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16 b07 2007 - Il Paradjanov ritrovato
Estratto dallal rivista Segno Cinema no. 145
Giugno 2007-
Incontro con l’assistente del regista de Il colore del melograno
Il Paradjanov ritrovato
Nel documentario di Grigorian si ricostruisce la struttura originaria di un capolavoro non più enigmatico

a cura di Sonya Orfalian

Nell’opera di Sergej Paradjanov, Il colore del melograno (Sayat Nova, 1968) risulta un film tanto celebrato quanto enigmatico. Alla luce della versione circolata fino ad oggi, si tratta di un poema audio-visivo di grande fascinazione, ellittico e metaforico, quasi un punto di non ritorno del cinema d’arte. La recente scoperta e il successivo lavoro dell’assistente di Paradjanov, Levon Grigorian, integra la struttura del film conosciuto con alcuni episodi all’epoca censurati (per eccessi di erotismo e misticismo). Nel documentario che ha tratto da questa esperienza (Reminiscenze su Sayat Nova), Grigorian non soltanto colloca al loro posto i segmenti ritrovati ma realizza una vera e propria “guida” al film di Paradjanov, che ha il pregio di chiarire ciò che era oscuro non tanto per gesto poetico ma per i tagli imposti, mettendo in risalto una vera struttura narrativa.

Dunque Sergej Paradjanov torna a vivere e a parlarci grazie a un ritrovamento fortuito…

E’ un miracolo aver ritrovato le pellicole censurate. Quando mi hanno detto che c’erano alcune scatole contenenti i rulli con i negativi originali non ci potevo credere: ero felice e tuttora non so chi ringraziare per questo ritrovamento. Ho voluto dare immediatamente un’occhiata al materiale e ho chiesto di aprire i contenitori. La prima cosa che ho notato però era che il tempo aveva fatto la sua parte: i negativi erano molto rovinati perché all’epoca in Unione Sovietica si usavano pellicole scadenti, piuttosto ricche in nitrato d’argento e quindi facilmente deteriorabili. Ma il fatto che si siano conservate nel sottoscala dove sono state ritrovate per caso, è un vero e proprio miracolo, un dono immenso. Non sapevo ancora che il mio entusiasmo non sarebbe stato condiviso da tutti. Il ritrovamento degli originali di Sayat Nova non ha infatti stimolato in alcun modo i miei colleghi, che si sono disinteressati fin dall’inizio alla questione. Io ho subito preparato un progetto e ho cercato di coinvolgerli, ho contattato vari sponsor in Armenia ma nessuno ha dato peso alle mie proposte, nessuno mostrava interesse nel riprendere in mano quel materiale prezioso e lavorarci sopra. Mi sembrava un paradosso, non capivo: il progetto che avevo in mente avrebbe dovuto trovare un’accoglienza calorosa, e invece… Mi ponevo una domanda retorica: era meglio cercare dei soldi per produrre un videoclip, per una campagna pubblicitaria, o per un film che ha un ruolo importante nella storia del grande cinema internazionale? In buona sostanza non accadde nulla, ed ero già piuttosto avvilito quando nel settembre del 2000 mi hanno invitato a Viareggio in occasione di un festival, per una retrospettiva dei film di Paradjanov. Quando ho presentato Il colore del melograno ho detto che certo era molto interessante per il pubblico poter scoprire l’arte di Paradjanov, un autore che peraltro godeva di grande fama nel mondo del cinema e che anche autori italiani del calibro di Fellini, Tonino Guerra e Antonioni stimavano enormemente. E ho aggiunto: “Ora vedrete Il colore del melograno ma dovete sapere che questa versione non ha nessun legame con il progetto iniziale di Paradjanov: ad essa manca il suo significato più profondo. Ci sono delle meravigliose immagini, delle splendide inquadrature, ma il senso complessivo è purtroppo andato perso”. A quel punto - unica voce tra i presenti - si è alzato il produttore Rino Sciarretta e mi ha chiesto: “Cosa si può fare? E’ possibile recuperare il materiale mancante?” Gli ho risposto di sì, ma che c’era bisogno di soldi, visto che bisognava ristampare tutto il girato ritrovato per capire meglio il contenuto del film che Paradjanov aveva voluto fare. Ancora non mi spiego perché a Yerevan o a Mosca l’idea non sia stata accettata con l’entusiasmo che Sciarretta - italiano - ha mostrato subito, rilanciando: “Beh, proviamoci noi!”.

Cosa è accaduto in seguito?

