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15 06 2007 - La Masseria delle allodole e Exodus '47
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da Agenzia Radicale.it
La Masseria delle allodole e Exodus '47 -
News del 13-06-2007
I procedimenti penali contro storici ed intellettuali in Turchia ed il recente film dei fratelli Taviani: La Masseria delle allodole (tratto dall’omonimo
romanzo della scrittrice d’ascendenza armena Antonia Arslan), hanno contribuito a risvegliare l’interesse del pubblico italiano nei riguardi del genocidio dei
cristiani armeni perpetrato dai turchi musulmani a ridosso della prima guerra mondiale.
Nell’impero ottomano la popolazione turca era relativamente poco numerosa data la presenza di arabi, circassi, beduini, drusi, ebrei ed armeni.
Gli armeni, come anche gli ebrei che vivevano in terra d’Israele (a quei tempi denominata, sui documenti dell’impero, Siria del sud), costituivano un’élite
nella società dell’epoca.
Gli armeni erano grandi lavoratori e ottimi agricoltori e, grazie ai commerci spesso conquistavano agiatezza ed esperienza del mondo, erano generalmente colti e, in mezzo a popolazioni tra le quali l’analfabetismo superava ampiamente il 90 per cento, a volte mandavano i loro figli e figlie a studiare
e a laurearsi in Europa.
L’eliminazione degli armeni avvenne in seguito a quella che si può definire l’invenzione del genocidio in senso moderno, un qualcosa che non era mai esistito prima e che Hitler, nel ’39, additò come esempio ai suoi uomini
riuniti, per spiegare quelli che erano i suoi progetti per l’immediato futuro.
Non le stragi occasionali e le carneficine perpetrate con l’acquiescenza più o
meno esplicita della Sublime Porta, come era avvenuto innumerevoli volte nel
corso dei cinque secoli di dominio turco, bensì l’annientamento di una intera
nazione, pianificato e organizzato razionalmente affinchè la morte potesse
venire inflitta in modo sistematico e ordinato.
Nel corso di circa cinque anni almeno un milione e mezzo di cittadini armeni,
probabilmente molti di più, vennero eliminati.
Gli uomini venivano fucilati nelle caserme dove si erano presentati per il
servizio militare oppure, separati dalle famiglie, lungo le strade dopo aver
svolto i lavori forzati.
I vecchi, le donne e i bambini a mezzo di marce estenuanti durante le quali
morivano in buona parte, vennero deportati fino a Deir es Zor, l’ingresso del
deserto Mesopotamico e ivi lasciati morire di fame e di sete.
A onor del vero bisogna ricordare i pochi che poterono salvarsi grazie al buon
cuore di poveri turchi che inorriditi da ciò che stava accadendo li accolsero
nelle loro case, in un momento in cui le nuove leggi punivano il delitto di
pietà verso gli armeni con la bastonatura, la prigione e nei casi più gravi con
la morte.
Alla fine degli anni venti un giovane cecoslovacco, colto e raffinato, si trovò
a viaggiare nei territori che fino ad un decennio prima costituivano i confini
dell’impero ottomano e a Damasco si imbatté in alcuni ragazzi armeni profughi,
mutilati e poverissimi che lavoravano, trattati come schiavi, nelle fabbriche
locali di tappeti.
Franz Werfel, il giovane europeo, apprese da loro molto su ciò che era accaduto
e grazie a loro decise di scrivere il suo primo libro: I quaranta giorni del
Mussa Dagh.
Sulla costa a nord del Libano, a nord della baia di Antiochia, nei pressi del
golfo di Alessandretta si erge il massiccio del Mussa Dagh il cui versante
occidentale è una falesia, una parete rocciosa a strapiombo tra gli scogli sul mare, una falesia che fa del massiccio una fiera fortezza naturale. Sul versante orientale ai piedi della montagna, all’inizio del secolo, vivevano pacificamente alcune migliaia di armeni suddivisi in sette villaggi.
Quando le notizie sulla deportazione si fecero via via più frequenti e divenne impossibile chiudere gli occhi sulla realtà di quello che sarebbe stato il destino comune, la maggior parte della popolazione decise di non arrendersi ma piuttosto di tentare di resistere.
