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17 07 2007 - nordsud Mosca-Teheran via Armenia
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Lucia Sgueglia da LETTERA 22-Oggi sul Diario 22 Giugno 2007 -
“Correte a visitare l'Iran, è un paese meraviglioso, popolato da gente splendida e ospitale, e da qui arrivarci è facilissimo...”. A parlare non è un ufficio turistico del paese degli ayatollah in qualche capitale europea, preoccupato di tanta cattiva stampa che ne offusca l''immagine ultimamente.
Ma Lena Hakopian, armena cristiana nata e cresciuta a Teheran, sui 60 ben portati, sorriso inattaccabile sul volto paffuto che ricorda quello di Franca Ciampi, incorniciato da un foulard fiorato. Inglese sciolto, Lena è la guida che accoglie i turisti nella splendida Moschea Blu di viale Mashtotz 12 a Yerevan, da poco restaurata con fondi iraniani. Datata 1765, ai tempi in cui a comandare in Armenia era il Khan Ali Hussein, è l’unico tempio islamico rimasto in piedi in città (che un tempo ne contava 9) dopo l’epoca sovietica: leggenda vuole che fu risparmiato grazie al poeta Charentz, che dopo aver visitato questo luogo, isola di pace nel cuore della caotica “città rosa”, scrisse una lettera al partito comunista locale implorando di non distruggerla. E così fu. “La nostra cultura, le tradizioni e la lingua hanno molto in comune. E in Iran, a differenza che in Turchia - fa notare Lena con l’immancabile punta polemica verso l’eterno nemico - esiste grande libertà di culto per noi armeni”. Già, anzi gli armeni iraniani (dai 100 ai 200mila, 60mila solo a Teheran) sono dei privilegiati rispetto ad altre minoranze, persino quelle musulmane come curdi e
azeri: 10 chiese, 22 scuole, centri culturali e scientifici, i loro monumenti storici protetti e restaurati dal governo. Privilegi conquistati a inizio novecento, quando molti armeni scampati al genocidio in Turchia si rifugiarono in Iran, poi incrementati sotto lo shah Pahlavi che li vedeva come ambasciatori dell’occidente; e in parte conservati con la rivoluzione islamica di Khomeini,
che pure ne fece fuggire all’estero 100mila. Ancor oggi gli armeni d’Iran hanno un paio di rappresentanti nel Majlis, il parlamento iraniano, e gli è concesso distillare e vendere alcool. Insomma ci sono musulmani e musulmani.
Ma quanto c’è di iraniano a Yerevan? Una presenza discreta, quasi invisibile, che si mescola tranquillamente ai locali. Dei tremila studenti universitari persiani (qui li chiamano così) venuti a studiare nelle facoltà di medicina e al Politecnico, duemilacinquecento frequentano la moschea il giovedì. Con le sue tre biblioteche – una di 7000 volumi -, e il centro culturale per la promozione della lingua e della cultura persiana: gestito dall’ambasciata, attivissimo nell’organizzare mostre e convegni, da poco ha fatto tradurre per la prima volta il Corano direttamente in armeno. Intanto all’università fioriscono gli studi di iranologia. Dunque il paese più cristiano al mondo, che si vanta d’aver adottato per primo il cristianesimo come religione di stato, coltiva un’amicizia fraterna con il regno sciita e teocratico del “pericolo Ahmadinejad”, incubo di Washington e dell’amministrazione Bush. In tempi di isteria globale antiterrorismo, terrore nucleare e retorica anti-islamica montante in occidente, non è poco.
