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20 03 2007 - Taviani , registi: "Con questa storia volevamo anche ricordare i tanti massacri
da repubblica

Presentato "La masseria delle allodole": attraverso l'epopea di una famiglia i grandi autori squarciano il velo su un eccidio dimenticato del Novecento Le immagini-shock nel genocidio armeno nell'ultimo film dei fratelli Taviani Parlano i registi: "Con questa storia volevamo anche ricordare i tanti massacri con cui ci siamo abituati a convivere.
Dal Ruanda al Kosovo"

ROMA - Il genocidio, sul grande schermo, è una madre deportata costretta a soffocare suo figlio neonato, colpevole solo di essere maschio. Genocidio è un bambino che si nasconde sotto il tavolo, ma viene visto da un soldato e massacrato a colpi di spada. Genocidio è una moglie che vede decapitare suo marito, con gli aguzzini che le buttano in grembo la testa. Genocidio, al cinema, smette di essere una definizione quasi astratta - quasi una macabra contabilità, su migliaia e migliaia di vittime - e si fa carne, sangue, orrore puro. Un abisso di sofferenza.

Accade questo, in uno dei film italiani più attesi, e più drammatici:
La masseria delle allodole, regia di Paolo e Vittorio Taviani, dall'omonimo romanzo di Antonia Arslan (edito da Rizzoli). Pellicola di cui si è parlato tanto, ancora prima che venisse completata, per il tema che tratta: il massacro scientifico e totale delle minoranza armena, nella Turchia del 1915. Un vero e proprio genocidio - anche il nostro Parlamento, in una sua risoluzione, ha definito così questa sistematica pulizia etnica - di cui, nel mondo occidentale, si è sempre parlato pochissimo. E con cui la Turchia - anche
quella di oggi, decisa a entrare nella Ue - non ha mai voluto fare i conti.

Ma cosa ha spinto due maestri del nostro cinema ad affrontare un argomento così spinoso? "Abbiamo letto il libro della Arslan - spiega Paola Taviani alla
presentazione del film, in arrivo nelle nostre sale - e ci siamo resi conto di quanto noi, come tutta la cultura europea, fossimo assolutamente ignoranti su
questa tragedia, che ha aperto il Novecento. Affrontarla, per noi, è stato anche un modo per parlare di tragedie simili e attuali, dal Kosovo al Ruanda, con cui ci siamo abituati a convivere. Mentre l'orrore è tutto lì: quello degli uomini che uccidono altri uomini, che ammazzano i bambini. Il massacro anche di persone che fino a poco prima ti erano amiche". E che all'improvviso, per il loro appartenere a un'altra etnia, diventano il Nemico.

Tutto questo, nel film, è raccontato attraverso le vicende di una ricca famiglia armena, gli Avakian, residenti in una cittadina dell'Anatolia. Quando
il patriarca muore, a strigersi attorrno ai suoi figli - il capofamiglia Aran (Tcheky Karyo) con la moglie Armineh (Arsinee Khanjian) e i loro bambini, la sua bella sorella Ninuk (l'attrice spagnola Paz Vega) - è tutto il villaggio.
Compresi i turchi: il colonnello Arkan (André Dussollier), il giovane ufficiale Egon (Alessandro Preziosi), innamorato segreto di Nunik.

Tutto cambia, però, quando vanno al paese il partito ultranazionalista dei Giovani Turchi, che pianificano scientificamente la soluzione totale al problema armeno: tutti gli uomini uccisi subito (compresi i bambini, "altrimenti poi si vendicheranno"; le donne deportate tutte insieme in un unico luogo, per poi essere comunque eliminate.

Ed è quello che capita alla famiglia Avakian: gli uomini muoiono tutti, bambini compresi (tranne uno, che viene travestito da bimba per salvarlo). E le due donne, la combattiva Nunik e la rintronata Armineh, vengono deportate: come le altre compagne di sventura, nel lungo viaggio devono soffrire la fame, la sete, gli stupri, le torture. Perfino le crocifissioni, per chi tenta di scappare.

Ma c'è chi cerca disperatamente di aiutarle: il mendicante turco Nazim (Mohammad Bakri), traditore "pentito", e la tata greca Ismene (Angela Molina).
I quali - grazie anche ai soldi inviati dall'Italia da Assadour (Mariano Rigillo), fratello emigrato di Aram e Nonik - riusciranno a salvare almeno qualcuno...

Il tutto in un'opera che - come l'argomento richiedeva - contiene molte scene visivamente forti. Capaci di colpire, col grado di orrore e sofferenza che mostrano, anche lo spettatore più duro. La più intensa è senza dubbio quella in cui una delle deportate armene, che ha appena partorito un figlio maschio, viene costretta a uccidere il suo bimbo (altrimento lo faranno i soldati turchi. Allora lei chiede aiuto all'amica Armineh: insieme lo mettono in una borsa a tracolla, sulla schiena della mamma. E lo soffocano stringendolo forte tra le loro due schiene.

Ma al di là di questi momenti così forti, e della ricostruzione storica del genocidio, i Taviani tengono a sottolineare che La masseria delle allodole "non è un trattato di storia, o di sociologia, ma un raccontare delle storie. Mostra la nostra voglia di seguire il destino dei personaggi". E soprattutto, aggiungono i registi, questo non è - né vuole essere - un film "contro la Turchia: tanto è vero che il ruolo salvifico è quello del mendicante turco".
Anzi, loro si dicono favorevoli all'ingresso di Ankara nella Ue: "A patto però - concludono - che il Paese riconosca l'eccidio armeno".

(19 marzo 2007) Torna su

V.V

 
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