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06 11 22 - Fin nell’estate 1915 Benedetto XV denunciò gli «orrori» compiuti dal governo turco
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Fin nell’estate 1915 Benedetto XV denunciò gli «orrori» compiuti dal governo turco e l’«estrema rovina» dei popoli massacrati, documentando con notizie inedite il martirio dei cristiani ortodossi e cattolici
Armeni: Roma non tacque
L’intervento vaticano ebbe grande risonanza E fu una delle poche voci che all’epoca si alzarono a difendere una nazione minacciata di annientamento
Di Giovanni Sale
Durante l'estate del 1915 erano giunte in Vaticano notizie molto preoccupanti su stragi e deportazioni che si stavano perpetrando a danno dei cristiani
ottomani, cattolici compresi, nonostante le garanzie date, e insistentemente ripetute ma non attuate, dal governo dei Giovani Turchi al delegato apostolico
monsignor Angelo Dolci.
Benedetto XV era costantemente informato di ciò che stava accadendo sia dalla stampa dei Paesi dell'Intesa, sia dagli ambienti della diplomazia, che si rivolgevano al Pontefice perché facesse udire la sua voce di condanna per quanto stava accadendo. Ma la sua fonte più certa e diretta era il suo delegato
a Istanbul, monsignor Dolci, il quale nell'agosto di quell'anno scriveva al segretario di Stato, cardinal Pietro Gasparri: «Orrori raccapriccianti sono
stati commessi da questo Governo contro armeni nell'interno dell'impero.
In alcune regioni sono stati massacrati, in altri deportati in luoghi incogniti per morire di fame durante il tragitto (...)».
La linea che la Santa Sede in quel momento decise di adottare fu quella di condannare apertamente le stragi e le deportazioni di cristiani innocenti, senza fare distinzione tra cattolici, ortodossi o protestanti. Nel settembre di quell'anno il Papa, accogliendo l'invito di molti cattolici orientali, inviò una lettera al sultano Maometto V, con cui gli chiedeva di avere «pietà e intervenire a favore di un popolo, il quale per la religione medesima che professa, è spinto a mantenere fedele sudditanza verso la persona della stessa Maestà Vostra» e ancora di distinguere tra armeni «traditori o colpevoli di altri delitti», affinché «siano giudicati e puniti», e «innocenti», perché «non permetta Vostra Maestà che nel castigo siano travolti gl'innocenti e anche su i traviati scenda la Sovrana Sua clemenza».
La notizia dell'intervento pontificio provocò una grande risonanza sulla stampa europea ed ebbe come conseguenza un certo riguardo del governo nel trattare le questioni concernenti i cat tolici. Nel Concistoro del 6 dicembre 1915, Benedetto XV denunciò davanti al mondo civile «l'estrema rovina» che si era
abbattuta sul popolo armeno. La sua fu una delle poche voci che si alzò a quel tempo in difesa «del popolo armeno gravemente afflitto condotto alla soglia dell'annientamento». La voce del Papa, come avvenne anche successivamente, non fu ascoltata, e la rovina per l'Europa e il mondo fu grande.
Anche La Civiltà Cattolica (come pure L'Osservatore Romano), incoraggiata dal Papa, aveva trattato in diverse occasioni delle stragi perpetrate contro civili armeni da parte delle milizie turche o curde. (...) In una lunga cronaca del 1915 la rivista romana dei gesuiti intervenne per denunciare i massacri e le terribili deportazioni degli armeni indifesi, che si stavano operando da parte delle «Organizzazioni Speciali», sottoposte al comando del governo centrale:
«Ora dell'una e dell'altra - scriveva l'articolista - noi siamo in grado di confermare, non su notizie incerte o esagerate di giornali, ma su dati
precisi». Ancora una volta fu tirata in ballo la responsabilità dei governi occidentali, alcuni alleati della Turchia, incapaci di far cessare il massacro:
«Solo a strage compiuta - denunciava l'autore - e costrettovi dall'Europa (il governo) interviene con qualche tardiva repressione o riparazione che suona quasi un'ironia. Ma esso è pronto di lasciare incominciare da capo alla prima occasione. Ora l'occasione si porgeva di nuovo, all'entrata della Turchia in guerra con la Russia nel novembre 1914».