I legami storici e culturali però hanno un ruolo di secondo piano in questa storia. La chiave va cercata altrove, nella geografia. Uscendo dalla vitale e nottambula Yerevan in questo maggio assolato, puntiamo a sud entrando nella valle dell’Ararat, la visione magnifica della Montagna per eccellenza ci accompagna sulla destra: ormai in territorio turco, è una condanna alla nostalgia perenne per gli armeni. La nostra Bmw sobbalza facendo lo slalom tra decine di buche profonde e ravvicinate, rimpiangiamo la vecchia Niva Zhigulì, unica a spuntarla su queste strade. Ma nella prima parte del viaggio di veicoli ne incontriamo ben pochi. Da anni l’Armenia, la più piccola delle ex repubbliche dell’Urss, da sempre sul guado tra molti mondi, un tempo guardiana della Cortina di ferro a sudovest, combatte con un pesante blocco economico dovuto alla chiusura delle frontiere, due su quattro. A ovest cancelli sbarrati dal 1993 verso la Turchia, a est stessa solfa con l’Azerbaijan dopo la guerra del Nagorno Karabagh. Per dar ossigeno a un’economia asfittica e praticamente priva di export, la Georgia a nord fa da tramite verso il grande mercato russo.
Mosca è l’alleato numero uno per Yerevan, che ne ospita anche due basi militari. Con Tbilisi però, dopo la rivoluzione delle rose che l’ha spinta verso Usa e Nato, non corre ottimo sangue. E allora? Proseguiamo il nostro percorso sull’unica arteria che dalla capitale scende verso sud, tra montagne
spruzzate di neve e canyon verdissimi. Il traffico si infittisce sempre più:
una vera processione di tir e camion. Sono tutti targati Iran, si distinguono per l’allegro decoro delle cabine, pennacchi sonagli trombette luci colorate e scritte che inneggiano ad Allah. Molti trasportano grosse cisterne con su scritto “Bhutan gas”. Allah è grande, ripetono sorridenti i camionisti incrociando la nostra strada. Si, pensiamo, e a quanto pare avanza verso il Caucaso.
Su un passo ad alta quota, all’ombra di due enormi stipiti in pietra decorati come le porte di Babilonia, tre di loro fanno pausa pranzo, seduti su un tappeto nell’aria rarefatta dei 2000 metri. Ci invitano a condividere.
Parlano russo, vengono da Tabriz nel nord. Uno ha un figlio che studia ingegneria a Yerevan, dice che non gli dispiacerebbe trasferirsi in Armenia per un po’. Dello stesso parere, a quanto pare, sono i businessmen iraniani che negli ultimi tempi stanno investendo nel settore edilizio e bancario della
capitale armena, sono opera loro i nuovi complessi dal gusto geometrico apparsi nella zona di Cascade. Si mormora preparino un buen retiro per evacuare in caso di guerra a Teheran, che dista solo un’ora di aereo da Yerevan. Ma qui arrivano anche turisti in cerca di relax, e cittadini esasperati dai prezzi immobiliari alle stelle di Teheran. A Zaytun, sulle colline che circondano la città, ragazze velate di nero, le uniche intraviste in questo viaggio, scivolano nel portone del Collegio iraniano di Gamarak, dove condividono con gli armeni fango e miseria di periferia. Altri lavorano ai mercati generali verso Erebuni. Negli scaffali dei negozi abbondano stoviglie abbigliamento e attrezzature made in Iran.
Torniamo sulle strade. Snodo decisivo del traffico diretto in Iran è Meghri, cittadina armena a cavallo del confine che oggi vive un’incredibile fioritura. 15 anni fa c’era il filo spinato, ora di qui passano tutti gli scambi con il vicino: coda alla frontiera, bazar affollatissimo, continuo via vai di uomini e merci. Meghri è il principale punto di contatto col mondo esterno per l’Armenia dopo la Georgia, vitale per un paese sempre più strozzato dalle grandi manovre geopolitiche in corso nel Caucaso del sud da parte di Usa, Nato e Ue. Progetti milionari che finora hanno privilegiato Georgia e Azerbaijan, escludendo gli armeni: dai grandi corridoi energetici come l’oleodotto BTC
(Baku-Tbilisi-Ceyhan), dallo sviluppo di arterie di transito e trasporto est-ovest. Fino a ieri, tutto il gas arrivava in Armenia da Mosca, via Gazprom.
