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050416 - Aldo Rizzo: Anche i Turchi devono fare i conti con le proprie responsabilità
A 90 ANNI DAL GENOCIDIO, ANCHE LA TURCHIA DEVE FARE I CONTI CON LE PROPRIE RESPONSABILITÀ
15 aprile 2005 / di Aldo Rizzo

Armeni, il primo buco nero del ‘900

Traggo questi dati da un libro straordinario di Henri Morgenthau, che fu ambasciatore degli Stati Uniti a Costantinopoli (l’odierna Istanbul) dal 1913 al 1916 e che, come rappresentante di un paese ancora neutrale nella Grande Guerra, poté seguire da vicino quei tragici eventi, grazie anche ai rapporti dei molti uffici consolari e alle testimonianze dei missionari cristiani. Il libro, apparso per la prima volta nel 1918, fu ripubblicato una ventina di anni fa in Francia, utilizzando anche la diffusione di documenti dell'epoca da parte del Dipartimento di Stato (Mémoires, Flammarion). Ma, intanto, perché un così grande odio turco verso gli armeni?

Novant'anni fa, essi, in Turchia, erano circa due milioni e rappresentavano un'isola cristiana nel mare islamico ottomano. I turchi li sentivano «diversi» anche per una loro maggiore capacità di lavoro e di profitto, rispetto al proprio standard, e la loro identità, frutto di una storia antica, ben più di quella turca e islamica, era avvertita come una minaccia alla coesione dell'impero. Verso la fine dell'Ottocento, il sultano Abdul Hamid ne aveva sterminati almeno 200 mila, provocando l'indignazione del premier liberale inglese William Gladstone, che lo definì pubblicamente «un grande assassino». L'odio era diventato sempre più grande col progressivo sfaldamento dell'impero, dalla perdita della Grecia a quella della Bosnia, della Bulgaria, dell'Egitto, della Libia, di Creta, e ora i fermenti nazionalistici della comunità armena si manifestavano in Anatolia, all'interno stesso della casamadre. Nel 1913, il potere politico era passato con un atto di forza ai Giovani Turchi (Enver, Talaat, Djemal), presunti modernizzatori, in realtà capi non meno dispotici e cinici. E fu con loro che si tentò la «soluzione finale» della questione armena.

Il libro di Morgenthau, oltre che la documentazione di quella tragedia, è un grande racconto della Costantinopoli degli ultimi anni dell'impero, tra gli estremi sussulti di una potenza ormai dissanguata e gli intrighi della nuova classe dirigente, dimentica delle promesse e avida di privilegi. Su questo sfondo, gli intrecci e gli intrighi della diplomazia mondiale, alla vigilia e nella prima fase della Grande Guerra, perché Costantinopoli significava il Bosforo e i Dardanelli, e sul controllo degli Stretti, in funzione antirussa, gli Imperi centrali giocavano una partita cruciale. Soprattutto la Germania, che era arrivata a stabilire col nuovo governo turco quasi un rapporto di vassallaggio.

E infatti Morgenthau, che era di origine tedesco-ebraica, vide subito nell'ambasciatore di Berlino, il barone von Wangenheim, il genio malefico della situazione, fino ad attribuirgli la paternità, come dire, strategica di quello che poi sarebbe stato il massacro degli armeni. Gli sembrava che fosse poco «turca» (benché i turchi non scherzassero), ma piuttosto «tedesca», una

pianificazione tanto sistematica dell'annientamento di una minoranza (e anche su questa osservazione si fondò più tardi la teoria di un legame, almeno metodologico, con l'Olocausto e quasi di un'anticipazione del delirio hitleriano). L'accusa agli armeni di Turchia fu di connivenza con la Russia, schierata con gli Alleati d'Occidente e nella quale viveva la comunità armena orientale, dopo la fine dell'occupazione persiana. Accusa non infondata, ma riguardo a casi circoscritti, certo non tali da giustificare il piano di sterminio. Che previde la deportazione degli armeni, da qualunque città in cui abitassero, e qualunque posizione occupassero, verso il deserto siriano, con l'idea, per quanto i fatti dimostrarono, di farli morire per strada. E dove non bastavano le fatiche e gli stenti, provvedevano i fucili e i pugnali dei soldati turchi. Il bilancio finale, considerato attendibile dagli storici imparziali, fu, come dicevo, di un milione e mezzo di morti.

Oggi gli armeni turchi sono circa sessantamila, dei due milioni che erano. La comunità «russa» diventò, dopo la rivoluzione sovietica e dopo vari passaggi, una repubblica dell'Urss, infine acquistando l'indipendenza nel 1991, dopo il crollo, anche, dell'impero comunista. Vi vivono circa 3 milioni e mezzo di armeni, quasi altrettanti appartengono alla diaspora, in varie parti d'Europa, soprattutto in Francia, e del mondo, e sono politicamente i più duri. Nel 1923, con Mustafa Kemal, detto Atatürk (padre della patria), sulle rovine dell'impero islamico, la Turchia diventò una repubblica laica e occidentalizzante, con Ankara capitale. Ma non per questo volle mai ammettere la responsabilità di un genocidio, inserendo piuttosto i fatti del 1915-17, e anche oltre, fra le durezze inevitabili di una guerra mondiale e attribuendo le tante morti di armeni alla fame e alle malattie. La suscettibilità di Ankara fu grande, ogni qual volta un paese straniero (la Francia nel 2001 e più blandamente l'Italia) denunciò con risoluzioni parlamentari il «genocidio», chiedendo che non passasse in archivio senza un riconoscimento della comunità internazionale. D'altronde, la Turchia laica e formalmente democratica, pur con tante anomalie, era diventata un membro molto importante della Nato, e la Realpolitik aveva il suo peso.

Ma ora - ecco la svolta - c'è una situazione geopolitica del tutto nuova. Al di là della Nato, che è un'alleanza militare, peraltro appannatasi nel dopo-11 settembre, c'è una realtà più contigua e complessa, l'Unione Europea, anch'essa in difficoltà, ma che conserva un formidabile «appeal» politico-economico per il futuro, quale che sia. E la Turchia vuole esserne parte, pagando il prezzo (se così si può dire, perché in realtà si tratta di un ricavo forte e stabile) di un adeguamento delle sue leggi allo standard della democrazia comunitaria.

Il prezzo include una rivisitazione, finora ostinatamente elusa,
delle sue responsabilità storiche di novant'anni fa. Responsabilità, se si vuole, non proprio sue, ma di un regime imperiale defunto, che tuttavia fa parte, e che parte, della sua memoria storica. Il governo islamista moderato di Erdogan, col concorso dell'opposizione, ha proposto una commissione mista (turco-armena) di storici, sperabilmente ad archivi aperti. L'Armenia indipendente, e la sua residua «enclave» turca, ne diffidano, temono lungaggini e ambiguità, chiedono, non a torto, altre iniziative, come l'apertura dei confini e dei commerci. Quanto all'Unione Europea, essa (a maggioranza) vuole con sé la moderna Turchia, ma a certe condizioni, ivi compreso il superamento di quel primo grande buco nero del Novecento.

V.V

 
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