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25 06 2008 - Legami di Egitto con l'Armenia
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Viaggio in Armenia (testi di Alberto Elli, foto di Leandro Ricci) Inviato da: Egittologia.net
11/12/2007 19.05
Ma anche i legami tra Egitto ed Armenia sono egualmente forti, anche se meno noti. Essi risalgono a tre millenni fa: basta, per questo, guardare le tre vetrine che nel Museo di Storia di Yerevan, la capitale dell’Armenia, contengono reperti egizi trovati sul suolo armeno e risalenti al tardo Nuovo Regno e oltre, quando il territorio faceva parte del regno di Urartu, che stabilitosi dapprima nell’Anatolia centrale si era poi espanso verso Est, dapprima fino al lago Van e quindi fino al lago Sevan, ai confini dell’odierno Azerbaidjan, fondando nel 782 a.C., col re Arghishti I (785-763), la roccaforte di Erebuni, nucleo primitivo dell’odierna capitale Yerevan. Ma i maggiori contatti tra Armenia ed Egitto si stabilirono a partire dall’XI secolo. Fu infatti nel 1073 che il califfo fatimide al-Mustansir (1036-1094) per ristabilire un po’ d’ordine in uno stato sempre più in sfacelo, sconvolto da lotte intestine, si rivolse all’armeno Badr al-Jamali, allora prefetto di Akka (San Giovanni d’Acri), affidandogli, su sua esplicita richiesta, i pieni poteri, ossia il diretto controllo sulle tre branche del governo, quella militare, quella religiosa e quella amministrativa. Una delle personalità più interessanti dell’Egitto fatimide, Badr al-Din al-Jamali non si lasciò abbattere dall’immensità del compito affidatogli e seppe ben presto rendere l’Egitto forte e prospero: con una serie di sanguinose battaglie, l’esercito di Badr si spinse fino alla prima cateratta, massacrando i ribelli e riportando l’ordine nel Paese. Con l’apparizione di Badr sulla scena egiziana iniziò il cosidetto periodo armeno dell’impero fatimide, durante il quale i Fatimidi furono dei fantocci nelle mani dei potenti vizir armeni. Venendo in Egitto, Badr aveva portato con sé le sue fidatissime truppe armene, che acquartierò al Cairo e fornì di luoghi di culto, spesso a spese dei Copti. Furono circa trentamila gli Armeni che in questo periodo si trasferirono in Egitto dalla Mesopotamia e dalla Siria, anche se l’esistenza di comunità armene in Egitto è attestata già alla fine del X secolo. Al Cairo i militari armeni si installarono prevalentemente nel quartiere di al-Husayniyya, sloggiandovi i Siriani che vi risiedevano. Fu Badr che fece circondare Il Cairo con una seconda muraglia, in pietra e non più in mattone; a questo nuovo complesso appartengono le tre possenti porte della città che ancor oggi destano la nostra ammirazione: Bab Zuwayla (dal nome di una tribù berbera), a sud, Bab al-Nasr (“Porta della Vittoria”) e Bab al-Futuh (“Porta delle Conquiste”) a nord, nei pressi della moschea di al-Hakim. Figlio di cristiani, benché personalmente musulmano, in campo religioso Badr era tollerante e durante il suo vizirato incoraggiò sempre l’immigrazione degli Armeni; nell’estate 1087 il katholikós armeno di Cilicia Krikor II Vkayaser (1066-1105) fece visita in Egitto, accolto coi più alti onori a corte e dalla gerarchia ecclesiastica copta. Badr morì nel 1095, dopo aver installato il figlio al-Afdal Shahanshah nel vizirato (1095-1121).
Altri importanti armeni di questo periodo furono i vizir Yanis (ucciso nel 1132) e Vahram Pahlavuni (in carica nei periodi 1135-1137 e 1139-1140); quest’ultimo, già capo della comunità armena in Egitto e governatore della provincia di al-Gharbiyya, era fratello del katholikós di Cilicia Krikor III (1113-1166); un altro suo fratello, Vassak, divenne governatore della città di Qus. Anche Vahram fece installare in Egitto migliaia di suoi connazionali, molti dei quali occuparono importanti posti di governo. Questo continuo crescere in prestigio della comunità armena causò non lievi dissensi con la comunità copta e Vahram dovette lasciare la sua carica e trovare rifugio nel Dayr al-Abyad, il celebre Monastero Bianco di Atripe, presso Sohag, fondato dal monaco Shenute nel V secolo, la cui proprietà era stata nel frattempo acquistata dalla comunità armena. Un cenno meritano anche l’ufficiale armeno Al-Salih Talai ibn Ruzzik (ucciso nel 1161), divenuto prefetto delle province di al-Ashmunayn e di al-Bahnasa, e il di lui figlio al-Adil Ruzzik (deposto nel 1163), entrambi assurti alla carica del vizirato, coi titoli rispettivamente di al-Malik al-Salih e di al-Malik al-Adil. Al-Malik al-Adil fu l’ultimo dei potenti vizir armeni di questo periodo.
Ma i rapporti tra l’Egitto e l’Armenia non ebbero luogo solo nella terra del Nilo. Ben più sanguinosi furono quelli che videro contrapposti gli Armeni di Cilicia ai sultani mamelucchi d’Egitto. Nel 1266 il sultano Rukn al-Din Baybars (1260-1277) mosse contro la Cilicia, dove dalla seconda metà dell’XI secolo si era dapprima formata una “baronia” e quindi un regno armeno (noto come Regno Armeno di Cilicia o Piccola Armenia), per punire il re Hetum I (1226-1270) dell’aiuto dato nel 1259-1260 ai Mongoli, mortali nemici dei mamelucchi. Il 24 agosto 1266 l’esercito mamelucco, al comando di al-Malik al-Mansur, principe di Hama, assistito da Qalawun, il più capace degli emiri di Baybars e futuro sultano, sconfisse in Cilicia l’esercito armeno, comandato dai due figli di re Hetum, i principi Thoros e Levon: il primo fu ucciso in battaglia, mentre il secondo fu catturato. Tutta la Cilicia fu messa a ferro e fuoco e la stessa capitale armena Sis fu saccheggiata. Nel 1275 Baybars si spinse ancora a nord, in Cilicia: dopo aver sconfitto le truppe di re Levon III (1270-1289), conquistò e dette nuovamente alle fiamme la capitale Sis (30 marzo); Adana, Ayas e Tarso subirono identica sorte.
Nel 1291 il sultano al-Malik al-Ashraf Salah al-Din Khalil (1290-1293), dopo aver liberato tutta la costa palestinese della presenza dei Franchi e aver così risolto per sempre la “questione Crociati”, mosse contro la Piccola Armenia, per punire gli Armeni dell’aiuto da loro prestato ai Crociati (a motivo della comune fede cristiana e nonostante le diversità di Credo, gli Armeni di Cilicia erano stati infatti tra i loro più fedeli sostenitori). La roccaforte di Qalat al-Rum (odierna Rum Qalesi, era chiamata Hromgla dagli Armeni ed era la residenza del loro katholikós), possente fortezza armena situata all’ovest dell’Eufrate, in faccia ad al-Bira, tra questa città e Sumaisath (Samosata), venne investita dalle forze mamelucche e conquistata dopo trentatré giorni d’assedio; il katholikós Ter Stepanos IV (1290-1293), numerosi vescovi e sacerdoti e una gran moltitudine di Cristiani vennero fatti prigionieri e condotti a Damasco.
Nel 1375 il sultano al-Ashraf Nasir al-Din Shaban (1363-1377) riuscì a dare il colpo di grazia al regno armeno di Cilicia: Levon VI di Lusignano (1374-1375), ultimo re d’Armenia, venne catturato dall’emiro di Aleppo con tutta la sua corte, portato in Egitto e tenuto prigioniero nella Cittadella, dove rimase fino a che le potenze cristiane europee non pagarono un ingente riscatto per il suo rilascio: nel 1382, dopo sette lunghi anni di prigionia, Levon V si trasferì così a Parigi, dove morì nel novembre1393 e fu sepolto nell’abbazia reale di Saint-Denis.

