greek, Latin and Peripheral Languages in the Mediterranean Area (1200 B.C. - 600 A.D.), Cagliari 13-14 aprile 2015.
— Armeni e genocidio, intervento fatto a Firenze, il 22 aprile 2015, all’interno dell’iniziativa “Incontro con l’Armenia”, organizzato da Versiliadanza, Small Theatre NCA, e Fondazione Sistema Toscana.
— Il genocidio degli Armeni: alla ricerca di una verità storica, lezione tenuta il 24 aprile 2015 presso il liceo Galileo Chini di Lido di Camaiore (Lucca).
— Sugli Armeni e sul genocidio di cui furono vittime, conferenza tenuta a Livorno il 23 maggio 2015, all’interno dell’iniziativa, patrocinata dal comune di Livorno, ed intitolata “Livorno delle genti. Armenia: dal genocidio alla rinascita culturale, Livorno, 21-28 maggio 2015”.
— Eznik de Kołb entre Orient et Occident, comunicazione presentata al congresso “Interactions religieuses dans l’Arménie ancienne (VIIIe a. av. J.-C. - Ve s. ap. J.-C.)”, Parigi, 26-27 ottobre 2015.
— L’alterità religiosa in Armenia alla metà del V secolo dopo Cristo: il caso di Eznik di Kołb, comunicazione presentata al congresso “La costruzione culturale dell’alterità religiosa nel Mediterraneo tardo antico (sec. IV-IX)”, Padova, 25-26 maggio 2016.
POGHOSSIAN Zara, Distinguished Visiting Professor at the University of California, Los Angeles, February 2016.
— “Armenians as the People of God and New Israel in medieval sources”. Conference And you shall be unto me a Kingdom of Priests, a Holy Nation: Chosen Peoples from the Bible to Daesh. 2021 June, 2016, Universtiy of Oxford (UK).
— “Espansione del monachesimo cenobita e controllo del territorio: Il caso di Vaspurakan nella seconda metà del IX secolo.” IX Giornata di Studi Armeni e Caucasici, 19 marzo 2015, Università Ca’ Foscari, Venezia.
— “The Mediterranean in Armenian Hagiographic traditions: from Christianization Narratives to Messianic Hopes.” Ein Meer und seine Heiligen: Die hagiographische Strukturierung des Mittelmeerraums im Mittelalter, 3-5 March, 2015, Deutsches Historisches Institut Rom, Italy.
— “The Contents and Methodological Considerations on Early Armenian Literary Production.” Beyond the Fathers: Christian Historiography between the Empires (4th - 8th Centuries), 24-25 October, 2015, Central European University, Budapest (Hungary).
PONTANI Paola, comunicazione su "I termini armeni per 'natura' tra eredità iranica e influssi greci" nell'ambito della Giornata Internazionale di studio "La terminologia filosofica tra Oriente e Occidente", 4 novembre 2015, Università La Sapienza, Roma.
— seminario su "Il tema physis al di là del mondo greco: il caso delle traduzioni armene", 18 febbraio 2016, Alma Mater Studiorum, Bologna.
SIRINIAN Anna, co-organizzazione a Bologna, insieme a don Riccardo Pane, di un doppio appuntamento per la commemorazione del centenario del genocidio armeno: 1) alle ore 17.00, nella Basilica di san Petronio, Solenne Pontificale festivo in rito armeno, presieduto da S. Ecc. Mons. Boghos Levon Zekiyan con la partecipazione dell’Ordine Mechitarista armeno di Venezia e del Pontificio Collegio armeno in Roma; 2) alle ore 20.45, presso l'Istituto Veritatis Splendor, conferenza “I manoscritti ritrovati” dedicata alla storia emblematica di due antichi manoscritti armeni appartenuti ai Padri Mechitaristi di Trebisonda e salvati dai Cappuccini della Provincia Emiliano-Romagnola. Relatori: Prof.ssa Gabriella Uluhogian e S.E. Mons. Boghos Levon Zekiyan, 14 novembre 2015.
