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29 07 2007 - Nagorno-Karabakh, la Svizzera caucasica sempre a un passo dalla guerra
da LA STAMPA del 27/7/07 GIULIETTO CHIESA
STEPANAKERT
Se dici Nagorno Karabakh nessuno sa dove si trovi. Stepanakert, poi, è la capitale di uno Stato che giuridicamente non esiste, ma che è abitata da 146
mila armeni in carne ed ossa che della giurisprudenza internazionale hanno imparato a fare a meno. Da quel tremendo 12 dicembre 1991 in cui proclamarono
l’indipendenza dall’Azerbaijan di Gheidar Aliev, ex membro del Politburo, buonanima. Loro, del resto, amano chiamare il loro paese Artsakh. Una Svizzera
straordinariamente bella in mezzo alle montagne del Caucaso che, in quel punto terminale, spiovente verso il Mar Caspio, s’ingentilisce e si copre di verde e
di un clima mite, dove i terremoti non si sono mai sentiti e visti.

Per arrivarci - da Erevan, capitale dell’Armenia - ci vogliono 360 chilometri di strada tutta tornanti e in stato precario. Altre vie di accesso non ci sono,
niente aeroporti. Tutte le altre strade sono chiuse dal momento della sanguinosa guerra che scoppiò subito dopo quel referendum, che gli armeni di Artsakh vinsero a man bassa, anche perché gli azeri non parteciparono. Una guerra combattuta per quattro anni, con sanguinose perdite da ambo le parti, che si dice abbiano superato i trentamila morti. Uno dei tanti teatri di guerra
che si accesero nell’agonia dell’Unione Sovietica. Adesso di azeri non c’è più l’ombra in tutto il Nagorno Karabakh, così come non un solo armeno vive in
Azerbaijan. Pulizia etnica reciproca, meticolosa e crudele, cominciata con i pogrom anti armeni di Baku e Sumgait, quando ancora la perestrojka di Gorbaciov
lasciava sperare in una riforma democratica dell’Unione Sovietica.

Torti e ragioni sono difficili da distribuire. Ma pensare oggi che si possa ritornare indietro, quali che siano i percorsi che vengono proposti, appare
impresa senza senso. «Furono gli azeri in fuga a bruciare e distruggere tutto, perché il nemico vincitore non potesse gioirne», dice chi ci accompagna. I fantasmi, vivissimi dopo quindici anni, delle migliaia di morti, si aggirano tra quelle montagne. Le case dei villaggi azeri sono ormai occupate da armeni.
Quelle che è stato possibile ricostruire. Le altre sono ancora come allora, con le loro finestre vuote, come mille occhi neri bruciati dagli incendi. La visita
di Sushi, la fortezza medievale che costituiva il centro spirituale di Artsakh, è spettacolo terribile di cosa è una guerra etnica. Di quella guerra non
sapemmo quasi nulla.

Condomini, ospedali, edifici pubblici sono ancora uno sparso agglomerato di rovine annerite dal fuoco e dalle bombe, crivellate dai proiettili e dalle schegge. Anche la splendida Chiesa del Salvatore ne fece le spese. Adesso l’hanno ricostruita, pietra su pietra, insieme all’altra perla della religione e della tradizione della Chiesa armena, quella intitolata a Giovanni Battista.
Mi portano a visitare anche l’unica Moschea di Sushi. In stato penoso. Una targa indica la data di costruzione: 1883. È in via di restauro, con i due
stupendi minareti sbocconcellati dalle granate. «Paga il governo di Teheran perché è una moschea persiana, cioè sciita, cioè non azera - mi fanno notare -
perché gli azeri sono sunniti». Altro equivoco tipicamente caucasico: gli azeri in realtà sono sciiti, ma per gli armeni dire sunniti è come dire «cattivi», e
quindi gli azeri - per definizione - sono sunniti e cattivi.

E Sushi è il monumento della vittoria sugli azeri: riassunto in tre feste che, tutte, vi convergono: quella della liberazione della città, il 9 maggio 1992,
quella della vittoria (sovietica) sul fascismo, e quella della creazione dell’esercito del Nagorno Karabakh. Sushi, divenuta azera, dominava dall’alto
Stepanakert armena, adagiata in fondo a una splendida valle verde. Per due anni i cannoni di Baku, e i cecchini annidati nei villaggi azeri costruiti a cintura attorno alla città, costrinsero gli abitanti della capitale a vivere nei sottoscala.

Una grande offensiva, alla quale parteciparono - si dice - circa 30 mila uomini, costrinse alla fuga l’esercito regolare azerbaijano. E da quel giorno
l’avanzata armena fu incessante, fino al 1994, quando fu Baku a chiedere il cessate il fuoco. Che rimane in vigore dopo 13 anni. Ovvio che gli armeni del
Nagorno-Karabakh non erano soli. Dietro di loro c’era l’Armenia intera, anche se ufficialmente non fu mai ammesso. Fatto sta che adesso il Nagorno Karabakh
non è più quello del 1991, ma molto più grande. Lo stretto corridoio azero di Laci, che lo separava dall’Armenia, è divenuto centinaia di chilometri di
montagne confinanti con la repubblica sorella. Qualcosa del vecchio territorio l’hanno perduto, molto hanno conquistato. Chiedo di andare a vedere la linea
del fronte, a Agdam, circa 30 chilometri a est. Mi rispondono cortesemente che non è possibile, «per la mia sicurezza». Non si spara, per ora. A Stepanakert
sono arrivato per assistere alla quarta elezione presidenziale di un paese fantasma. Percentuali di voto «sovietiche», ma procedura ineccepibile: cinque
candidati. Ha vinto Bako Sahakian con l’85% dei voti. È stato il capo del locale KGB in tutti questi anni.

Sulla piazza centrale, di fronte al palazzo presidenziale, in stile sovietico, si erge l’hotel Armenia, a cinque stelle, costruito con capitale armeno e russo. Dirimpetto è in costruzione un altro hotel di lusso, americano-armeno.
Il Governo Usa regala 8 milioni di dollari l’anno, facendo arrabbiare l’amica Baku. Mosca non regala niente, ma è amica e mediatrice. E molto amica di
Erevan. Il palazzo nuovo del Parlamento di Artsakh guarda entrambi sulla stessa piazza. La grande diaspora armena nel mondo finanzia la crescita. Nuovi negozi sono allineati sulla Azatamartikneri, la via dei combattenti per la lotta di liberazione. Loro stanno, armati, a difendere la loro indipendenza. Per quanto ancora? Nessuno lo può dire. Ma a Stepanakert non vale il principio che i confini degli stati sono intoccabili. Vale solo quello dell’autodeterminazione
dei popoli.

V.V

 
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