Benché la presenza armena in Egitto non fosse mai venuta meno – una comunità armena, composta prevalentemente da mercanti, risiedeva stabilmente ad Alessandria e al Cairo – occorre aspettare il XIX secolo per vedere gli Armeni riprendere quella posizione di prestigio che già avevano occupato ai tempi di Badr al-Jamali. Attirati dal clima di libertà e di apertura instauratosi dopo la presa del potere da parte di Muhammad Ali (1805-1849), molti cristiani orientali, per lo più Armeni, Greci, Siri e Libanesi, si trasferirono in Egitto ed entrarono anch’essi nella burocrazia del nuovo viceré, che non esitò a utilizzare le loro capacità e a concedere ad alcuni di essi anche il titolo onorario di “Bey”. L’Armeno Boghos Bey Yusufian (1768-1844), arrivato in Egitto nel 1810, divenne dapprima direttore della dogana di Alessandria, quindi consigliere economico di Muhammad Ali e infine direttore degli Affari Esteri. Grazie alla sua influenza presso il viceré, Boghos divenne il patrono di altri Armeni, che assursero ad alte posizioni governative negli anni 1840, quali Artin Bey Cherakian, direttore degli Affari Esteri tra il 1844 e il 1850, Garabed Nubarian e Arisdages Altune Duri. Sarà poi il khedivé Ismail Pasha (1830-1895; khedivé 1863-1879) il primo a conferire il titolo di “Pasha” all’armeno Boghos Nubar Nubarian (1825-1899), primo cristiano a ricevere questo importante titolo onorifico (è infatti noto come Nubar Pasha). Per ben tre volte nella sua lunga carriera politica (1878-1879; 1884-1888; 1894-1895), Nubar Pasha occupò la carica di Primo Ministro del governo egiziano. Anche il figlio Boghos Nubar Pasha (1851-1930) divenne un’influente personalità della folta comunità armena in Egitto del primo XX secolo.

