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22 06 2007 - Donne armene: una storia nella storia
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Donne armene: una storia nella storia
Giovanna Galifi
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“Quello degli armeni fu il genocidio perfetto. Dell’Armenia e del suo popolo non doveva restare nulla. Neppure il ricordo”. Definire un genocidio perfetto è una contraddizione in termini. Lo sa bene Vartan Giacomelli, presidente dell’Associazione Italiarmenia, di professione magistrato, quando fa risuonare queste parole nel silenzio della Scuola Grande di San Giovanni Evangelista a Venezia.
È in questa città, legata all’Armenia dalla notte dei tempi, che, dal 6 all’8 giugno scorsi, numerosi armenisti si sono dati appuntamento per affrontare la questione irrisolta del genocidio armeno, non ancora universalmente riconosciuto.
Occasione del confronto è stata la rassegna “Quel che non è dato è perso”, intitolata allo scrittore e uomo di pace Tiziano Terzani. L’evento, giunto alla sua terza edizione, ideato e realizzato da Roberta Pierobon, ogni anno affronta una “questione di pace” non ancora risolta.

A confrontarsi erano la scrittrice Antonia Arslan, autrice del romanzo “La masseria delle allodole”da cui è stato tratto il film RAI dei Fratelli Taviani, Diego Cimara, giornalista Rai e saggista, Vartan Giacomelli, presidente dell’associazione di Padova Italiarmenia, Baykar Sivazliyan, docente di Lingua e Letteratura armena alla Università Statale di Milano, e Zara Martirosian, consigliere dell’Ambasciata armena.

È una lingua fatta di immagini, di sensazioni e dal sapore di zucchero caramellato quella parlata dagli armeni. I relatori non parlano di diritti, di violazioni umane, di territori occupati, di Stati da rivendicare. Non chiedono sia fatta giustizia, né tantomeno vendetta.
Giacomelli è un pubblico ministero, uno di quei magistrati che, per vocazione, promuovono l’accusa. Eppure anche lui, quando racconta dell’atroce massacro compiuto ai danni del popolo dal quale discende, non presenta nessun conto.

Tratteggia il genocidio facendo ricorso alle sensazioni legate a tre diversi momenti. L’inconsapevolezza negli armeni di quanto stava per accadere. L’impossibilità di comprendere cosa fu la deportazione per chi la visse. La necessità per sopravvivere di voler salvare il proprio essere armeno. “Il sopravvissuto non prova rancore – spiega Vartan - non vuole vendetta. Ha bisogno di verità”.

Ciò che gli armeni oggi chiedono è che sia fatta memoria. Proprio “Hushèr”, memoria, si intitola il video di Avedis Ohanian che raccoglie le testimonianze di quei sopravvissuti giunti in Italia con la diaspora che fece seguito al genocidio.

Sono uomini e donne dai visi segnati quelli che appaiono sullo schermo. “Sono vecchi – dice Antonia Arslan – che quando parlano di quanto hanno vissuto tornano ad essere i bambini che erano allora”.
Quello che fu il primo genocidio del XX secolo è ben documentato da fotografie di atroce crudezza raccolte nel video: uomini, donne e bambini ridotti a scheletri, corpi senza più vita ammassati l’uno sull’altro.
“Sono gli occhi di quelle vittime che parlano”, sottolinea Baykar Sivazliyan, commentando le immagini.
Eppure, nonostante l’evidenza di quelle immagini e il fatto che nel 1987 il Parlamento Europeo abbia riconosciuto la realtà del genocidio armeno, il governo Turco ancor oggi continua a negare quegli accadimenti. Zara Martirosian evidenzia l’importanza del ricordo.

“Nell’agosto del 1939 Hitler rivolgendosi ai propri ufficiali poté dire: “Chi ricorda più oggi del genocidio armeno?”. Solo conservando memoria delle atrocità subite è possibile evitare che accadano nuovamente”. “Noi Armeni – spiega Baykar – ci siamo sempre vergognati della grande tragedia che ha colpito il nostro popolo. Anche noi, figli dei sopravvissuti, abbiamo imparato crescendo questa sofferenza silenziosa. Ora, per fortuna, tanti parlano di quanto accadde in Armenia durante la prima guerra mondiale. Vi è una grande differenza tra la Shoa e l’olocausto armeno. Per la prima volta, nel genocidio armeno, un popolo organizzò l’uccisione di una parte di se stesso. Gli armeni erano, infatti cittadini, dell’impero ottomano. Mio nonno venne fucilato con la divisa militare ottomana indosso”.

La storia si fa presente nei racconti di tutti gli armeni, anche e forse soprattutto in quelli della diaspora. Baykar Sivazliyan non è solo un cattedratico universitario: è prima di tutto il nipote di un armeno ucciso dai turchi.