— 28 novembre 2015: Roma, Università Sapienza, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dipartimento di Storia Culture Religioni, "I colofoni della tradizione manoscritta armena", Seminario "I colofoni nelle culture manoscritte orientali tardoantiche e altomedievali. Aspetti terminologici, funzionali, testuali" (incontro rivolto ai dottorandi del Dottorato di Filologia e Storia del mondo antico, Sapienza – Università di Roma, e del Dottorato di Scienze del testo letterario e delle fonti storiche, Università di Cassino e del Lazio meridionale).
— 4 dicembre 2015: Bologna, Liceo Laura Bassi, "1915 Armenia. La storia di un popolo: la storia di una famiglia", per la "Giornata della memoria e dell'impegno per i diritti umani"
— 14 marzo 2016: Roma, Università di Roma «Tor Vergata», Dipartimento di Studi letterari, filosofici e di storia dell'arte, seminario dal titolo «I manoscritti armeni: un’introduzione» nell’ambito del corso di «Archeologia del libro manoscritto» (Prof.ssa Maddalena Signorini - Prof.
Francesco D'Aiuto)
— Il 6 aprile 2016, a Bologna, nel corso dell'incontro "Armeni: la storia di un popolo, la difesa della memoria" organizzato dal Comune di Bologna (Quartiere San Vitale) presso la Sala Silentium, ha tenuto la relazione "Armenia, una storia plurimillenaria".
TINTI Irene, Les arméniens et la création d'une tradition écrite: une réponse à la crise, 1 febbraio 2016, Università di Ginevra, Journée d’études MESLO-ESTAS.
— Remarques sur la traduction des verbes composés grecs dans les versions arméniennes du Timée et des Lois de Platon (livre 6), 16 dicembre 2015, Università di Ginevra, Dipartimento MESLO, Atelier des doctorants et post-doctorants de l’Unité d’arménien.
— Introduction à la linguistique de l'arménien ancien, Semestre primaverile 2016, Università di Ginevra.
ULUHOGIAN Gabriella, conferenza “I manoscritti ritrovati” (con S.E. Mons. B.L. Zekiyan), Bologna, 14 novembre 2015, Istituto Veritatis Splendor.
— partecipazione all'incontro intitolato "Il giardino dei Giusti", Parma, 30 gennaio 2016, Biblioteca Benedettina San Giovanni Evangelista.
III PARTE
Centri Armenistici e
Associazioni collegate all'Armenia operanti in Italia
1) Accademia dei Padri Mechitaristi di San Lazzaro degli Armeni: Venezia San Lazzaro, cap. 30100, tel. 041.5260104.
Contiene la maggiore biblioteca armenistica italiana, una tra le più importanti del mondo, ricca di testi originali, manoscritti e stampe. Vi opera la celebre casa editrice.
2) Alma Mater Studiorum ‒ Università di Bologna: Dipartimento di Storia Culture Civiltà, via Zamboni 33, cap. 40126.
L’insegnamento di Lingua e letteratura armena, istituito nel 1973, è stato tenuto da Gabriella Uluhogian fino all’a.a. 2003-2004 e successivamente da Anna Sirinian. Attualmente esso fa parte di due corsi di laurea triennale (Antropologia, religioni, civiltà orientali; Storia) e tre corsi di laurea magistrale (Scienze storiche e orientalistiche; Filologia, letteratura e tradizione classica; Antropologia culturale ed etnologia) all’interno della Scuola di Lettere e Beni culturali (http://www.unibo.it/it/didattica/corsi-di-studio).
La ricerca, collegata alla didattica, è rivolta principalmente : 1) allo studio della letteratura armena sia nelle sue espressioni originali che nelle traduzioni realizzate anticamente dal greco; 2) ai manoscritti armeni e alle loro caratteristiche materiali e di contenuto; 3) alla storia delle relazioni tra gli Armeni e l’Italia in età medievale e moderna.
Dal 1988 tra l’Università di Bologna e l’Università Statale di Erevan esiste una convenzione per lo scambio di docenti e ricercatori volta a favorire contatti e collaborazioni scientifiche tra le diverse discipline presenti nei due Atenei. E’ ugualmente attiva una convenzione con l’Università di Ginevra per lo scambio di studenti (Programma Erasmus+).