Come si può notare dal succinto riassunto surriportato, i rapporti tra Egiziani e Armeni sono stati tutt’altro che superficiali. Ma per me un altro armeno d’Egitto è stato ed è ben molto più importante dei personaggi citati: il mio carissimo amico Mkrtitch “Battista” Papazian, detto “Migo”. Amici di lunga data – ci siamo conosciuti nel 1991 – è lui, direttore di un’agenzia di viaggio al Cairo, che organizza tutti i miei giri nella Valle del Nilo. Ed è ancora lui che da anni continuava a invitarmi a non limitare i miei viaggi all’Egitto (ormai son 24), ma a considerare anche la possibilità di visitare la sua amata terra, l’Armenia. Finalmente, la sua insistenza, coniugata al fatto che nel frattempo avevo cominciato a interessarmi anche delle diverse cristianità orientali, l’ha avuta vinta e il 24 aprile 2007 sono partito, con un gruppetto di amici e amiche, per l’Armenia. Ritrovo all’aeroporto di Malpensa e imbarco per Vienna. Da qui, raggiunti da un ulteriore amico proveniente direttamente da Roma, ci siamo imbarcati sul volo per Yerevan, la capitale della Repubblica Armena, dove siamo arrivati nelle primissime ore del 25 aprile, accolti all’aeroporto di Zvartnots con cordialità da Migo (era più emozionato di me, visto che dall’Armenia mancava fin dal 1974!) e da … un’energica nevicata! Da noi l’inverno più caldo degli ultimi anni, in Armenia quello più freddo!
Dopo aver raggiunto l’albergo, sistemati i bagagli in camera e esserci concesso un breve riposo, abbiamo dato il via a una serie impressionante di visite che in quattordici giorni (la stragrande maggioranza dei turisti dedicano al massimo solo 7 o 8 giorni all’Armenia) ci ha portato a scorazzare in tutti i più riposti meandri del Paese, alla ricerca di quelle meraviglie architettoniche del periodo medievale che sono i monasteri e le chiese di Hayastan, come i locali chiamano la loro terra (così denominato da Hayk, discendente di Noè e mitico progenitore del popolo armeno).


Guidati dalla splendida Shushan, la nostra efficientissima guida, il primo incontro con questa nuova civiltà è stato nel Matenadaran, la biblioteca per antonomasia, che custodisce i più preziosi tesori della produzione scrittoria dell’Armenia: migliaia e migliaia (solo però una piccola frazione è accessibile al pubblico) di manoscritti illuminati, alcuni enormi, altri piccolissimi, tutti però preziosi testimoni di una cultura antichissima (Yerevan, fondata nel 782 a.C., è più antica della nostra Roma). Davanti alla biblioteca sorge la statua di Mesrob Mashtots, il santo monaco al quale la tradizione attribuisce l’invenzione, nel 405, dell’alfabeto armeno, evento di capitale importanza per la storia successiva del Paese: la creazione di un alfabeto per la lingua locale, infatti, permetterà di sostituire il greco e il siriaco, non compresi dalla popolazione, nella pratica liturgica, di tradurre la Bibbia e le altre opere religiose; ciò ha permesso inoltre di preservare un gran numero di scritti teologici antichi i cui originali sono scomparsi, ma soprattutto di produrre una letteratura e una storiografia nazionali, garanti dell’identità e della memoria della nazione.