Alla fine di luglio del 1915, 5000 armeni, tra i quali tremila donne, vecchi e bambini, si rifugiarono con armi, vettovaglie, utensili e greggi sulla cima del
massiccio montuoso dove costruirono capanne e trincee e resistettero per quaranta giorni ai ripetuti assalti di uno degli eserciti più feroci e più potenti del mondo, resistettero per quaranta giorni ai turchi che schernivano gli armeni in quanto deboli commercianti ed esaltavano se stessi in quanto forti e guerrieri.
In quelle settimane presero una lunga pertica e vi attaccarono una bandiera della croce rossa, poi disposero degli striscioni sulle rocce in direzione del
mare con la scritta “ Cristiani aiutateci” ma nessuno venne e nessuno li aiutò.
Quando affamati, allo stremo delle forze e con centinaia dei loro uccisi dallo sfinimento o dai soldati turchi erano sul punto di venire sopraffatti furono salvati da alcune navi battenti bandiera francese che transitavano casualmente nel golfo di Alessandretta.
Franz Werfel era ebreo e diventerà in seguito un grande scrittore, nel 1945 a soli 55 anni morirà improvvisamente in California, lasciando incompiuto il suo ultimo lavoro, dopo essere riuscito a fuggire da un campo di concentramento tedesco in Francia, con l’aiuto di un gruppo della Resistenza locale.
Nel suo primo romanzo volle raccontare un episodio della resistenza armena e lo fece con la sensibilità acutissima dell’ebreo mitteleuropeo che porta nel
sangue la consapevolezza della sofferenza umana e che sa stabilire un rapporto di comprensione profonda con un’altra minoranza da sempre esposta come quella
ebraica alla brutalità degli uomini e all’incertezza del vivere.
Rileggere oggi il libro, scritto nei primi anni trenta e pubblicato nel ’34, è per il lettore contemporaneo un’esperienza impressionante.
Oltre ad apprezzare la qualità della scrittura, la finezza dell’introspezione psicologica e la descrizione puntuale di una cultura diversa dalla nostra, ciò
da cui veniamo enormemente colpiti è la disamina acutissima della logica algida dello sterminio, in pagine e pagine di una lucidità che non si può fare a meno di definire profetica, perché ciò che è riferito ad un accadimento appena passato si adatta alla perfezione allo spaventoso futuro che si andava
preparando.
I quaranta giorni del Mussah Dagh fu tradotto in inglese e poco tempo dopo in ebraico ed ebbe una enorme diffusione in terra d’Israele, dalla fine della
prima guerra mondiale sottoposta a mandato britannico.
Tutti i giovani ebrei lo leggevano e lo discutevano profondamente impressionati dalla crudeltà dei turchi e dall’ eroismo di quella piccola comunità cristiana
che non poteva non evocare il ricordo di un’altra piccola comunità, quella ebrea dei ribelli di Masada che tanti secoli prima avevano scelto la resistenza
a tutti i costi, che dall’alto della fortezza avevano visto l’esercito romano rafforzare l’assedio per nove lunghi mesi e che infine privi di qualsiasi via
di scampo avevano deciso di suicidarsi nella luce accecante che il Mar Morto rifletteva, poiché la morte era preferibile alla perdita della libertà e alla
crudeltà dei romani.
Non bisogna dimenticare che alla fine della prima guerra mondiale gli ebrei dell’Yishuv (la Comunità), così si chiamavano gli abitanti della terra
d’Israele, avevano deciso di apprendere l’uso delle armi, di fondare una forza di difesa esclusivamente ebraica e di licenziare gli infidi mercenari beduini
che fino ad allora avevano difeso gli insediamenti agricoli dagli assalti degli arabi.
In seguito la Haganà (la Difesa), della quale facero parte moltissimi giovani ebrei, portò sulle spalle la responsabilità della difesa di una comunità
sottoposta alle continue aggressioni delle bande arabe organizzate dal gran muftì di Gerusalemme, la suprema autorità politica e religiosa dei musulmani palestinesi, che negli anni trenta riceveva finanziamenti non più soltanto da siriani e da libanesi ma soprattutto dai fascisti italiani e dai nazisti
tedeschi tutti interessati a rendere difficile la vita sia agli inglesi che agli ebrei.