I libri armeni, che formano una sezione all’interno della Biblioteca del Dipartimento intitolata a Giorgio Renato Franci, comprendono grammatiche per lo studio della lingua antica e moderna, dizionari, numerosi testi di autori antichi, medievali e moderni, saggi sulla letteratura, storia e cultura armena, cataloghi di manoscritti e un buon numero di periodici («Bazmavep», «Handēs Amsōreay», «Patma-banasirakan Handes», «Tełekagir», «Lraber», «Revue des Etudes Arméniennes», «Journal of Armenian Studies», «Armenian Revue»).
3) Università Ca’ Foscari Venezia: Ca’ Cappello-San Polo 2035, cap. 30125, tel 041.52877220, fax 5241847.
Insegnamento di lingua e letteratura armena, tenuto dal prof. Boghos Levon Zekiyan dall’a.a. 1976/1977 all’a.a. 2011/2012. Aldo Ferrari è ricercatore dal gennaio 2005 e titolare della Cattedra dal 2011.
Attivato inizialmente come insegnamento dì «dialetti iranici», allora gratuito, fu riattivato come Lingua e letteratura armena dall’a.a. 1981/82 in seguito alla soppressione degli insegnamenti gratuiti. È divenuto insegnamento quadriennale fondamentale dal 1997 nell’ambito del Corso di Laurea in Lingue e Civiltà Orientali presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere di Ca’
Foscari. Attualmente con la soppressione delle Facoltà, l’insegnamento afferisce al Dipartimento di
Studi dell’Asia e dell’Africa Mediterranea. L’insegnamento garantisce i corsi di Lingua e Letteratura Armena e di Storia del Caucaso per tutti gli anni della Laurea triennale, oltre al Lettorato tenuto da Sona Haroutyunian.
Dal 1994 al 2008 è stata in atto una convenzione di scambio di studenti tra Ca’ Foscari e l’Università Statale di Erevan. La cattedra ha promosso varie attività armenistiche: il Convegno «L’Armenia tra Oriente ed Occidente» (1978), le giornate di studio «Gli Armeni nella Cultura
Italiana» (tra 1982 e 1987), la Mostra del Cinema armeno di Venezia (1983), il Corso Intensivo di
Lingua e Cultura armena che si è svolto ininterrottamente ogni agosto a partire dal 1986 fino al 2015 (dal 2016 il Corso si svolge presso il Generale Studium Marcianum di Venezia), il Corso Audiovisivo di lingua armena occidentale Hayeren khosink, un progetto di ricerca sui documenti armeni conservati nell’Archivio Segreto del Vaticano (la cui prima fase si è svolta nel 1994). Ha avuto inoltre parte rilevante nell’organizzare un Convegno sulle culture transcaucasiche (1979) ed è stata l’organizzatrice principale del V Simposio Internazionale di Arte Armena. Dal 2007 organizza una Giornata di Studi Armeni e Caucasici in collaborazione con l’Associazione Padus-Araxes (fino al 2014) e l’ASIAC.
La cattedra dispone di un consistente fondo, inerente soprattutto a storia e letteratura armena, antica e moderna.
4) Università Cattolica del Sacro Cuore: Milano, largo Gemelli 1, cap. 20123, tel. 02.72341. Dal 1991 al 2003 sede centrale del Dottorato di ricerca in Armenistica, coordinato inizialmente dal prof. Giancarlo Bolognesi ed a partire dall’anno accademico 1999-2000 dal prof. Moreno Morani. Il titolo di dottore di ricerca in armenistica è stato conseguito a partire dal 1995 da Valentina Calzolari, Paola Pontani, Anna Sirinian, Aldo Ferrari, Stefano Torelli e Sara Mancini-Lombardi. L’Università Cattolica dispone presso la Biblioteca centrale e l’Istituto di Glottologia di un consistente fondo armeno, inerente soprattutto a glottologia, architettura, storia, testi classici in grabar e comprendente molte importanti riviste in lingua armena e occidentali. 5) Università Statale di Milano:
Corso di lingua e letteratura armena tenuto dal dott. Baykar Sivazliyan all’interno della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere.
6) Università di Pisa: Dipartimento di Glottologia, Via Santa Maria 6, 56100 Pisa.
Presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Pisa, era attivo, dall’anno accademico 2002-03, un corso di Filologia armena, destinato a studenti del corso di laurea triennale in Lettere. A partire dal 2003-04 un corso con analoga titolatura era stato anche attivato per gli studenti delle lauree magistrali in Orientalistica ed in Linguistica. Dopo la recente soppressione delle facoltà, questi due corsi (attualmente ciascuno di 36 ore) sono stati mantenuti, afferendo il primo al Dipartimento di “Filologia, letteratura e linguistica”, il secondo a quello di “Civiltà e forme del sapere”.
Inoltre, cicli di lezioni sull’armeno o su aspetti della lingua e cultura armene sono previsti per il programma di Orientalistica della Scuola di dottorato in Storia, Orientalistica e Storia delle Arti e per quello in Linguistica della Scuola di dottorato in Discipline Umanistiche. Tali corsi e cicli di lezioni sono abitualmente tenuti dal prof. Alessandro Orengo.
Infine, presso le edizioni ETS di Pisa è presente una collana specificamente destinata all'armenologia, i "Quaderni di studi armeni", diretti dal prof. Orengo.
7) Pontificio Istituto Orientale: Roma, piazza Santa Maria Maggiore 7, cap. 00185, tel.
06.4465593
a) Corso di istituzioni ecclesiastiche armene (storia, teologia, spiritualità della Chiesa armena) tenuto dal prof. Boghos Levon Zekiyan a partire dal 1988/89.
b) Corso di armeno classico tenuto da Anna Sirinian dal 1997/98 al 1998/99 e da Marco Bais dal
2000/2001, che tiene anche il Corso di Storia della Chiesa Armena dall'a.a. 2011/2012
Dispone di un assai vasto fondo armeno, inerente soprattutto a ecclesiologia, storia e letteratura antica e moderna.
8) Centro di Studi e Documentazione della Cultura Armena: Venezia, Loggia Temanza, Corte Zappa, Dorsoduro 30123, tel. 041.5224225
Fondato a Milano nel 1976, in seguito alle missioni effettuate in Armenia da studiosi milanesi a partire dal 1966. Trasferito a Venezia nel 1991. Vi ha sede la casa editrice Oemme, specializzata in pubblicazioni sull’arte e la cultura armene. Attualmente l’attività del Centro si esplica principalmente in tre direzioni: 1) Architettura e Restauro Monumenti; 2) Musica; 3) Iniziative Culturali, la cui responsabilità è affidata rispettivamente a Gaianè Casnati e Minas Lourian.
Il Centro contiene un buon fondo, prevalentemente di materiali architettonici e artistici.
9) Casa armena/Hay Tun: Milano, piazza Velasca 4, cap. 20122, tel. 02.861675
Dispone di numerosi testi miscellanei, riceve stampa periodica armena, organizza corsi di lingua per adulti e bambini, ospita incontri culturali e ricreativi per la comunità armena, ma aperti anche al pubblico.
10) Unione degli armeni d’Italia: Milano, Piazza Velasca 4. Fondata nel 1915 con il nome di Comitato degli Armeni d’Italia. Nel 1955, con decreto del Presidente della Repubblica Italiana, le viene riconosciuta personalità giuridica e contestualmente assume l’attuale denominazione. Tra i suoi obiettivi ci sono quelli di rappresentare la comunità degli armeni residenti in Italia davanti alle pubbliche autorità e di porsi come interfaccia nei confronti delle istituzioni armene sia internazionali che dell’Armenia. Ruoli effettivamente svolti più volte nel corso della sua lunga storia soprattutto in concomitanza con le due guerre mondiali e più recentemente in occasione sia del terremoto che ha colpito l’Armenia sia nelle fasi di avvio di una presenza diplomatica in Italia da parte della nascente Repubblica d’Armenia.
11) Pontificio Collegio Levonian: Roma, tel. 06.4884654 e 4824883, fax 06.4870830.
Fondato nel 1883 per l’istruzione di giovani armeni. Sede della biblioteca del card. Gregorio Agagianian.