Quindi visita al Museo di Storia, dove la mia attenzione è stata naturalmente attratta dalle vetrine con reperti egizi di cui già ho parlato, e alla Galleria di Arte Nazionale, la più grande dell’ex-impero sovietico dopo Mosca e Leningrado (San Pietroburgo).
Il giorno dopo, di buon mattino, ha visto il primo incontro con l’aspetto prettamente architettonico del nostro viaggio, con la visita ai siti più sacri della storia dell’Armenia cristiana. Avendo, secondo la tradizione, adottato ufficialmente il cristianesimo quale religione di stato nel 301, l’Armenia si gloria giustamente di essere stata la prima nazione cristiana al mondo. Nel 2001 è stato celebrato con solennità il 1700° anniversario dell’adozione del cristianesimo e per l’occasione anche il papa Giovanni Paolo II ha presenziato all’inaugurazione della nuova cattedrale di Yerevan, dedicata a san Grigor Lusavoritch, Gregorio l’Illuminatore, l’evangelizzatore dell’Armenia; in dono, il pontefice romano ha portato una reliquia del santo proveniente dalla chiesa di San Gregorio Armeno di Napoli. Il primo impatto è stato con la cattedrale cosiddetta “circolare” (in effetti, a 32 lati) di Zvartnots, nella regione (marz, in armeno) di Armavir, ad ovest di Yerevan: benché in rovina, i suoi resti sono sempre impressionanti.


Quindi con le vicine chiese di santa Hripsimé (curiosamente, questa santa è venerata anche in Etiopia; mi piacerebbe parlare anche dei rapporti tra Etiopia ed Armenia, ma ciò mi porterebbe troppo lontano) e di santa Gayané e con la cattedrale di Etchmiadzin. Le vergini Hripsimé e Gayané, insieme con 37 compagne, furono martirizzate dal re armeno Tiridate III nel 301: con loro il cristianesimo armeno si tinge del colore rosso del sangue dei martiri e il martirio resterà sempre una sua caratteristica fondamentale; sottoposti, nella loro lunga vicenda storica, a regimi pagani (i persiani mazdeisti), poi musulmani (arabi, persiani, selgiuchidi, mongoli, ottomani, …) e infine atei (quello sovietico), gli Armeni pagheranno sempre caro il loro tenace attaccamento alla fede cristiana, fino a passare per la tragica porta del genocidio. È stato scritto che un armeno può essere anche ateo o agnostico, cosa comunissima dopo lo sfacelo religioso causato dall’oppressione bolscevica (per settant’anni tutte le chiese d’Armenia sono state chiuse e trasformate in musei o magazzini, con l’eccezione della cattedrale di Etchmiadzin), ma un armeno non-cristiano è impensabile; l’essere cristiano fa parte del DNA di questo fiero popolo; tutti, anche i non praticanti, sono orgogliosissimi delle loro radici cristiane.
La cattedrale di Etchmiadzin, il “luogo dove l’Unigenito è disceso”, è la chiesa più sacra di tutta l’Armenia (gli Armeni la chiamano con rispetto “la Sede Madre della santa Etchmiadzin”): secondo la leggenda, Cristo stesso, disceso dal cielo lungo un raggio di luce, avrebbe mostrato a san Gregorio l’Illuminatore, colpendo il terreno con un martello d’oro, il luogo dove la chiesa sarebbe dovuta sorgere. Nella sua forma attuale non è però più quella originale del IV secolo, ma risale al VII secolo, con aggiunte posteriori. Tutt’attorno alla cattedrale sorgono splendidi khatchkar, le “pietre (a forma di) croce”, alcuni elaboratissimi, uno dei prodotti più caratteristici dell’arte religiosa armena, che a migliaia (circa 40 mila sono quelli conservati) segnano con la loro presenza il carattere cristiano del territorio armeno. Insieme coi monasteri, essi sono l’espressione del carattere eterno – la pietra, come lo era in Egitto, è anche qui simbolo di eternità – della loro opzione storica in favore del Cristianesimo. Grazie alle conoscenze di “Migo il Mago”, come il mio amico è stato subito soprannominato, siamo riusciti a vedere anche i tesori conservati nel Museo che è sito nella residenza stessa del katholikós di tutti gli Armeni, di fronte alla cattedrale stessa. Solitamente, ci vogliono settimane per ottenere il permesso…, quando lo concedono!

