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13 04 2007 - La notte turca di Philippe Videlier Donzelli
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DA LE MONDE DIPLOMATIQUE - ARMENIA
Il grande massacro
Editore -IDOLINA LANDOLFI
Comincia con un andamento da fiaba, il libro di Philippe Videlier (1), storico presso l'università di Parigi, e già autore per Gallimard di una serie di «nouvelles de l'Histoire». È il termine che meglio si addice al genere letterario da lui proposto: solidamente basato su documenti e testimonianze, essi vengono per lo più assorbiti nel tessuto narrativo, che scorre così, appunto, «come un romanzo»: «Nei giorni di un tempo remoto, vivevano in tre luoghi dell'impero d'Oriente su cui regnava il Sultano tre fanciulli: uno si chiamava Soghomon, l'altro Archavir e il terzo Stepan. Non erano parenti. [...] Ma nei luoghi in cui vivevano, per essi e i loro prossimi si annunciavano grandi discordie e inquietudini profonde». Libro terribile sul genocidio del popolo armeno, perpetrato a più riprese tra la fine del XIX secolo (con gli eccidi ad opera di Abdul Hamid, il «Sultano rosso», il «Grande Massacratore») e il periodo intorno al primo conflitto mondiale; e che comincia presentandoci coloro che - allora fanciulli - giustizieranno, anni dopo, alcuni tra i responsabili della strage. «Operazione Nemesis» si chiamò la rete costituita dagli armeni della diaspora (sterminati in Anatolia, pochi gruppi sparuti riuscirono a salvarsi in Europa e oltreoceano), con il fine di abbattere i responsabili del massacro, che nel frattempo, a loro volta fuggiti alla fine della guerra e condannati a morte in absentia, si godevano in vari luoghi le ricchezze rubate. I loro nomi resteranno incisi per sempre nelle pagine più efferate della Storia: sono i tre nefasti capi dei Giovani turchi: Taalat Pascià, ex ministro dell'Interno, Enver Pascià, ex ministro della Guerra, Djemal Pascià, ex ministro della Marina; e ancora il dottor Nazim, ex ministro della Pubblica Istruzione, ideologo del panturchismo; e Behaeddin Chakir, capo dell'Organizzazione Speciale, la famigerata Teskilate maksuse, quel corpo pseudomilitare composto dei peggiori assassini e stupratori liberati allo scopo dalle patrie galere, che agiva al di sopra della legge. Macchina da guerra perfetta, la definisce Videlier, e che «funzionava a pieno regime»: soprattutto contro quel nemico così temibile, i vecchi e i bambini dei villaggi tra le montagne, le donne di Trebisonda, di Erzincan, di Erzurum, di Urfa. Gli uomini venivano uccisi subito, contando sulla sorpresa: ma non uccisi, cancellati pezzo per pezzo, gli arti mozzati, i ventri squarciati, o, vivi, legati insieme e gettati nell'Eufrate. «Ma perché farli soffrire?
Perché non finirli subito?» chiesero due infermiere danesi a qualcuno degli zaptié, i gendarmi. «Devono sapere cosa vuol dire soffrire» fu la risposta. «E poi come faremmo con i cadaveri che puzzano?».
I governi europei e americano conoscevano queste atrocità, attraverso i resoconti dei loro ambasciatori in Turchia; ne restavano inorriditi, ma poi c'erano di mezzo interessi politici, si sa, e la Turchia era una potenza alleata. E intanto Taalat Pascià, da buon ragioniere del delitto, teneva sul suo calepino i conti dei deportati (in marce forzate, senza acqua né viveri, attraverso i deserti dell'Anatolia, in balia di predoni che consideravano ormai gli armeni libero bottino: significava dunque liquidati): Angora: 47.224; Erzurum: 128.657; Sivas: 141.592; totale: 924.158 (ma in tutto si calcola che le vittime siano state più di un milione e mezzo).
Soghomon Tehlirian, arrestato immediatamente dopo l'eliminazione di Taalat Pascià (15 marzo 1921) e processato a Berlino, viene assolto, perché aver soppresso l'assassino di un popolo non è considerato reato. In compenso alle spoglie dei tre sterminatori il governo turco ha reso ogni onore, seppellendoli in pompa magna ed erigendo loro sontuosi mausolei. «La Storia è poco prodiga di morale», conclude infatti Videlier.
V.V
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