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16 05 2007 - notte turca di Ph.Videlier Ed. Donzelli
CANI DI ISTANBUL, STORIA DI UN MASSACRO MODERNO 14/05/07
Con Notte Turca (Donzelli editore)Philippe Videlier va alla radice del genocidio degli armeni e trasforma un fatto nel prisma in cui si riflettono le immagini di un secolo agli albori, ancora indeciso tra il pogrom artiginale e l'assassinio su scala industriale. Ma soprattutto, racconta di una profezia datata 1896. Che poi si è avverata...
Attilio Scarpellini

Lunedi' 14 Maggio 2007
“Un giorno come tanti, quelli che erano arrivati pieni di ambizioni da Parigi, da Salonicco, da Londra, da Ginevra o dal Cairo, avendo conquistato il potere
ma ignorando come farne uso, alla fine decisero di scegliere la via del progresso. Non sapevano da dove cominciare. E visto che bisognava pur iniziare
da qualche parte esordirono facendo piazza pulita dei cani.” E’ un peccato che Philippe Videlier sia uno storico e non un regista, perché Notte Turca (1)
sarebbe un grande e impossibile film che nel suo srotolarsi veloce – appena cento pagine – riesce a trasformare un fatto, il massacro degli armeni del
1915, in un prisma in cui tutte le immagini di un secolo si specchiano e si confondono. Il governo del Comitato dell’Unione e Progresso si è da poco sbarazzato del suo Sultano da Grand Guignol che la modernità bussa alla sua porta in carne, ossa e finanziera: ha le fattezze di un anonimo accademico francese che si presenta ai Talaat, agli Enver, ai Djemal, gli homines novi della Turchia post-ottomana proponendo loro di eliminare i cani con un metodo infallibile e pulito: la camera a gas. Ma i nuovi padroni della Sublime Porta declinano l’offerta: l’ora di preordinare soluzioni finali utilizzando tecnologie sperimentali non è ancora giunta. Videlier (da bravo cineasta) non aggiunge nulla a questa immagine: lascia che la sua profezia si sovrapponga al racconto, derisorio emblema di un secolo che, appena agli albori, esita ancora sulla soglia che divide il pogrom artigianale dall’assassinio su scala industriale. Ma l’idea di una profilassi che passa con disinvoltura dal cane all’uomo è già un eloquente segno di modernismo, degno della cultura positivistica di cui sono intrisi gli ideologi della Giovane Turchia, personaggi come Ahmed Riza, comtiano e massone dalla fluente barba, o il dottor Nazim, “missionario delle idee liberali in Asia minore” nonché capo della famigerata Organizzazione speciale, una specie di Gestapo che avrà mano libera nella soluzione del problema armeno. Notte turca va dal dagherrotipo di Abdul Hamid, tiranno pervertito che getta i primi semi del massacro al cinematografo stragista dei Giovani Turchi, da Rouletabille al Dottor Mabuse, trascinando nella sua danza travolgente tutti i cascami di un’epoca sospesa tra la Scienza e il Mito: il darwinismo sociale, il razzismo alla Gobineau, lo struggle of life trasferito dalla biologia alla storia, l’identità riscoperta sulla cenere degli Imperi e nell’impazzare degli imperialismi. Non dai crudeli giardini d’Oriente, ma dagli ordinati parchi d’Europa viene l’idea ammaliante, “semplice ma letale”, capace di far presa, dice Videlier, “sulle menti moderne così come sulle masse arcaiche”: il blod und solen di una nazione unificata nella purezza della razza – “il turchismo. La Turchia, la Grande Turchia, la Turchia pura, Turan, il panturanismo.” Noi, loro. Per essere contemporaneo, per specchiarsi nelle idolatrie nazionalistiche che surriscaldano i paesi della civilisation – Grande Germania, France eternelle – il parvenu grandeturco deve anzitutto entrare in guerra. Per rigenerare il grande dormiente imperiale, l’immobile gigante asiatico di cui le potenze occidentali si stanno ormai disputando le spoglie, ci vuole il sangue espiatorio di qualcuno. O noi o loro: l’Europa post-dreyfusarda ha i suoi ebrei, la giovane Turchia avrà i suoi armeni, insidiosi e parassitari come e più dei cani di Stanbul. Nel racconto di Notte Turca, la “macchina a manovella” del genocidio funziona come la Lettera trafugata che nel racconto di Poe si confonde tra le carte: per nascondere un massacro locale non c’è posto migliore di una carneficina globale, e quella che gli europei allestiscono tra il 1914 e il 1918 è davvero enorme e straordinaria. Nell’aprile del 1915 parte il segnale, il primo giro di manovella di un cinema del massacro che usa la crudeltà individuale come volenteroso