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22 07 2007- Reportage dal karabagh
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Lucia Sgueglia -
Venerdi' 20 Luglio 2007
“Benvenuti nel libero Artsakh”: un semplice cartello sulla strada deserta che viene dall’Armenia avverte che stiamo entrando in Nagorno-Karabagh, l’antico
“giardino nero di montagna” dei re persiani. Nome turco-slavo che la dice lunga sui problemi di quella che oggi è un “isola” armeno-cristiana nel mare azero-musulmano. Per penetrarla dobbiamo attraversare il Corridoio di Lacin, esile cordone ombelicale che si allunga in mezzo al territorio ‘nemico’ dell’Azerbaijan, cui in epoca sovietica il Karabagh apparteneva. Alle spalle la madrepatria armena, che dal 1991 al 1994 supportò i ‘fratelli’ karabaki in una guerra contro Baku che lasciò almeno 30mila vittime. Davanti a noi, una strada liscia e perfetta: regalo della ricca diaspora armena a questa repubblica autonoma che solo Yerevan riconosce e, come altri stati-fantasma nati dall’implosione dell’Urss, ancora attende uno status.
Tra valli boscose, slogan d’orgoglio karabako illuminano lo spirito che a 12 anni dal cessate il fuoco ufficiale ancora anima questo luogo. Da un gabbiotto militari registrano senza domande il nostro ingresso. Subito dopo un posto di blocco: “non potete proseguire, sta per arrivare il Presidente”. Intorno a un piccolo monastero s’affollano famiglie e bambini col vestito della domenica, militari, poliziotti, cameraman: ricorre l’anniversario della conquista di questa striscia di terra. Per Arkady Gukasyan è uno degli ultimi interventi pubblici: ieri il ‘paese’ ha votato per un nuovo presidente, lui ha deciso di non ricandidarsi dopo un decennio di regno: “le elezioni dimostreranno che il Karabakh ha fatto grandi progressi democratici”. Tutti i politici locali aspirano all’indipendenza e a un riconoscimento internazionale; ma poco fa il Consiglio d’Europa ha ribadito l’appartenenza della regione a Baku. Questa dichiara il voto illegale, per “un regime separatista stabilito con la pulizia etnica’.
La cerimonia entra nel vivo, si distribuiscono medaglie ai veterani, memorie eroiche e patriottismo misto a speranza: «Abbiamo vissuto giorni difficili, ora stiamo ricostruendo. Per svilupparci servono pace e investimenti esterni».
Applausi da sacerdoti e protezione civile in divisa karabaka, poi la scena è di danzatrici e cantanti in costume tradizionale, l’atmosfera da festa campestre.
A servire bevande, panini e eghatà (tipico dolce karabako) c’è Lucia, restauratrice: “siamo lieti che siate qui, così vedrete che questo somiglia
quasi a un posto normale”. Hamlet che allena una squadra sportiva giovanile assicura: “qui nessuno muore di fame”. L’agricoltura fa il 90% dell’economia:
la fertile terra karabaka dà frutti deliziosi e vodka di classe. Molto finisce nell’export: Yerevan e Mosca, ma per vie semilegali anche Georgia e Azerbaijan.
La tappa seguente ci coglie impreparati: le macerie di Shushi, città-roccaforte simbolo della gloriosa resistenza ‘antiturca’. Tutti i giornalisti le appiccicano il cliché di città-fantasma. Nella piazza centrale, sul municipio semidiroccato si legge “Se la terra è di un popolo non può appartenere a un altro popolo”. Poche anime, niente sorrisi, bambini giocano tra edifici abbandonati, mendicanti si aggirano tra le rovine, comprese quelle delle numerose moschee dove un tempo pregavano gli azeri. Sono loro i veri fantasmi del Karabakh: tutti cacciati, sopravvivono da profughi nelle baraccopoli oltreconfine. Per secoli la città, che nel XIX secolo aveva 60mila abitanti, fu importante centro culturale multietnico: oggi è simbolo del fallimento della convivenza. Cerchiamo la Shushi Foundation, che secondo il sito web vuol rilanciare la città come ‘capitale culturale armena’, anche con un museo internazionale della fotografia. L’ufficio è sprangato. Da una vicina dimora nobiliare ‘turca’ ci invitano a entrare. Ashot Aratsunyan è direttore del Museo storico cittadino: “quelli di Erevan? Un anno fa vennero con tante belle promesse. Non li abbiamo più visti”. Negli occhi l’amarezza di chi è abbandonato dalla propria madre. Visitiamo la modesta esposizione.
Reperti archeologici dai dintorni, pannelli sulla vita artistica della vecchia Shushi coi suoi celebri divi teatrali: per hot “testimoniano l’antichità della presenza armena nella regione”. Il nefasto ritornello del “noi siamo arrivati prima”. Un plastico illustra la storia della battaglia di Shushi come epopea tra Davide e Golia: “eravamo pochi e coi fucili, loro tanti con carriarmati e rinforzi russi. Ma abbiamo vinto”. Ecco il cimitero armeno coi kachkar: “gli azeri lo avevano coperto di alberi per nasconderli”. L’odio è una pianta resistente. Aratsunyan ha famiglia, guadagna 100 euro al mese. Unica fonte di lavoro qui è il settore statale. Per fortuna c’è la diaspora: per le vie targhe ricordano le donazioni generose del businessman Vahe Karapetkian, come la nuova scuola d’arte per bambini. Ma senza una pace firmata è difficile avviare attività. E la maggior parte del budget statale va al vasto esercito karabako, la cui reale entità è un mistero. La presenza straniera è ridotta alle Ong
francesi.
Al tramonto, nella ‘capitale’ Stepanakert che ospita governo e parlamento, la guerra è invisibile. Ricostruzione compiuta, nel fervore edilizio brillano il nuovo Hotel Armenia e l’Artsakh-Bank. Per i viali fioriti del centro passeggiano militari a braccetto con fanciulle sorridenti. Nei supermercati prodotti da tutto il mondo: per chi può. Chi non può, come i coloni venuti dopo la guerra da Yerevan, fugge. Alle urne sono andati formalmente in 90mila, ma qui come in Armenia la demografia è un opinione.
Oggi su il manifesto 21/7/07
da Lettera 22
V.V
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