Dopo aver visitato altri siti di Yerevan e dintorni, come la fortezza di Erebuni e il relativo museo, la città di Sardarapat col suo interessantissimo museo etnografico (in questa località, nel maggio 1918 le forze armene hanno combattuto vittoriosamente una eroica battaglia contro l’esercito turco, che voleva esportare anche nell’ex-Armenia zarista la tragica esperienza del genocidio; il 28 maggio 1918 è la data ufficiale di nascita della prima Repubblica d’Armenia, soppressa però dopo solo un paio d’anni dall’invasione bolscevica), ha preso inizio il nostro tour itinerante dell’Armenia. Prima sosta, il suggestivo monastero di Khor Virap “Pozzo profondo”, sito strettamente legato all’adozione del cristianesimo in Armenia: qui, infatti, secondo la tradizione, il re Tiridate III, prima della sua conversione, aveva confinato Gregorio l’Illuminatore per lunghi 13 anni, per il suo rifiuto ad adorare gli dei pagani. Ancor oggi, nella chiesetta dedicata al santo, una scaletta in ferro permette di accedere al celebre pozzo. Posto su una piccola collinetta che si erge dalla pianura, a sud della capitale, a poche decine di metri dal confine, chiuso, con la Turchia, il monastero è dominato dalla possente mole dell’Ararat, il vulcano spento che coi suoi 5165 m si erge maestoso dietro di esso. Monte sacro agli Armeni e luogo dove si sarebbe deposta l’Arca di Noe dopo il diluvio, anche l’Ararat si trova oggi incorporato nel territorio turco.
Dopo aver passato il passo di Tukh Manuk, accompagnati dalla neve che cadeva leggera, siamo scesi nella regione di Vayots Dzor, dove abbiamo visitato il monastero di Noravank, costruito nella gola dell’Amaghu ed uno dei più visitati tra i monasteri armeni. Splendidi tutti i monumenti che compongono questo gioiello di architettura monastica, ma addirittua affascinante il mausoleo-campanile di Sourb Astvatsatsin, “Santa Madre di Dio”, a due piani, il cui secondo piano, la chiesa vera e propria (il piano inferiore e stato utilizzato quale mausoleo per i principi della famiglia Orbelian) è accessibile solo da due strette scale poste a sbalzo sulla facciata. Terminata nel 1339, la chiesa è l’ultima opera del celebre architetto Momik.



Attraversato il passo di Vorotan (2344m) e prima di arrivare a Goris, nella regione meridionale di Syunik, dove abbiamo trascorso la notte, c’è stato ancora tempo per visitare il sito archeologico di Karahundj, la Stonehenge d’Armenia: una distesa di 204 pietre ritenute costituire una specie di osservatorio astronomico risalente almeno al V-III millennio a.C.
Il mattino successivo ci ha visto arrancare col nostro pulmino, guidato con estrema perizia dal simpaticissimo Mays, verso il monastero di Tatev. Piuttosto piccolo, collocato su uno sperone roccioso e protetto da impressionanti scarpate, è difficile immaginare come questo centro monastico, divenuto un importantissimo centro di insegnamento, avesse ospitato, al culmine del suo splendore, tra i secoli XIV e XV, ben mille persone. Dopo la chiusura nel 1338 di Gladzor, prima università armena, fu infatti Tatev a diventare il principale centro universitario d’Armenia, dove, con un curriculum che durava dai 6 agli 8 anni, si insegnavano teologia, filosofia, retorica, grammatica, poesia, pedagogia, letteratura, storia, calligrafia, miniatura, affresco, musica, …



Lasciato Tatev e ritornati a Goris, abbiamo proseguito con la visita del villaggio trogloditico di Khndzoresk (già ne parlava Senofonte nell’Anabasi), abitato fino al XIX secolo: scesi nella gola rocciosa, abbiamo girato tra i ruderi della chiesa del villaggio, e abbiamo visitato alcune delle case scavate nella roccia, spingendoci fino a un’eremo dove abbiamo trovato la tomba di Mkhitar sparapet, luogotenente e successore di David Bek, eroe della guerra contro i Turchi, qui ucciso a tradimento nel 1730.
Attraversato il confine col Nagorno Kharabagh, il “giardino nero montagnoso”, che gli Armeni chiamano Artsakh, ne abbiamo raggiunto la capitale Stepanakert: dappertutto il segno delle distruzioni, retaggio della guerra di indipendenza contro l’Azerbaidjan. Enclave armena in territorio azero – “dono” di Stalin ai musulmani per farseli amici -, dopo il crollo dell’Unione Sovietica il Nagorno Kharabagh ha dovuto conquistare con la forza delle armi, aiutato in questo dalle forze armene, il suo diritto alla libertà. Il giorno dopo, visitato l’interessante monumento noto universalmente come Mamik yev Babik (qualcosa come “Nonna e Nonno”), il cui nome ufficiale è però “Noi siamo le nostre montagne”, simbolo dell’unione del popolo kharabagho con le proprie montagne, siamo andati a visitare il celebre monastero di Gandzasar, “Montagna del Tesoro”, con gli splendidi rilievi della sua chiesa dedicata a san Giovanni Battista. Abbiamo quindi deciso di raggiungere anche il monastero di Dadivank: splendido, ma posto al termine di una strada impossibile e il cui accesso abbiamo pagato successivamente con una duplice foratura! Alle dieci di sera eravamo infine di ritorno all’albergo di Stepanakert, stanchi ma soddisfatti!