suggello dello spirito di sistema, corroborando le fredde disposizioni degli spin doctors della soluzione finale con la fantasia pragmatica del fanatico e dell’assassino: sulle fiumane di armeni che, scacciati dai villaggi, si incamminano a colpi di scudiscio verso il nulla piombano al galoppo gli tchété dell’Organizzazione speciale. A Kemah donne e bambini vengono gettati nell’Eufrate dall’alto degli scogli. Altri moriranno nei deserti dell’Anatolia, abbandonati alla sete, alla fame e alle occasionali razzie delle bande curde. Il dottor Behadine Chakir Bey, un medico “diligente e riflessivo” che a Parigi si è specializzato in psichiatria, si informa quotidianamente presso il vali sul buon andamento delle operazioni. Ai diplomatici stranieri che protestano per il concerto di urla che risuona in ogni angolo dell’impero, il triumvirato che siede a Istambul oppone il sorriso invincibile di chi ha virilmente ingoiato quello che Hegel chiamava il lato cattivo della Storia. L’ambasciatore tedesco placa i fremiti umanitari dei suoi sottoposti ricordando che la Turchia è un buon alleato del Kaiser e che i“provvedimenti” dei turchi contro gli armeni, se troppo enfatizzati, possono essere utilizzati contro la Germania… Apologo e romanzo, nascosto nel fiume carsico di una Storia affabulata dal Coro trafelato dei dispacci e degli archivi, il libro di Videlier, a dispetto dell’andatura ondeggiante, mimetizzata nel ritmo dell’evento, batte sul chiodo di una convinzione: il destino della minoranza armena, il mysterium iniquitatis della sua eliminazione, viene da lontano, era inscritto da tempo in un’ideologia che, complice l’indifferenza e l’omissione, riuscì ad autoavverarsi. Fin da quando, nel 1896, un pubblicista che si fa chiamare il “Veglio della montagna” pubblica, a Ginevra, un opuscolo in difesa del sultanto Abdul Amid dove la “questione armena” viene sapientemente accostata a quella ebraica. “L’odio che divide i musulmani e gli armeni – dice il Veglio – non ha altra origine se non gli abusi a oltranza simili a quelli perpetrati dagli ebrei in Francia, in Inghilterra, in Polonia, dell’Austria-Ungheria (…) In fondo, si tratta della stessa identica cosa, the struggle of life.” Lotta per la vita: o loro o noi. Come qualcuno dice oggi e qualcun altro, con grandissima fortuna, ha scritto in questi anni, riabilitando gli argomenti del Veglio nell’Europa assediata da profughi e migranti: è una banale “questione di numeri”. “Con ogni probabilità nessuna potenza al mondo impedirà lo sterminio degli ebrei, in quanto giusta rappresaglia per i crimini compiuti negli ultimi cinque anni” concludeva lo scriba del Sultano, riuscendo in un sol colpo a profetizzare l’Olocausto e la prossima soluzione del problema armeno in Turchia, nonché ad assolvere in anticipo i futuri esecutori di entrambi. La Storia alla fine non fa che condensare il suo orrore in monumenti. Che non sempre sono dedicati alle vittime. Raggiunti e colpiti dai figli del genocidio, Enver Pascià e i suoi sodali, ritroveranno onore e memoria nella Turchia kemalista che sui loro mausolei ha alzato il muro della rimozione di ciò che accadde agli armeni. “Per la sventura di tutti, e la disperazione dei superstiti…” commenta Videlier al termine di una favola senza morale. Il crimine del silenzio, come lo chiamava Pierre Vidal-Naquet, ha un’inusitata vitalità nel secolo della memoria, perché il vuoto è più rassicurante del pieno e i genocidi fanno per l’appunto il vuoto. Nel suo romanzo più bello, Neve, il Orhan Pamuk si sofferma sui vuoti che la diaspora armena ha lasciato tra le case di Kars, mitico villaggio perennemente innevato in cui si concentrano grandezze e miserie dell’identità turca. E senza chiederselo si domanda: dove sono finiti gli armeni di Turchia? Già. Che fine hanno fatto i nostri vicini, nella Polonia senza ebrei, nella Turchia senza armeni? La modernità è stata anche il desiderio di questo paesaggio uniforme e monocromo, ammutolito e ripulito dalle presenze troppo rumorose. “Ora finalmente si potrà dormire in pace” come sembra abbiano commentato tra loro gli assassini di Erba, sognatori anch’essi, a loro modo, di una Costantinopoli senza più cani, di un Noi perfetto, conchiuso, libero dall’ombra ingombrante di tutti quei Loro.

questo articolo è uscito sull'ultimo numero del mensile Carta Etc.
(1)Philippe Videlier, Notte turca, Donzelli editore, 2007

V.V

 
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