Poi Putin ha deciso di aumentare le tariffe anche ai fedelissimi armeni. Che fare? Da Meghri passa anche la salvezza energetica: il 19 marzo è arrivato Ahmadinejad, per inaugurare a fianco del presidente armeno Kocharian il nuovo gasdotto che da Tabriz (140 km) porterà il prezioso liquido in Armenia, costo 200 milioni di dollari. In cambio Teheran riceverà elettricità da Yerevan. A
metà 2007 dovrebbe entrare a pieno regime. Il sogno armeno è di prolungarlo oltreconfine verso nord: Georgia e Ucraina si sono dette interessate. Ma per ora la portata del condotto è piccola, non consente questi sviluppi. Tra i progetti congiunti irano-armeni anche una raffineria di petrolio, una ferrovia, una diga idroelettrica sul fiume Araxes che corre tra i due paesi, e perfino le fonti alternative: una centrale eolica costruita dall’Iran è aperta dal 2005.
In futuro, magari, cooperazione su sicurezza e difesa. Roba che potrebbe dar fastidio al Cremlino. Ma Putin non si è arrabbiato, è anzi passato al contrattacco conquistando l’appalto per la rete interna del gasdotto, col consorzio ArmRosGazprom.
Il volume d’affari tra Yerevan e Teheran resta ancora inferiore a quello con Mosca, che ha in mano quasi l’80% dell’economia armena e il monopolio in molti settori. Ma cresce a vista d’occhio: dopo Russia e Belgio l’Iran è oggi il terzo partner commerciale per l’Armenia. E tanti sorrisi tra i due paesi confinanti preoccupano Ankara e Washington. Poiché prospettano un asse nordsud Mosca-Teheran via Armenia, alternativo a quello estovest Baku-Tbilisi-Ankara-Washington che si sta creando nella regione. Dietro c’è la grande battaglia per il petrolio del Caspio. Proprio a questo punta il Cremlino, spezzare l’avanzata atlantista tendendo la mano a Teheran. Yerevan però si è dimostrata abilissima a mantenere buoni rapporti con tutti gli attori in gioco, in un esercizio di equilibrismo politico che ha del miracoloso. Non vuole alienarsi gli Usa, da dove arrivano cospicui investimenti e dove vive una ricca diaspora armena; mentre la Banca Mondiale le ha elargito quest’anno 235 milioni di dollari. Truppe armene partecipano alla coalizione a guida Usa in Iraq, ma anche se è nella partnership for Peace per ora Yerevan ha dichiarato di non voler entrare Nato, a differenza di Tbilisi e Baku. Sull’Iran, al Consiglio di Sicurezza Onu ha votato contro le sanzioni. Teheran da parte sua è in difficoltà con tutti i vicini, e vede nell’Armenia e nella sua potente diaspora un avvocato che può far lobby a suo favore nel contesto internazionale, proprio in quanto vicina politicamente a Usa e Ue. Secondo Julien Zarifian dell’Istituto francese di geopolitica a Parigi, «I due paesi si considerano a vicenda come un’apertura che può limitare il loro isolamento».
Non è un caso dunque, se l’8 maggio scorso l’ex presidente iraniano Khatami in visita in Italia ha chiesto di incontrare gli armeni d’Italia, mettendo in agitazione i responsabili del protocollo.
Il colloquio si è poi tenuto alla Casa Armena di Milano, dove i rappresentanti della comunità hanno ricordato il contributo di sangue dato dal loro popolo nella guerra scatenata da Saddam contro l’Iran, cui ogni anno le autorità persiane rendono pubblicamente omaggio.
“Durante il conflitto del Karabakh – chiosa l’infaticabile Hakopian - l’Iran fu l’unico paese ad aiutarci, mentre Mosca si schierò con gli azeri. Nessuno lo ha dimenticato”. Nei terribili inverni dal ‘91 al ‘93 in effetti da Teheran arrivarono cibo, uova, biscotti (e forse armi) “mentre a Yerevan bruciavamo alberi e porte per riscaldarci”.
L’eventualità di una guerra Usa contro Teheran? “Per i politici di qui è un tabù, nessuno ne parla. Ma per noi sarebbe una tragedia” sussurra un giovane funzionario di governo che preferisce restare anonimo.
V.V
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