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29 10 2007 - La memoria per decreto imperiale
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la stampa 28-10-07
Non stupisce che il governo turco abbia reagito con collera alla mozione approvata il 10 ottobre dalla commissione Esteri del Congresso Usa: una
risoluzione che riconosce come genocidio i massacri sistematici subiti dagli armeni all’inizio del Novecento, culminati in sterminio razziale nel 1915-17. I governi turchi non hanno mai ammesso le responsabilità della nazione in quell’ecatombe, e tanto meno hanno accettato di darle i nomi - già attribuiti dalle Nazioni Unite nel ’48 e ’85 - di crimine contro l’umanità e genocidio.
Nel 1915 la parola ancora non era adoperata, lo sterminio degli ebrei non aveva avuto luogo e i testimoni ricorsero ad altri vocaboli che però dicono la stessa cosa. Alcuni parlarono di crimine contro l’umanità. Henry Morgenthau, ambasciatore americano presso la Sublime Porta nel 1913-16, denunciò uno
«schema attentamente pianificato mirante alla distruzione di una razza» e comunicò a Washington che i governanti turchi non nascondevano i propositi di
liquidazione. C’è poi una frase famosa, attribuita a Hitler anche se non confermata da fonti sicure. Nel 1939, rivolgendosi agli ufficiali della Wehrmacht, replicò a chi sconsigliava l’invasione della Polonia: «Chi parla ancora, oggi, della distruzione degli armeni?».
Fu dunque genocidio, e son rari gli studiosi che lo contestano. Viene riconosciuto come tale in più di venti Paesi e dentro la Turchia stessa - dove una legge punisce di attentato all’identità turca chi vede nei massacri un
genocidio - si moltiplicano le voci di chi vuole sia detta e ammessa la verità.
Fra queste c’è la voce di Orhan Pamuk, Nobel per la Letteratura: in patria è persona non grata.
Ma ci sono anche persone meno note in Occidente: la scrittrice e giurista Fethiye Cetin, il sociologo Ferhat Kentel, il giornalista armeno Hrant Dink, che dirigeva il settimanale Agos e che in gennaio è stato ucciso da fanatici nazionalisti. Non è dunque il fatto in sé, che nelle scorse settimane è stato messo in questione da più parti oltre che da Ankara. In questione è il diritto che hanno le nazioni di varare politiche della memoria al posto di altri popoli. L’esempio americano è recente, ma ad aprire la strada è stato il Parlamento francese. Nel 2001 Parigi ha riconosciuto il genocidio armeno e nel 2006 ha proposto una legge (non ancora approvata) che considera un reato
negarlo.
La decisione della commissione Esteri statunitense è opinabile non solo per motivi di opportunità strategica: perché ha inasprito il risentimento turco
contro Washington e spinto il governo Erdogan a «fare da sé» in Iraq, aprendo un nuovo fronte bellico contro i connazionali curdi che combattono Ankara a
partire dal Curdistan iracheno. La vera questione è un’altra, come si è visto:
se sia ammissibile che uno Stato legiferi sulle memorie altrui. Se non si tratti di una forma di imperialismo storico, come sostiene il giurista Laurent Pech, professore all’Università di Galway, in Irlanda.
La parola imperialismo è spesso usata senza discernimento, ma qualcosa di vero contiene: è vero che in Francia e poi negli Usa siamo alle prese con una politica della memoria fatta dall’esterno, al posto di Paesi che non senza
ragione vengono accusati di peccato di ammissione ma che non sono considerati capaci di imboccare da soli la strada della verità. La memoria, delicatissimo
ingrediente delle identità di ciascun individuo e popolo, diventa materia a disposizione, da utilizzare per fini che non concernono i popoli coinvolti. È
come se sui modi italiani di ricordare legiferassero altri. Come se la politica della memoria in Germania fosse divenuta feconda a causa dei vincitori della guerra, e non del lavoro dei tedeschi su se stessi. Come se il superamento della guerra civile spagnola, che proprio in questi giorni viene commemorata nelle leggi sulla memoria di Zapatero, fosse imposta dall’esterno.
Inoltre è un imperialismo storico peculiare, quello proposto negli Stati Uniti.