Il giorno successivo si è rivelato uno dei più “pieni” e interessanti di tutto il giro: ritornati a Goris, abbiamo proseguito verso il sud: dopo una sosta al monastero di Vahanavank e al passo di Meghri (sulle carte segnato anche come passo di Tashtun; 2535 m) – splendido il panorama, con le cime montuose coperte di neve -, siamo infine arrivati a Meghri, al confine con l’Iran, accolti con squisita ospitalità dai parenti della “nostra” Shushan, che del luogo è originaria. Dopo una visita alle interessantissime chiese della cittadina, ricche di affreschi, e una sosta in una trattoria del luogo, abbiamo ripreso la via del ritorno: il passaggio del passo di Meghri, rischiarato da una stupenda luna piena, è stato un momento colmo di fascino. Alle due e mezza di notte eravamo nuovamente a Goris.


Il nord dell’Armenia ci attendeva: così, ripartiti da Goris e dopo una breve visita alla cascate di Shaki (erano “spente”, in quanto il bacino che le alimenta viene solitamente utilizzato per la produzione di energia elettrica, ma “Migo il Mago” ha ottenuto uno strappo alla regola per i suoi amici italiani…), abbiamo ripassato il passo di Vorotan, che mette in comunicazione le regioni di Syunik e Vayots Dzor, e quindi il passo di Selim (poco prima del passo, ricoperto di neve, una breve sosta allo splendido caravanserraglio del XIV secolo; da qui passava la mitica Via della Seta), scendendo nel Gegharkunik, regione che accoglie il grande lago di Sevan. Sottoposto, negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, a un abbassamento forzato del suo livello ai fini di produzione di energia elettrica, si sta ora cercando di recuperare, tra enormi difficoltà, lo scempio che tale intervento umano sull’ambiente naturale ha provocato (gli altri due grandi laghi dell’Armenia storica, i laghi di Van e di Urmia, si trovano ora rispettivamente in Turchia e in Iran). Le sponde del lago di Sevan sono ricchissime di siti monastici o, comunque, di interesse culturale. Abbiamo dovuto pertanto limitare le nostre scelte. Irrinunciabile è stata tuttavia la visita al campo di khachkar di Noratus, sulla sponda occidentale, uno dei luoghi più suggestivi di tutta l’Armenia: quasi 900 di queste enormi pietre, ancora in situ, con la faccia principale rivolta ad ovest, testimoniano la fede incrollabile di un popolo che neppure il genocidio è riuscito a domare. E il pensiero corre intrattenibile e con rabbia alle distruzioni che tra il 2001 e il 2006 sono state compiute nel Nakhicevan (enclave dell’Azerbaidjan, separata dalla madre patria, e posta a sud-ovest dell’Armenia): più di tremila di questi simboli religiosi, alcuni veri e propri capolavori d’arte, sono stati volutamente spianati coi bulldozer. Tali distruzioni, inizialmente negate dai loro esecutori, sono inconfutabilmente testimoniate da una impressionante serie di fotografie prese dal vicino confine iraniano. Gli azeri le hanno allora ufficialmente motivate con la necessità di creare spazi per strutture militari, ma è evidente che la vera ragione di questi scempi culturali nascono solo dall’odio verso gli Armeni e la loro fede. E distruzioni simili sono avvenute anche nella stupenda città di Ani, la capitale dell’Armenia al tempo della dinastia Bagratuni (secc. IX-XI), la “città dalle mille e una chiesa”, ora in territorio turco. Quando nel 1921, al termine della Prima Guerra Mondiale, fu stabilita la frontiera con la Russia, i Turchi, nella persona del generale Kiazim Karabekir, chiesero, ed ottennero, che Ani – della quale riconoscevano l’insignificanza economica, militare e geografica – venisse assegnata alla Turchia, per la sola ragione che gli Armeni avrebbero dovuto piangere a vedere la loro vecchia e splendida capitale al di là del confine!
La visita al monastero di Hayravank ha segnato la chiusura di un’altra giornata memorabile.