Gli adolescenti israeliani a quell’epoca leggevano le poesie di Garsia Lorca e di Pablo Neruda, leggevano le poesia di Rebecca la poetessa del lago di Tiberiade e, tutti, leggevano anche I quaranta giorni del Mussa Dagh senza sapere, ma forse in qualche modo presentendo, che si stavano preparando al futuro, un futuro terribile, durante il quale sarebbero state loro richieste
enormi doti di determinazione, coraggio e generosità.
Quei giovani sabra, gli antesignani del tipico soldato israeliano, trovavano nelle pagine di Werfel un codice etico ed erano galvanizzati da quel racconto
pieno di dolore, di eroismo, di abnegazione e di solitudine.
La stessa solitudine con la quale gli ebrei si erano confrontati innumerevoli volte nel corso della loro Storia e che avrebbero conosciuto di nuovo,
esattamente la stessa, negli anni della Shoà, durante la guerra d’Indipendenza e durante l’assedio di Gerusalemme.
Sapere che la vita di tanti dipende da te, che non avrai nessun appoggio e che la responsabilità di stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è sarà solo
tua, capire che sei solo al mondo e che nessuno risponderà alle tue invocazioni d’aiuto.
Aveva scritto Werfel “…Vita, spirito e corpo di ogni uomo erano notte nera, in cui ardeva un solo punto luminoso, insopportabilmente intenso: la mira sul
bersaglio .Non c’era più un comandante e un comando, c’era unicamente questa coscienza pietrificante: dietro di me il campo aperto, le donne, i fanciulli,
il mio popolo!...”
Poi scoppiò la seconda guerra mondiale e giunsero le prime, incredibili, inverosimili notizie sullo sterminio in Europa. Alla fine del 1941 la comunità
ebraica in Eretz Israel viveva in preda ad un’ansia che sconfinava nel panico.
Le truppe germaniche dilagavano in Nord Africa, guidate da Erwin Rommel, la volpe del deserto,come venne soprannominato il feldmaresciallo grazie alla sua
abilità militare. Gli inglesi erano battuti e in ritirata, soltanto alcune armate ancora resistevano e facevano da scudo in Egitto, dove la popolazione
araba era filonazista.
A Gerusalemme l’alto commissario inglese, senza giri di parole, informò Shaul Avigur, il comandante in capo della Haganà, che in caso di invasione tedesca
gli inglesi si sarebbero preoccupati esclusivamente della salvezza dei propri uomini e che, di conseguenza, si sarebbero ritirati senza muovere un dito per
difendere la comunità ebraica dai nazisti e dagli arabi che stavano preparando il massacro.
L’Haganà elaborò allora un piano per addestrare le giovani truppe ad una guerra senza speranza e studiò la possibilità di rifugiarsi sul monte Ghilboa e ancora
più in là verso Beit Shean, ma la verità è che il territorio era troppo minuscolo perché ci fosse una reale possibilità di ritirata. Il piano fu denominato“ Mussa Dagh in terra d’Israele”.
Aveva scritto Werfel: ”… << Grazia da parte degli uomini non ce n’è più… Non ci rimane null’altro che morire…>>….<< Come morire?..>> gridò il pastore…. < E con me morirà la mia donna, e la creatura non nata che è in lei!...>>.”
“…< Se ci rendiamo perfettamente conto di questo, se con la più sprezzante risolutezza scegliamo la prima, la morte decorosa, allora forse avverrà il
miracolo, e non dovremo morire. Ma solo allora fratelli!>>…” .
Poi avvenne il miracolo: Rommel fu sconfitto, ad El Alamein, dal generale Montgomery e gli israeliani furono salvi e poterono dedicare le loro energie ai
molteplici tentativi di prestare soccorso agli ebrei in Europa.
Lo scrittore israeliano Yoram KaniukYossi Harel, racconta che il giovane
comandante nei suoi bagagli oltre a frutta, frutta secca e cioccolato aveva
sempre una Bibbia, le poesie di Hanna Senesh e di Nathan Alterman e i Quaranta
giorni del Mussa Dagh.
Yossi comandante della marina clandestina israeliana, dal 1945 al 1947 portò fuori dall’Europa migliaia di ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio, governando vecchie imbarcazioni stracariche di profughi, nello stesso mare infestato di mine dove gli ebrei in fuga dai nazisti, negli anni della guerra, erano affogati a migliaia senza che nessuno prestasse loro soccorso.