Nasce dalla pressione di lobby etniche, è il frutto di una civiltà multi-culturale fondata sulla separatezza delle molteplici comunità di cui l’America è composta. L’imperialismo della memoria è figlio di questa cultura comunitarista, che allinea etnie o religioni e le trasforma in lobby estremamente potenti, capaci di influire sulle scelte statunitensi di politica internazionale. Di simili gruppi di pressione l’America ne ha molti: quello ebraico è specialmente influente ma anche gli altri lo sono, dall’armeno al greco al polacco. Sono gruppi che non si fondono in una superiore unità repubblicana, che si guardano l’un l’altro in cagnesco: nei nazionalismi accade sempre così. Sono imbevuti di vittimismo, e tra vittime c’è frequentemente concorrenza. La politica estera americana risente di tale cultura comunitarista
e non a caso è regolarmente attratta da soluzioni spartitorie dei conflitti:
l’accordo di Dayton si basò sulla spartizione tra bosniaci, serbi, croati; l’Iraq rischia d’essere spartito tra sciiti, curdi e sunniti.
Quel che distingue simili gruppi di pressione è la lontananza dalle rispettive madri patrie e sono i miti tragici sui quali vivono. Fabbricate in diaspora, le narrative nazionali si esauriscono in apocalittici regolamenti dei conti tra vittime e carnefici: è il culto della tragedia che anima la politica israeliana, secondo la storica di rusalemme Idith Zertal (Israele e la Shoah.
La nazione e il culto della tragedia, Einaudi 2007). L’ideologia delle lobby è il vittimismo, ed è il duello inestinguibile con un carnefice che resta tale nei secoli, pur cambiando volto. I gruppi di pressione non badano a quello che
succede in patria, congelano la storia, sono refrattari alle riconciliazioni che nelle patrie rispettive sono invece indispensabili. La comunità ebraica in diaspora spesso si disinteressa agli sforzi di convivenza tra israeliani e palestinesi. Gli armeni all’estero sottovalutano la necessità, in loco, di dialogare coi turchi. La natura della lobby etnica o religiosa è chiusa, ha tutto il tempo e la comodità di occuparsi solo di sé. Spesso le grandi nazioni multiculturali lo sono solo in apparenza: non sono plurali, dalle molte identità. Sono un mosaico di micro-nazionalismi intrattabili, con poteri ma senza responsabilità. È il caso della società statunitense, e l’imperialismo storico di cui parla Pech è l’imperialismo di questi nazionalismi minuscoli.
Gli intellettuali che si battono per la verità in Turchia disapprovano il più delle volte questi interventi esterni. Li considerano non solo imperialisti ma controproducenti. Sembra avere dubbi Pamuk, quando in un’intervista a la Repubblica dice: «I cittadini del mio Paese dovrebbero sentirsi liberi di parlare di questa faccenda. È spiacevole che (essa) sia diventata un braccio di ferro internazionale, piuttosto che una questione morale riguardante la libertà di parola in Turchia». Lo stesso sostiene la scrittrice Cetin, secondo cui la mozione statunitense non favorisce ma complica il lavoro su se stesso del popolo turco. Non diverso il giudizio del sociologo Ferhat Kentel, a Istanbul:
adottate da Paesi stranieri, le leggi sulla memoria del genocidio armeno «rendono ancora più difficile, al popolo turco, il solo parlarne» (Sabrina
Tavernise e Sebnem Arsu, New York Times, 12 ottobre).
Ma il più duro contro questa espropriazione della memoria è stato Dink, negli anni che hanno preceduto il suo assassinio. Quando seppe che il Parlamento francese intendeva approvare una legge punitiva verso chi negava il genocidio armeno insorse: proprio lui che aveva combattuto per la verità attaccò i
legislatori francesi. Nell’ottobre di un anno fa, pochi mesi prima di essere ucciso, disse che sarebbe andato in Francia per contestare la legge e difendere
la libertà d’opinione per tutti: «Avrò contro di me sia il governo turco che quello francese», dichiarò. Lo scopo della politica della memoria è la verità
ma anche la riconciliazione e l’oblio ragionato: nel caso di Ankara è una diversa convivenza fra etnie (in Turchia vivono 60 mila armeni). Il culto immobile della memoria e la sola morale delle vittime non bastano a costruire una nuova, diversa coscienza di sé.
La politica della memoria fatta dall’esterno trascura molti aspetti delle tragedie, per opportunità politica. Trascura il fatto che i curdi parteciparono
in massa alla liquidazione degli armeni, e profittarono delle loro deportazioni. Trascura il fatto che tutte le comunità devono difendere ilproprio passato oscurato, ma metterlo in armonia con le altre componenti di unasocietà non multietnica ma, nella misura del possibile, unita e al tempo stesso
cosmopolita.
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V.V
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