L’anno successivo, nel 2001, siamo volati a Yerevan con alcune proposte e fin dall’inizio ci siamo trovati di fronte a enormi difficoltà: da parte del Ministero della Cultura, dei diversi comitati responsabili del settore cinema, delle varie associazioni… Insomma, pensavo ingenuamente che ci avrebbero portato sugli scudi per quello che avevamo intenzione di fare, ma al contrario si faceva di tutto perché il progetto non andasse in porto. A quel punto Rino mi chiese: “Sei sicuro che negli scatoloni ci sia proprio quello che ti aspetti di trovare?” Cosa potevo rispondergli? Non volevo ingannare nessuno: non potevo avere una certezza assoluta, ma qualcosa mi diceva che le immagini censurate c’erano e anche in grande quantità. Da qui a dire con sicurezza che tutto il materiale censurato si era conservato intatto, beh... Eppure, nonostante le difficoltà che affrontavamo a Yerevan, e a dispetto dei miei dubbi, Rino ha voluto continuare a lavorare al progetto e di questo gli sono molto riconoscente. Passati un paio d’anni di stallo, dopo aver constatato che a nessuno interessava il nostro lavoro, riuscimmo comunque a stampare i negativi in bianco e nero. Purtroppo il materiale era molto deteriorato, come immaginavo. Sin dall’inizio non ero del tutto persuaso che il laboratorio di Hayfilm avrebbe potuto venirne a capo: era inutilizzato da anni, la macchina per stampare era ferma da moltissimo tempo. Senonché Rino ha comprato il materiale necessario per rimetterla in funzione, e con mia grande sorpresa il laboratorio è stato in grado di stampare, anche se i negativi venivano lavorati con molte perdite. Certo, sarebbe stato meglio portare la pellicola in Europa o a Mosca per lavorare con standard di qualità più alti, ma non ne avevamo la possibilità. E quindi abbiamo fatto stampare tutto ciò che era possibile proiettare. Il materiale era tantissimo: non posso dire che si trattava del cento per cento di ciò che ricordavo, ma con quello che c’era si poteva già iniziare a lavorare.

Oltre ad avere memoria del girato, lei ricordava la struttura originaria del film?

Quando abbiamo stampato il materiale e poi quando per la prima volta lo abbiamo proiettato in sala, è stato per me come un salto indietro di quarant’anni, tornare alla mia giovinezza: quando lavoravo con Paradjanov a Sayat Nova avevo appena venticinque anni. Ero entusiasta, dicevo a Rino: “Ci sono, quelle immagini ci sono, eccole qui!” Certo non erano perfette ma c’erano. Erano mescolate, in disordine logico, un pezzo di un episodio in un rullo, la prosecuzione nell’altro, ma c’erano: le vedevo e le ricordavo tutte. Erano le immagini di cui avevo raccontato nel corso del tempo, cercando di spiegare quanto fossero interessanti, quanto fosse grande l’idea che ne era alla base. Anche di fronte a questo risultato non sono finite le difficoltà: specialmente a Yerevan continuavano a metterci i bastoni tra le ruote e non ci lasciavano lavorare in pace al mio film/documentario. Mi hanno fatto riscrivere la sceneggiatura tre volte. Ci sarebbe da scrivere un libro su tutte le vicende che hanno accompagnato la creazione di questo film, una storia bizzarra ed eloquente al tempo stesso: forse lo farò, magari non adesso, ma lo farò…

Una volta terminata la stampa, che cosa è emerso dal confronto con Sayat Nova così come lo conosciamo?