Cosi Vartan Giacomelli: prim’ancora che il Presidente di Italiarmenia, è il nipote di una donna sopravvissuta alla deportazione. Così anche Diego Cimara, il giornalista di Rai Uno, autore del saggio “Genocidio Turco degli Armeni”, che quando ricorda il nonno Costia non trattiene le lacrime. “È necessario che il governo turco riconosca il genocidio. È doveroso nei confronti del popolo armeno. Ed è terribilmente triste che per convincere la Turchia a riconoscere quei fatti si debba far leva sulla sua volontà di entrare in Europa”.

Quella delle donne armene è una storia nella storia
Non sono molti i conflitti nei quali è stata data una lettura di genere, una visione della tragedia vista con gli occhi delle donne. Solo nei conflitti più recenti, si pensi all’Argentina e ai Balcani, il ruolo delle donne è stato immediatamente evidente per le attività alle quali hanno dato vita. Il genocidio armeno venne compiuto durante la prima guerra mondiale. È la sera del 24 aprile 1915 quando tutti gli intellettuali armeni vengono arrestati e fatti sparire. Quasi un secolo fa.

“Quella notte – spiega Baykar Sivazliyan – ha inizio il Metz Yeghérn, il “Grande Male”. Così noi chiamiamo l’olocausto del popolo armeno. Un milione e 500 mila Armeni cristiani vennero sterminati dai Tuchi. Gli uomini vennero condannati alla fucilazione immediata. Per le donne le cose andarono diversamente. Al pari dei vecchi e dei bambini erano ritenute più deboli: per loro non era necessario sprecare piombo, pallottole. Il destino che venne loro riservato fu, se possibile, ancora più atroce. La deportazione”.

Donne, vecchi e bambini vennero fatti marciare per giorni e giorni verso false destinazioni. La marcia di quelle persone verso una qualche città nascondeva un obiettivo diverso. Farle morire di fame e di stenti”. “Le deportazioni – sottolinea il giornalista di Rai Uno, Diego Cimara – avvenivano in condizioni disumane. Tutte le donne, nessuna esclusa, vennero violentate. Violate, stuprate, umiliate, quelle donne dal carattere forte e sensibile non si arresero.

La differenza di religione - gli armeni infatti sono un popolo cristiano – contribuiva a mantenere una profonda differenziazione culturale e sociale con i vicini popoli orientali.
La famiglia armena può essere descritta come una famiglia occidentale di oggi: uomo e donna avevano parità di ruolo e di dignità. I nuclei familiari erano composti da un uomo e una donna posti sullo stesso piano. Con loro uno o due figli, non una prole numerosissima come avveniva per i popoli musulmani. Già abituata ad essere forte, la donna armena – continua Cimara – ebbe modo di dimostrare tutto il proprio coraggio sia durante le deportazioni che dopo, durante la diaspora che seguì il genocidio”.

“Si deve proprio alle donne – sottolinea Baykar Sivazliyan – se il popolo armeno ha continuato ad esistere. Le famiglie dei sopravvissuti erano composte solo da donne, vecchi e bambini. Spesso quelle madri, pur di dare una figura paterna ai loro figli, sposavano, in seconde nozze, uomini ormai anziani. La voglia di garantire al proprio popolo la sopravvivenza era di importanza primaria per queste donne”.

“Alle donne – evidenza Antonia Arslan - è stato affidato il gravoso compito di preservare la memoria del popolo armeno. Sono state loro, durante la diaspora, a farsi carico di garantire che tradizioni, cultura, e anche le ricette tradizionali armene non venissero dimenticate. Le donne armene sopravvissute al genocidio conservarono e trasmisero con cura ai loro figli non solo la lingua e la storia del popolo ma anche abitudini, costumi, canzoni e ricette di cibi tipici. Le donne armene – sottolinea la scrittrice – avevano un elevato livello culturale dovuto anche a una diffusa scolarizzazione”.
Studiavano, leggevano e scrivevano quelle donne che, nei loro diari, hanno immortalato la tragicità dei momenti vissuti durante la deportazione.

“Nel diario scritto da mia nonna – sottolinea Vartan Giacomelli, presidente dell’associazione Italiarmenia - viene raccontata, giorno dopo giorno, la marcia verso il nulla al quale era stato destinato il popolo armeno. È strano leggere oggi le pagine del diario: vengono descritte piccole cose, episodi all’apparenza insignificanti. È quasi impossibile riuscire a capire cosa potessero provare nel profondo del proprio animo le donne che subivano con i loro figli la deportazione verso una morte annunciata”.

“Non si deve pensare – conclude Baykar Sivazliyan – che negli ottomani vi fosse una sorta di benevolenza nei confronti delle donne. Non furono risparmiate a una morte immediata per rispetto o generosità. Tutte le donne armene erano, al pari degli uomini, destinate a morire. L’intento dei turchi era cancellare ogni traccia dell’intero popolo armeno”. Se così non fu, lo si deve proprio al coraggio e alla forza di quelle piccole grandi donne.

17 giugno 2007


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