Anche quella successiva è stata altrettanto memorabile, colma di visite a monasteri famosissimi e affascinanti. Dapprima c’è stata la visita alle due splendide chiesette di Sourb Arakelots (“Santi Apostoli”) e di Sourb Astvatsatsin (“Santa Madre di Dio”): in origine su un’isola, ora, con l’abbassamento del livello del lago, sorgono su una penisoletta che si protende nelle fredde acque dalla sponda occidentale.


Attraverso il tunnel Margahovit siamo quindi penetrati nella regione di Tavush, dove abbiamo visitato i due celebri monasteri di Goshavank e di Haghartsin, che ai loro tempi furono anche centri di cultura nazionale oltre che religiosa. Impossibile rimanere insensibili davanti alle delicate filigrane dello splendido khachkar di Poghos (Paolo), del 1291, uno dei capolavori di questa espressione artistica così tipicamente armena.



Passati poi nella regioni di Lori, il pomeriggio è stato dedicato alla visita di due dei più conosciuti monasteri armeni, quelli di Haghpat e di Sanahin, che dal 1996 fanno parte dei siti classificati dall’UNESCO quale “patromonio universale”. La fortuna aiuta gli audaci: il giorno dopo, infatti, la strada è rimasta interrotta per una frana, isolando così i monasteri. La notte l’abbiamo trascora a Vanadzor, l’antica Kirovakan (come tante altre località armene, anch’essa ha cambiato il suo nome dopo la caduta dell’Unione Sovietica e la riconquista dell’indipendenza).



Fig. 16 - Il monastero di Haghpat


Il giorno dopo abbiamo puntato a nord: dapprima verso Spitak, poi verso Gyumri (chiamata Leninakan nel periodo sovietico e Alexandropol al tempo degli zar), nella regione di Shirak. Ancora dappertutto visibili, nonostante i continui lavori di ricostruzione, le devastazioni prodotte dal terremoto del 7 dicembre 1988 quando in pochi secondi, dopo le 11.41 ora locale, la morte ha mietuto il suo terribile raccolto su questa povera terra. Costruite all’epoca bolscevica senza tener conto delle benché minime norme antisismiche, quasi il 60% delle costruzioni sono crollate alle prime scosse, e tra queste anche scuole e ospedali. Dopo una visita al Teatro e al Museo di Gyumri, e successivamente allo splendido monastero di Marmashen, su una strada impossibile e su un pulmino locale adatto a quei fondi stradali sconnessi, siamo ripartiti puntando a sud, verso Yerevan, raggiunta in serata. Nel tragitto, tuttavia, non sono mancate altre suggestive soste, alle chiese di Mastara e Talin, nella regione dell’Aragatsotn (i “piedi dell’Aragats”, cosiddetta perché comprende le terre attorno al monte Aragats, che coi suoi 4095 m è la più alta montagna dell’attuale Repubblica d’Armenia).

Negli ultimi tre giorni abbiamo compiuto visite partendo da Yerevan, dove rientravamo alla sera. Sabato 5 maggio siamo andati ad ovest, nella regione di Kotayk. Abbiamo dapprima visitato il tempio ellenistico-romano di Garni, l’unico tempio pagano conservatosi, gli altri essendo andati distrutti nella lotta contro il paganesimo. Dal tempio, siamo poi scesi nella profonda gola che lo circonda su due lati, caratterizzata da affascinanti e impressionanti formazioni rocciose: regolari colonne di basalto a sezione esagonale, simili a quelle della Giant’s Causevay in Irlanda o di Fingal’s Cave in Scozia.


Punto forte della giornata è stata però la visita a Geghardavank (“Monastero della Lancia”, cosiddetto poiché qui era conservata la punta della lancia che secondo i Vangeli aveva trapassato il costato di Cristo; dal 1687 è custodita nel Museo della cattedrale di Etchmiadzin), uno dei principali siti dell’Armenia e anch’esso parte, dal 2000, della UNESCO World Heritage List. La parte più impressionante di questo monastero è quella ipogea, scavata, su due livelli, nella parete rocciosa alla quale sono addossati la chiesa principale e il suo gavit (nartece): sale usate sia come luogo di culto che come sepoltura per i membri della famiglia principesca dei Proshyan, i mecenati di questa splendida opera.