12) Casa di Cristallo-Padova: via Altinate 114, cap. 35100, tel. 049.876.05.66, fax 049.87.54.159 Sotto la guida della prof. Antonia Arslan organizza numerose attività armenistiche. Nel 1997 si è fatta promotrice con le edizioni DBS del libro Generazioni nell’ ombra di un genocidio. 13) Associazione Bergamo-Spitak:
È un’associazione di volontariato, fondata per soccorrere le vittime del terremoto del 1988.
14) Associazione Italiarmenia: sede legale presso la Casa di Cristallo di Padova.
Fondatori Paola Mildonian, Mario Nordio, Boghos Levon Zekiyan, Suren Gregorio Zovighian. Costituita nel 1990. Si propone di diffondere l’interesse verso l'Armenia all'interno dell’opinione pubblica italiana. Tra i soci Luigi Malerba, fu Sergio Quinzio, Margherita Asso. Primo presidente: Mario Nordio. Fino al 2011 presidente è stato Vartan Giacomelli, mentre dal 2012 è stato eletto Aram Giacomelli. Partecipa all’organizzazione della Giornata dei Giusti, celebrata ogni anno nel mese di ottobre, dal Comune di Padova, oltre che alla Cerimonia di Commemorazione del Genocidio Armeno, celebrata il 24 aprile di ogni anno nella sede centrale del Municipio di Padova.
15) Associazione Padus-Araxes: Venezia, San Polo 2035, cap. 30125, tel. 041.5207737, sito web: www.padus-araxes.com; una pagina facebook in inglese: https://www.facebook.com/VeniceArmenianProgram e una pagina facebook in armeno: https://www.facebook.com/groups/1629270710718459/.
Costituitasi a Venezia nel 1987, ha avuto sede presso il Dipartimento di Studi dell’Asia e dell’Africa mediterranea, già Dipartimento di Studi Eurasiatici, dell’Università Ca’ Foscari ‒ Venezia fino al 2015. Dal 2016 ha sede legale presso il Centro di Studi e Documentazione della Cultura Armena nella Loggia del Temanza in Corte Zappa 1602, Dorsoduro, Venezia. Suoi fini sono la conservazione e la diffusione del patrimonio linguistico e culturale armeno. Tra le iniziative promosse ricordiamo i Corsi intensivi di Lingua e Cultura Armena che, a partire dal 1986 e fino al 2015, si sono tenuti con regolarità annuale presso l’Università Ca’ Foscari Venezia (Università degli Studi di Venezia fino agli ultimi anni Novanta) sotto l’egida del Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea (già Dipartimento di Studi Eurasiatici), in collaborazione con il Centro Linguistico Interfacoltà del medesimo Ateneo (fino al 2008) e l’E.S.U. di Venezia, e l’audiovisivo di Lingua armena occidentale Hayeren khosink realizzato nel 1991. Dal 2016 il Corso si tiene presso le strutture del Generale Studium Marcianum di Venezia, in collaborazione con il Patriarcato di Venezia. All’interno dell'Associazione è nata nel 1995 una sezione scientifica rivolta allo sviluppo dell'armenistica in Italia, che promuove seminari annuali di studi armenistici e si occupa della redazione della «Rassegna degli Armenisti Italiani», disponibile sia in cartaceo che on-line. 16) Associazione Zatik.
Esiste dal 1997. Diretta da Gabriella Falconi, si occupa prevalentemente del riconoscimento giuridico del genocidio armeno e dispone di un sito molto vivace: www.zatik.com
17) La voce Armena – Periodico della comunità armena d’Italia: rivista elettronica reperibile sulla pagina web www.voce-armena.com. Si compone di due parti: la prima contiene dossier informativi sul mondo armeno, la seconda gli aggiornamenti. Del comitato di redazione fanno parte Gregorio Zovighian, Haroutiun Keucheyan e Vahan Shahbaziantz.
18) Consiglio per la Comunità armena di Roma. Salita di San Nicola da Tolentino 17 – 00187 Roma.
Costituito nel 1999. Coordina le attività della comunità romana avendo come obiettivo il mantenere, diffondere e rafforzare lo spirito e l’identità armena tramite attività culturali, sociali e religiose. Dispone di un sito internet www.comunitaarmena.it divenuto negli anni punto di riferimento istituzionale degli armeni in Italia e non solo. Il Consiglio tramite il sito edita il quindicinale «Akhtamar on line», periodico che vuole promuovere l’armenità attraverso il confronto intellettuale e l’informazione.