L'articolo, inoltre, dava una descrizione dettagliata della situazione della Chiesa armena sia ortodossa sia cattolica al tempo della deportazione: da esso sappiamo che la Chiesa, e in particolare il suo clero, soffrì l'orrore della persecuzione e sperimentò il coraggio del martirio. A conferma di questo ci sembra opportuno riportare qualche episodio descritto nell'articolo, il cui autore ha notizia iretta: «(...) Le stragi poi contin uarono; s'inasprirono anzi sempre più con l'inasprirsi della guerra. Così sui primi mesi del 1915, nella provincia di Van, la soldatesca e il popolo maomettano, sobillato dagli ufficiali stessi del governo, si voltarono a trucidare la popolazione armena in tutti i villaggi; a violare o rapire donne e fanciulle, a trascinare via fanciulli e giovinetti per trarli all'apostasia e allevarli nel maomettanismo».
Riguardo ai cattolici, l'autore afferma: «In Armenia molti cattolici legati nsieme a fascio vennero da una collina situata rimpetto alla città precipitati nel fiume sottostante. Fra essi fu pure un sacerdote cattolico, D. Emmanuele Giukunian, per maggiore ignominia, legato ad un cane e così gettato nelle acque
a morirvi annegato». E ancora: «I vescovi cattolici vennero tutti deportati, chi qua chi là (...). Anche le religiose furono strappate dalle loro case, alcune morte o ferite, tutte deportate, come quelle di Angora a Konia, quelle di Sumsun a Aleppo, ove giunsero dopo tre mesi e mezzo di viaggio, così sfinite che due ne morirono, la superiora e un'altra religiosa alle quali erano state fracassate le mascelle. Una era impazzita prima di partire e morì indi a poco; un'altra si era gettata in una cisterna per l'orrore di cadere nelle mani impure dei turchi. Anche le religiose di Sivas, Tocat, Mersifun, Trebisonda perirono tutte di morte violenta o di patimenti sofferti».
Dopo il primo anno di guerra, più di 40 diocesi degli armeni gregoriani (ortodossi) furono distrutte, e i loro vescovi e sacerdoti uccisi. La stessa
sorte toccò alle cinque diocesi di armeni cattolici: anche qui vescovi e clero furono trucidati insieme al loro popolo nella maniera più spaventosa. «Il
vescovo di Diarbekir fu bruciato vivo sulla piazza, mentre si faceva orribile
carneficina degli armeni, deportati da molte parti, anche da Costantinopoli. Il
vescovo di Malatia fu strangolato, fra la strage del suo clero e il ratto delle
religiose. Quello di Karput (...) in via per Aleppo e non ancora giunto a Urba, si vide sopraggiunto da una masnada di Kurdi, mandatigli sopra e da essi fucilato col clero, le suore e il popolo che accompagnava: prima di incontrare la morte l'animoso Pastore esortò tutti alla costanza e a tutti diede l'assoluzione sacramentale. Anche di più fece l'arcivescovo di Mardin:
imprigionato col clero e col popolo, non solo confortò ognuno al gran passo, con l'esortazione paterna e l'assoluzione, ma consacrato nel carcere stesso il
pane eucaristico, comunicò tutti per viatico prima della morte. Il vescovo di Musce invece finì involto nella strage generale del popolo e del clero della provincia di Bitlis e di Musce». Tutti furono vittime della furia omicida dei Giovani Turchi e delle loro «Organizzazioni Speciali» omicide, sia la comunità armena gregoriana sia quella cattolica: il problema di fondo, lo ripetiamo ancora, non era religioso, ma soprattutto politico e razziale.
Armeni: Roma non tacque
V.V
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