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06 12 22 - EUROPA E ISLAM
da il corriere della sera del 21.12.06
di CLAUDIO MAGRIS- Turchia una Parte di Noi

Istanbul. Nell’angolo di nord-est della Cisterna Basilica, con la frescura della sua misteriosa acqua sotterranea e la simmetria - inquietante come ogni
simmetria - delle sue dodici file nell’ombra, due di quest’ultime poggiano su grandi teste di Medusa, rovesciate di fianco o capovolte, con la loro chioma di
serpenti aggrovigliati e i loro occhi che nel mito impietriscono chi li guarda, perché dicono l’insostenibile e buio orrore di esistere. Quando Giustiniano, nel VI secolo, fece costruire la basilica, i marmi delle sculture pagane vennero evidentemente usati come grezzo materiale di costruzione, forse anche
con il gusto di umiliare le antiche divinità. 1 Ma è forse giusto che la colonna cristiana, nel suo slancio ascensionale, si appoggi sull’infera Gorgone, sulla regina del caos inconscio e tenebroso; contenuta dalla colonna che la domina e s’innalza, l’oscurità del profondo non può dilagare e sommergere tutto come un fiume in piena. Rimane costretta nei suoi argini, ma
continua a reggere lo spirito proteso in alto e, frenata e tenuta al suo posto, a nutrirlo con le sue energie vitali, a infondergli quella carica pulsionale
senza la quale esso sarebbe astratto ed esangue, il deserto di un’autodistruttiva e falsa purezza, la terra arida e non più irrorata dall’acqua della vita di cui parla l’Apocalisse. Non a caso uno dei più grandi
inni cristiani, il Veni creator spiritus invoca che i sensi siano illuminati, non repressi.
Quella struttura verticale è anche la stratificazione delle civiltà che si sono succedute nel tempo, senza che tale successione implichi necessariamente un
progresso o un ordine gerarchico, bensì forse solo un avvicendarsi di mondi e di modi di vedere il mondo, che si sovrappongono come strati di terra o di foglie cadute, senza mai definitivamente sparire né venir superate.
Quella colonna della Cisterna poggiata sulla testa di Medusa è un simbolo della Turchia e in particolare di Istanbul, la Città che è per eccellenza una
ricchissima stratificazione di civiltà, tutte presenti; le cupole islamiche coprono un universo che non è solo turco o musulmano, ma anche greco, latino, bizantino, genovese, veneziano, tradizionalista, modernista; un crogiolo e una mescolanza di culture, lingue, religioni. Il fondamentalismo è un nemico di
questa Turchia e di questa Istanbul, di questo frastagliato arcipelago di diversità; di quella pluralità che, fin da tempi remoti, è stata la culla
mediterranea, medio-orientale dell’Europa. Istanbul è insieme vicina e lontana, come mi scrive nella dedica a un suo libro Enis Batur, scrittore, poeta e saggista di grande intensità, che fa parte della nostra cultura non certo meno dei suoi colleghi francesi o tedeschi. La basilica di Santa Sofia divenuta moschea con Mehmet il Conquistatore e museo con Atatürk è una compresenza di
epoche e religioni, che l’ottusità del fondamentalismo, in questo caso islamico, non riesce a cancellare.
2Oltre il Bosforo c’è l’Asia, ma passando dal Mar di Marmara alle Bocche del Mar Nero ci si sente tranquillamente in Europa; i miti di questi mari e di
queste coste sono miti fondanti per l’Occidente (per esempio gli Argonauti) e per quegli scambi (ora pacifici, più spesso sanguinosi) fra Oriente e Occidente che sono una linfa della civiltà europea. Le ormai rare yali, residenze estive in legno sulle rive costruite da aristocratici ottomani, o i palazzi degli
architetti armeni, appaiono nella luce marina della città, un paesaggio più familiare che esotico. Per le strade del centro non si vedono donne velate e
poche col fazzoletto in testa, simile a quello usato dalle donne delle nostre parti fino a non molti anni fa; in altri quartieri la situazione è diversa. Il
governo islamico moderato tende ad apparire più moderato che islamico; mi chiedo se il controllo del ministero per gli Affari religiosi sulle prediche
nelle moschee, che gli devono essere previamente sottoposte - una censura preventiva inconciliabile con uno Stato democratico - indichi l’importanza
oggettiva della religione - in Italia nessuno si interessa a quello che un parroco dice in chiesa la domenica, conta di più un qualsiasi pettegolezzo - o
riveli la preoccupazione di controllare e frenare un’eventuale deriva fondamentalista. Ciò contrasterebbe peraltro con quella islamizzazione strisciante che, come ha scritto Vittorio Da Rold su «Il Sole-24 ore», il governo starebbe progressivamente perseguendo, con viva preoccupazione delle Forze armate, poco disposte a subirla inerti.
Arrivati in Europa come avanguardia delle steppe asiatiche, i turchi hanno finito a poco a poco per diventare un baluardo dell’Europa contro successive
ondate dall’Asia, in un sincretismo culturale di cui l’impero ottomano, con la sua struttura amministrativa erede della Seconda Roma e la sua malinconica
poesia orientale della corrosione di ogni pur bramata ed esorbitante grandezza, è la grande espressione statale. Oggi la Turchia è un centrale punto di
riferimento per numerosi Paesi turcofoni e musulmani e in questo senso esercita un ruolo importante per l’Europa, che dovrebbe riflettere prima di respingerla