19) Centro Studi «Hrand Nazariantz».
C/o Carlo Coppola, via Dante n. 395, 70123 Bari. Segreteria: Carlo Coppola, Presidente: Prof. Cosma Cafueru (https://www.facebook.com/hrand.nazariantz).
20) Associazione della Comunità Armena di Roma e del Lazio è un’associazione culturale fondata a Roma nel 2002 il cui attuale Presidente è la dott.ssa Yeghis Keheyan. L’associazione organizza conferenze, mostre, rassegne cinematografiche, concerti, giornate armene. Il sito dell’associazione contiene notizie sulla storia, sul cinema e sulla storia della diaspora, sull’attualità armena, degli eventi armeni a Roma e nel mondo ed organizza corsi di lingua armena.
Sito: www.assoarmeni-romalazio.blogspot.com
75 Sistema di trascrizione dell'Associazione Culturale Padus-Araxes
TABELLA DI TRASCRIZIONE PADUS-ARAXES
Ա
ա a
Բ բ b
Գ գ g
sempre dura = gamba
Դ դ d
Ե ե e in armeno moderno si pronuncia ye ad inizio parola
Զ զ z sempre dolce = rosa
Է է ē anticamente chiusa e lunga, oggi no e si distingue da ե ad inizio di parola
Ը ը ë e molto stretta, quasi la e muta francese o la e inglese di the
Թ թ th
Ժ ժ j j francese
Ի ի i
Լ լ l
Խ խ ch ch tedesca = Buch
Ծ ծ dz z italiana sorda = grazie
Կ կ k
Հ հ h
Ձ ձ tz z italiana sonora = zaino
Ղ ղ gh gutturale sonora, quasi r moscia francese
Ճ ճ dch/tch c italiana = cena
Մ մ m
Յ յ y
Ն ն n
Շ շ sh sc italiana = scena
Ո ո o in armeno moderno all’inizio = vo
Չ չ tch
Պ պ p
Ջ ջ dj g italiana dolce = gemma
Ռ ռ ŕ r italiana forte
Ս ս s
Վ վ v
Տ տ t
Ր ր r
Ց ց ts z italiana sorda aspirata
Ւ ւ w v tra vocali e in posizione finale
Փ փ ph
Ք ք kh
Օ Օ ō sostituisce l’antico dittongo -aw
Ֆ Ֆ f
ԵԱ Եա ea in armeno moderno = ia
ԻՒ Իւ iw yu, n posizione finale = iv
ՈՒ
Ու u/ow/ou u, prima di vocale = w
[«Rassegna degli Armenisti Italiani», vol. XVII (2016), p. 75]
INDICE
I PARTE: Articoli
MARIA ADELAIDE LALA COMNENO, Architettura armena, perché? Qualche considerazione
asistematica p. 5
LORIS DINA NOCETTI, Le citazioni bibliche nella Պատմութիւն Հայոց (Storia degli Armeni) di
Phawstos Buzand: una prima ricognizione p. 9
MARIA CRISTINA RATTIGHIERI, Presenza armena nella Città vecchia di Gerusalemme: testimonianze,
descrizioni e impressioni di viaggiatrici italiane fra 1850-1935 p. 27
KHACHIK HARUTYUNYAN , L'attività del copista Mikhayēl di Thochath (Tokat), 1606-1658 p. 39
CESARE SANTUS, La comunità armena di Costantinopoli all'inizio del XVIII secolo: scontri e tentativi
di accordi interconfessionali (XVIII sec.) p. 51
II PARTE: Rassegna delle attività armenistiche in ambito italiano
(autunno 2015-autunno 2016)
Pubblicazioni armenistiche di studiosi italiani o attivi in Italia p. 61
Interventi e attività scientifica dei singoli studiosi e soci dell'Associazione p. 64
III PARTE: Centri armenistici e associazioni collegate all’Armenia operanti in Italia p. 69
Sistema di trascrizione dell’Associazione Padus-Araxes p. 75
vartan ian
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