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15 02 2007 - Cinema, Berlino si divide sui turchi dei fratelli Taviani
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Corriere canadese
La stampa tedesca: «Un capolavoro». «No, è controverso»
BERLINO - Per Paolo e Vittorio Taviani la ragione profonda di un film come La masseria delle allodole (fuori concorso a Berlino), ha qualcosa di indirettamente autobiografico. Basta pensare del resto alle immagini di La notte di San Lorenzo per capire che tante volte prima di questa i loro film sono andati volutamente a scavare negli angoli bui della storia rimossa con il desiderio di prendere posizione e di farsi carico di interrogativi collettivi.
«Tre anni fa - dicono, come sempre, all'unisono - abbiamo scoperto quasi per caso la tragedia armena, qualcosa che come tutti crediamo vagamente di sapere
senza avere una memoria reale e diretta di ciò che accadde. È vero che ciascuno deve parlare di ciò che conosce più direttamente, ma oggi il nostro Paese è
l'Europa e quindi non possiamo più far finta che ciò che è accaduto vicino a noi non ci riguardi. L'occasione che ci ha fatto decidere è il bel libro di
Antonia Arslan. Antonia è italiana di origine armena e ha raccontato l'olocausto della sua famiglia. Olocausto, ovvero genocidio, ovvero sterminio
di massa. Noi non siamo degli storici, facciamo il cinema, ovvero trattiamo un impasto di emozioni, vicende umane, caratteri ch e si muovono sullo sfondo della società e della storia. Non ci interessava quindi il quadro storico, ma le vicende di alcune persone, i cui destini particolari sono proiettati in un
grande evento collettivo, un orrore indimenticabile, che affonda le sue radici nel passato e risuona dolorosamente nel presente».
All'incontro con i giornalisti i due registi toscani si presentano in compagnia di molti dei loro attori: in prima fila la bella e combattiva Arsinee Kanyan e il pensoso Tcheky Kario, che hanno entrambi sangue armeno nelle vene. Arsinee prende volentieri la parola «per fatto personale, ricordando che già nei rapporti delle Nazioni Unite le persecuzioni contro gli armeni da parte della Grande Turchia nel 1915 sono qualificate come "genocidio". Non si tratta di avere un punto di vista - ha detto - ma di voler leggere e sapere guardando ai fatti».
«Quasi ogni nazione - puntualizzano i fratelli Taviani - deve fare i conti con l'orrore e il sangue delle pagine buie della sua storia. Accadde in Italia, in
Germania, in Francia, ciò vale anche per la Turchia. Per il nostro passato italiano, noi crediamo di avere le carte in regola. Basta guardare all'ultimo
film di Mario Monicelli per vedere che sappiamo riconoscere le parti meno nobili della nostra storia. Ciascuno poi le tratta con il suo stile e il suo
approccio, proprio perché non facciamo gli storici ma facciamo del cinema».
Non c'è acredine da parte dei due registi neppure quando si ricorda loro che nel consesso di Eurimages (grazie ai cui fondi il film si è fatto) il solo voto
contrario è stato quello del rappresentante della Turchia. «Bisognerà dire allora che gli altri 30 votanti più un astenuto - dicono - hanno avuto un'altra
impressione del nostro progetto. Se si parla di attualità anche noi siamo convinti della necessità che la Repubblica turca entri nell'Unione europea. E
per quello che riguarda la verità sulla tragedia armena è giusto ricordare che il contesto era quello dell'impero ottomano in disfacimento e del nazionalismo cieco come quello dei Giovani Turchi. Ma questo non esime dal pronunciarsi pubblicamente su ciò che è accaduto».
I fratelli Taviani ricordano poi che il Festival di Istanbul ha dedicato proprio al loro cinema una retrospettiva e che il rapporto di amicizia con quel
pubblico non è minimamente velato dall'avere voluto affrontare oggi questa storia. «Anzi, come diciamo sempre, speriamo che un giorno il film possa essere
mostrato e discusso nelle scuole».
Ma intanto Berlino - dopo i timori di disordini da parte della vasta comunità turca in Germania, fortunatamente infondati, per la prima proiezione della
pellicola - si divide sul valore dell'ultima opera dei Taviani: per la Frankfurter Allgemeine Zeitung la pellicola è destinata a «fare epoca», mentre
per la Berliner Zeitung è «il film più controverso» della 57ª Berlinale. E c'è
chi grida al capolavoro.
V.V
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