Lungo le rotte era appostata una flotta poderosa, 45 modernissime navi militari inglesi appoggiate da una squadriglia della Raf, composta da decine di aerei.
Il governo di Sua Maestà era freddamente determinato ad arrestare e a deportare i sopravvissuti in nuovi campi di concentramento per impedire con ogni mezzo
l’immigrazione in terra d’Israele e salvaguardare così gli interessi commerciali con i paesi arabi.
Kaniuk racconta che Harel guidando la Knesset Israel (Assemblea di Israele) carica di 4000 sopravvissuti, in una notte invernale di luna piena, mentre
costeggiava silenziosamente la costa turca, aveva dimenticato ogni cosa, i profughi brulicanti e quel rottame che rischiava in ogni momento di affondare,
aveva sentito riemergere i sentimenti dell’infanzia e le sensazioni suscitate dal libro letto assieme al suo migliore amico e aveva preso a cercare con
l’aiuto del cannocchiale e delle carte nautiche, la cima del Mussah Dagh, dove aveva resistito” un minuscolo Stato militare coraggioso e morto di fame”, dove avevano resistito fratelli di un altro tempo e di un’altra cultura, privi di ogni possibilità di scelta proprio come lui in quel momento.
Infine era riuscita a scorgerla, in lontananza, coperta di neve, alta di mille metri a sud est di Antiochia, e la visione gli aveva fatto pensare alla fortezza di Masada, e alle Termopili dei “pochi che resistono ai molti” senza nessuno a cui chiedere aiuto o consiglio, e a se stesso soldato che si batteva al servizio di una causa persa, responsabile della vita di migliaia di persone affidate esclusivamente alla sua abilità e competenza.
Yossi era tanto giovane, uno dei tanti giovani dei Servizi Segreti israeliani che portavano sulle spalle responsabilità tanto più grandi della loro età e
tali da spaventare uomini ben altrimenti esperti e addestrati. Dopo la Knesset Israel, nel luglio del ’47, si trovò a comandare la nave Exodus ’47 carica di 4515 sopravvissuti, e aveva appena compiuto i ventotto anni.
La nave Exodus divenne un mito e la sua vicenda ebbe risonanza in tutto il mondo, perché gli inglesi, coprendo se stessi di infamia e di vergogna, la circondarono con 5 cacciatorpediniere e un incrociatore, la speronarono ripetutamente e l’assalirono con gas lacrimogeni e armi da fuoco, uccidendo 3 persone e ferendone centinaia.
La battaglia durò ore, i profughi erano disarmati e si difendevano disperatamente quasi a mani nude, con qualsiasi oggetto potessero raccogliere.
Poi il medico di bordo, coperto di sangue, dichiarò che i feriti rischiavano di morire per mancanza di trasfusioni, allora Yossi ordinò la resa ottenendo in
cambio alcune sacche di plasma.
Nel porto di Haifa, sotto gli occhi inorriditi dei membri della delegazione internazionale dell’Unscop, i passeggeri esausti furono caricati su navi fornite di gabbie dal pavimento di lamiera e coperte da una rete di filo spinato.
Furono caricati a suon di insulti, calci e colpi di manganello. Qualcuno si gettava in acqua, moltissimi urlavano tra donne svenute e bambini calpestati.
Gli inglesi dichiararono che avrebbero riportato tutti al punto di partenza.
Yossi evitato l’arresto continuò a lavorare nell’immigrazione clandestina. I
profughi furono trasportati in Germania e sbarcati ad Amburgo mentre nel porto
risuonavano marce militari tedesche, poi furono rinchiusi, a poca distanza, nel campo di prigionia di Poppendorf, che fino a due anni prima era stato un campo di concentramento nazista.
Così lo Stato d’Israele si preparava a nascere, si preparava a nascere circondato da nemici, si preparava a resistere e a resistere… Aveva scritto Werfel: “Stringeva il cuore pensare che il minimo insuccesso, il più piccolo scacco doveva condurre irrevocabilmente alla rovina. Per il popolo del Damlagìk non c’erano gradi intermedi, ma soltanto grandi vittorie o la morte”.
V.V
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