verso posizioni di islamismo radicale, di cui molti temono l’avanzata nelle imminenti elezioni. Non è un generico ecumenismo né un’ostentazione di buoni
sentimenti, bensì una precisa consapevolezza storico-epocale che ha spinto ad esempio recentemente la Chiesa ad auspicare l’appartenenza della Turchia
all’Unione Europea. Fra l’altro, non è stato felice il dispetto fatto da quest’ultima a Benedetto XVI con la decisione di rinvio annunciata proprio in occasione del suo viaggio in Turchia, che si prospettava problematico e che invece ha smentito le aspettative pessimiste, forse anche perché proprio tale dichiarazione ha accresciuto, per reazione, la cordialità dell’ accoglienza riservata al Pontefice.
3La terminologia politica cambia da Paese in Paese. Da noi «laicità» è sinonimo di democrazia in generale; in Turchia indica invece i militari, benemeriti
eredi della modernizzazione di Atatürk e giustamente attenti al pericolo di uno Stato clericale musulmano, ma nazionalisti e più intolleranti degli imam verso
le minoranze non turche, ad esempio i curdi, anche se la situazione di questi ultimi va migliorando e in un Paese così variegato tutto si mescola e si meticcia, sebbene i fautori della purezza etnica (idolo torvo e immaginario, mai realmente esistito in alcuna parte del mondo) non vogliono ammetterlo.
Neve , il romanzo di Orhan Pamuk, illustra bene - situandolo in una cittadina sepolta, Kars, spiritualmente lontanissima, come tante altre regioni turche, da Istanbul - questo groviglio olitico-religioso, in cui i terroristi islamici
uccidono gli insegnanti che respingono le ragazze col velo, ma anche le ragazze desiderose di portare il velo sono vittime di un’ideologia autoritaria, e quando i soldati sparano a casaccio su terroristi innocenti la folla grida:
«Abbasso i laici atei, abbasso i fascisti infedeli!». Il protagonista del romanzo, il poeta Ka, aborre la repressione ma è ben contento che il Paese non
cada in mano agli integralisti ed è ben esperto delle scissioni che dividono all’interno la cultura turca.
Queste divisioni, mi dice Adnan Ozer - poeta e saggista, fervido fautore del dialogo e dell’incontro tra culture - esistono anche fra gli scrittori:
divisioni fra diverse generazioni di intellettuali, che hanno vissuto o meno i periodi di modernizzazione, caos, ordine militare, rinascita islamica;
divisioni fra posizioni ideologiche (liberali, integraliste, marxiste) che si accavallano e scavalcano nel tempo. La Turchia è un Paese culturalmente
eterogeneo; i turchi - ha scritto la giornalista Nilguen Cerrahoglu - sono costituiti da ventinove gruppi etnici diversi, spesso negati, specialmente in
passato, dal nazionalismo; essere turco è dunque «una sfida intellettuale ed esistenziale che forza a definirsi e ridefinirsi continuamente».
4Ogni Paese ha i suoi scheletri nell’armadio. E l’unico modo di liberarsene è tirarli fuori da quell’armadio, specie quando ciò può e dunque deve avvenire ad
opera di generazioni posteriori, che non hanno colpa di quegli scheletri, così come gli spagnoli di oggi non s ono colpevoli di ciò che alcuni loro avi hanno
fatto agli indios, i tedeschi odierni non sono responsabili dell’abominio di Auschwitz e Francia e Inghilterra sono grandi Stati liberali e democratici
nonostante l’infame guerra dell’oppio scatenata a suo tempo dai loro governi.
L’enorme massacro degli armeni non pesa sulla Turchia di oggi, che non ne è responsabile, solo se essa rilutta a prenderne atto o cerca di rimuoverlo. Non
è con le dispute filologiche sul termine «genocidio» o con la contestazione di cifre - doveroso compito degli storici, che non può alterare la sostanza dei
massacri compiuti in varie parti del mondo - che si risolve questa realtà che, se lasciata incancrenire rimossa e irrisolta, continua ad avvelenare. Non si
tratta di celebrare gli armeni, alcuni dei quali, come è avvenuto in ogni comunità umana, si sono resi anch’essi colpevoli di violenze sanguinose e di
altri peccati, ma di guardare in faccia quella Medusa, che nessuno può rinfacciare alla Turchia di oggi, per poter finalmente mettere quella Medusa a testa in giù.

Un armeno che ho conosciuto, rifugiatosi negli anni Venti in Italia per scampare alla persecuzione della sua gente, scelse di vivere a Trieste perché là c’era un console di Turchia con cui poteva parlare turco,
lingua - e dunque cultura - che sentiva evidentemente anche sua.
5Di origine curda, impegnato molti anni fa nelle lotte sociali dei contadini oppressi dai latifondisti, combattente per la democrazia e le libertà civili,
in tempi bui incarcerato e torturato per «propaganda comunista», l’ultraottantenne Yashar Kemal è un forte scrittore epico che ha saputo collegare nei suoi romanzi impegno democratico, sapienza letteraria esperta delle tecniche di avanguardia e respiro largo della tradizione, trasmessagli dai girovaghi cantori orali della sua infanzia nell’arcaico Tauro. Quei suoi
personaggi picareschi e ribelli che attraversano montagne e pianori come attraversano la vita arricchiscono la civiltà europea di una linfa per essa
nuova e che tuttavia è pure una sua sotterranea sorgente antica. L’Europa è più grande di quanto essa stessa talora tenda a credere.

V.V

 
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