Alla fine, dopo aver stampato a Yerevan in bianco e nero, abbiamo fatto un’accurata scelta del materiale e, in quantità minore rispetto all’insieme del ritrovamento, lo abbiamo portato a Mosca dove, dopo la stampa a colori, ho potuto continuare a lavorare. Nel film mostro sei nuovi episodi di Sayat Nova che nessuno aveva mai visto prima. Si tratta di episodi che conservano il grande, profondo significato di quello che Paradjanov voleva raccontare: Sayat Nova come uomo e come poeta. Non si può dire che sia un film biografico sul poeta: la narrazione è interessante non in quanto biografia ma in quanto mostra il percorso attraverso cui un poeta cerca il significato della vita. La sua domanda sembra essere questa: in cosa deve credere un essere umano? Su cosa deve poggiare il suo credo? All’inizio del film vediamo Sayat Nova diventare poeta, un poeta che canta l’amore. Egli vive il suo idillio con la regina Anna, ma si persuade che un amore soltanto passionale, non finalizzato alla creazione di una famiglia è destinato a consumarsi, ad esaurirsi. Come ne Il Rosso e il Nero di Stendhal il mondo terreno si contrappone a quello spirituale: ecco il poeta deluso dalla vita terrena, dal fasto dei palazzi, dal rosso in quanto colore dell’amore. Egli sceglie il nero e abbandonando i palazzi reali si dirige verso il monastero (frame 1-2), si fa monaco, accetta la regola. Ma è difficile per un poeta diventare monaco: lo vediamo in quelle scene in cui Sayat Nova ha delle strane visioni, fa dei sogni erotici, è tormentato dai ricordi (frame 3-5). Un altro bellissimo “capitolo” riguarda la notte di Natale. La notte del pentimento. Ecco, quando arriva il Natale significa che è venuto al mondo un bambino: il poeta-monaco quella sera è di nuovo visitato dalle memorie del passato, pensa con dolore e angoscia a quei bambini, quei suoi figli mai nati, perduti durante le sue notti d’amore. Per mostrarci questo, Paradjanov adotta una soluzione artistica splendida ed efficace: è la scena in cui vediamo le teste dei bambini spuntare dalla parete sul fondo; sono lì, i fanciulli perduti, sono gli aborti, i figli mai nati, sono lo spargersi del seme non seminato. E subito vediamo apparire al fianco del monaco una figura diabolica che sghignazza e si muove come un burattino: la presenza della colpa, del peccato (frame 6). In un episodio successivo, nel cuore del film, incontriamo un folle: solo a guardarlo si capisce che si è completamente smarrito. Qui il riferimento sembra all’Amleto di Shakespeare: la celebre osservazione sul “tempo che esce dai suoi cardini”. Il nostro protagonista aveva vissuto un tempo sereno e giusto: era il mondo dell’infanzia, il mondo del calore del pane e della lana, il calore della madre e del padre. La sua vita era iniziata così, ma poi tutto si era deteriorato. Perché vivere? Quali strade percorrere? Sono queste le domande che si pone. E’ smarrito. Ed è a questo punto che arrivano le magnifiche immagini del monastero che perde la sua cupola (frame 7): come quella cupola volteggiando cerca un monastero su cui poggiarsi, così anche Sayat Nova, l’errabondo che si è perduto, vaga per strade e lungo sentieri alla ricerca di una risposta che ponga fine ai suoi tormenti.
E’ un momento molto intenso, appassionante: vi ritroviamo la tragedia di Amleto, rispecchiata in quella di Sayat Nova. Infine la cupola che si muove in cerca di un punto fermo, ad un tratto cade a terra e si frantuma, si polverizza: non trova un monastero su cui poggiare. Passano gli anni, arriva la vecchiaia. Al monastero giunge la notizia che in città è comparso un nuovo poeta e che i suoi canti sono molto più belli di quelli di Sayat Nova. Si dice che sia bravissimo, e tutti già cantano le canzoni del giovane poeta. Per l’anziano monaco è come un richiamo: decide di fare ritorno nel mondo del canto per andare a sfidare quel poeta. Si mette in viaggio e lungo il cammino si ferma in un vecchio monastero per bere alla fonte che “dà la forza”. Ma mentre si trova lì dentro realizza che anche il monastero è corrotto: le sue visioni gli mostrano che il viso della Vergine è stato colpito e ora Maria non ha più volto. Ma se la madre di Dio ha perso la sua immagine, allora non c’è più un Dio che guarda, il mondo ha perso la sua innocenza, è diventato un mondo in cui non vale la pena scrivere canzoni d’amore perché Dio non guarda più… Un mondo volgare, senza senso. E così il vecchio monaco rinuncia alla sfida e ritorna al suo monastero. Alla fine del film viene mostrata l’invasione selvaggia di Agha Mohammed Khan, una delle più cruente invasioni che gli Armeni abbiano subito nella loro storia. E mentre viene bruciato il monastero, quando i khatchkar ardono, mentre ancora si appicca il fuoco, ecco la stupefacente soluzione cinematografica: Sayat Nova vede che un uomo, un muratore - sotto la cupola e in quella tragica situazione - continua a costruire il monastero, mattone su mattone. Quest’uomo, vedendo che il monaco lo osserva, gli dice: “Yerkì!”, cioè “Canta!” (frame 8). E lui inizia a cantare (frame 9). Poi gli dice “Merì!”, cioè “Muori!” (frame 10). A questo punto, logica vorrebbe che si assista alla morte di Sayat Nova. Ma invece è qui che il monaco, sia pure in forma simbolica, trova Dio: la cupola ha trovato il suo tempio. Il Dio che ha cercato vagando per tanti monasteri, percorrendo tante strade, studiando tanti libri, gli si rivela essere l’eterna creatività. Cosa recitano le prime parole della Bibbia? Non si riferiscono forse alla prima azione divina? Dio per prima cosa si è occupato di creare, egli crea il mondo. L’attività principale di Dio è quella della creazione. Così la voce del monaco resta tra quelle mura, il suo canto pervade quello spazio: egli canta (frame 11). Lo splendido monastero, le cui mura offese dalla spada musulmana essudano sangue, quel monastero ferito è in perpetua costruzione. Le anfore che vengono murate nella parete accolgono il canto conservandolo in eterno, affinché risuoni nel mondo (frame 12). Ecco, senza questi episodi noi vediamo nelle immagini de Il colore del melograno un film molto bello, affascinante, ma che ha perduto il suo senso. Noi gli abbiamo riconsegnato il suo significato.

V.V

 
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