Domenica 6 maggio: giornata tutta cittadina. Al mattino visita al celebre Vernissage, il mercatino delle pulci tenuto nei fine settimana, dove è possibile trovare di tutto. E per chi voleva, anche la possibilità di assistere alla celebrazione della Santa Messa, secondo il rito armeno: una funzione lunghissima, più di due ore, ma coinvolgente per l’armonia dei canti (eccezionale la soprano!) e la ricchezza dei riti liturgici. Nel primo pomeriggio c’è stata poi la visita più emozionante di tutte: quella al Museo e al Mausoleo del Genocidio, sulla collina di Tsitsernakaberd, la “Fortezza delle Rondini”, nella parte ovest della capitale. La visita, che prende inizio con le foto e i documenti sconvolgenti conservati nel Museo, continua con la sosta in preghiera presso il Mausoleo, dove arde il fuoco eterno in memoria dei quasi due milioni di Armeni sacrificati dal primo genocidio che la barbarie umana ha ideato nel XX secolo. Il 24 aprile di ogni anno, centinaia e centinaia di migliaia di Armeni provenienti dal tutto il mondo si radunano sull’immenso piazzale in un mesto ricordo per tante vite perdute. E per me, davanti allo splendido viso di una dolce ragazza armena segnato dal pianto, la bella Shushan, è stato impossibile non sentire un intimo coinvolgimento emotivo con le tragiche vicende di questo indomito popolo, non provare una lacerazione dell’anima per tutte le atrocità che noi, nazioni cosiddette “cristiane” alle quali gli Armeni guardavano con speranza, non siamo stati capaci di impedire e non abbiamo, grettamente, voluto impedire.


E così è arrivato anche il 7 maggio, ultima giornata del nostro viaggio. L’inizio è stato piuttosto “allegro”, con la visita, e successiva triplice degustazione, alla fabbrica del brandy: fondata nel 1887, ora è stata acquistata dalla compagnia francese Pernod Ricard. Quindi, cercando di essere il meno traballanti possibile (l’autista, l’efficientissimo Mays, è stato tenuto a debita distanza dalla sala di assaggio!), siamo andati ancora nell’Aragatsotn, per terminare la nostra “indigestione” (personalmente, non mi sentivo tuttavia affatto sazio…) di monasteri, con la visita ad Hovhannavank (“Monastero di Giovanni”) e Saghmosavank (“Monastero dei Salmi”) e alle tre splendide chiesette di Karmravor, Spitakavor e Tsiranavor, i cui nomi (rispettivamente “rossastra”, “biancastra” e “color albicocca”) richiamano il colore delle pietre che le costituiscono. Abbiamo poi cercato di raggiungere la fortezza medievale di Amberd, ma la neve che ostruiva la strada non ci ha concesso che di fermarci ad osservare da lontano e con rammarico la sospirata meta (sarà per un’altra volta!). L’ultima visita in programma è stata significativamente la chiesa Sourb Mashtots di Oshakan, piccolo villaggio a sud della città di Ashtarak, città che ai suoi tempi d’oro era stata anche capitale; in questa chiesetta, allietata da affreschi recenti, si trova la tomba di Mesrob Mashtots, l’inventore dell’alfabeto armeno.
Iniziata con la visita alla biblioteca del Matenadaran e terminata a Oshakan, il nostro lungo giro per l’Armenia è stato fatto all’ombra sempre presente di Mesrob Mashtots e del suo “dannatissimo” e incomprensibile alfabeto. Abituato a tradurre testi geroglifici e ge‘ez e quindi a muovermi con una certa agilità tra i monumenti egizi ed etiopici, la mia frustrazione più grande è stata quella di non capire assolutamente nulla davanti alle innumerevoli iscrizioni incise sulle pareti dei monasteri e delle chiese, frustrazione scaricata senza troppe remore sulla pazientissima Shushan, costretta a tradurmi tutto quello che a me pareva interessante! Mi sa che dovrò trovare il tempo di studiare anche l’armeno…!

Ora che sono rientrato, non voglio, tuttavia, che questo viaggio resti una parentesi, per quanto bella, anzi bellissima, della mia vita, e così, come ho promesso a Shushan, vorrei darmi da fare per portare anche ad altri l’eco di questa esperienza, da me vissuta come uno straordinario pellegrinaggio, alla ricerca delle radici e dei perché della mia fede. Chiedo quindi anche a tutti voi che mi leggete di segnalarmi qualsiasi possibilità di far conoscere anche ad altre persone i tesori di fede e di cultura dell'Armenia. Io mi metto personalmente a disposizione per andare presso scuole (al sabato!), oratori, parrocchie, centri culturali o quant'altro vi verrà in mente per presentare questo nostro viaggio e far conoscere, soprattutto ai giovani, l'esperienza di dolore, fede e cultura del popolo armeno.

V.V

 
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