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26 10 2008 - Al Festival di Roma la sezione Extra attira un pubblico numeroso,
Al Festival di Roma la sezione Extra attira un pubblico numeroso, quasi più del tappeto rosso L’altro cinema che piace di più PAOLA CASELLA
Nei periodi di grande incertezza c’è chi si arrocca su posizioni conservatrici e chiude saldamente il portone, e chi invece sceglie di guardarsi intorno in
cerca di segnali sulla direzione da prendere in futuro. L’altro cinema, la sezione “di ricerca” del festival di Roma, appartiene al secondo gruppo sia
come missione istituzionale, sia nella concretezza delle scelte operate dal suo direttore, Mario Sesti, coadiuvato da una bella squadra di cinéphile appassionati.
Per il terzo anno questa sezione, prima nota come Extra, attira il pubblico quasi più del tappeto rosso, grazie ai suoi incontri con i grandi autori del cinema internazionale: in passato, nelle sale gremite dell’Auditorium, hanno chiacchierato Martin Scorsese, Francis Coppola e Terrence Malick, per citare solo qualche nome. Quest’anno Al Pacino, David Cronenberg, Michael Cimino, Olivier Assayas, Carlo Verdone e Toni Servillo, gli ultimi due in un duetto sul mestiere dell’attore che si preannuncia spassoso. E i biglietti per le pubbliche conversazioni sono andati esauriti in meno di ventiquattro ore.
Ma L’altro cinema non è solo chiacchierate con i big, e anzi la sua forza sta proprio nello scovare opere poco conosciute e sperimentali e presentarle con entusiasmo al pubblico. Senza per questo dimenticare che l’accessibilità di un’opera d’arte non è una colpa, ma una virtù: prova ne è il documentario Man on Wire coprodotto dalla Bbc, la straordinaria storia di Philippe Petit, il funambolo francese che ha teso una corda, per camminarci sopra, fra le guglie di Notre Dame e le cime delle Torri Gemelle: il tutto raccontato con il pathos e il piglio cinematografico di un’audace rapina in banca incrociata con un episodio di Mission Impossibile. Il focus di Man on Wire (che molti ritengono il candidato leader ai prossimi Oscar per il documentario d’autore) è proprio la traversata a mezz’aria (e a mezzo chilometro da terra) fra le Twin Towers: e osservando la facilità con cui il funambolo e i suoi complici si sono inseriti, più volte, nei gangli vitali del World Trade Center non si può fare a meno di pensare che qualcuno avrebbe dovuto accorgersi della loro vulnerabilità, nonché della loro appetibilità come simboli di un potere inattaccabile, prima del disastro.
Il documentario, nella sezione L’altro cinema, fa la parte del leone:
straordinario il ceco Gyumri, girato da una delle registe di “film di realtà” più stimate della scena internazionale, Jana Sevcikova, che fa raccontare un terribile terremoto in Armenia dalle madri e dai fratelli dei giovanissimi scomparsi, e che nel giro di qualche scena di repertorio e di qualche intervista si trasforma, scene dopo scena, da testimonianza storica in ghost story, con immagini agghiaccianti degne di The Others; altrettanto straordinario, non tanto per la sua efficacia cinematografica quanto come esperienza multisensoriale, l’iraniano 7 blind women filmmaker, ovvero il mondo raccontato per immagini da sette donne non vedenti cui sono stati dati un minimo di training e una videocamera digitale; persino la cittadina natale del Duce nel discusso (prima di averlo visto) Predappio in Luce diventa uno scenario teatrale in cui mostrare la genesi di un sogno (o delirio) di grandezza destinato ad implodere sotto il peso delle sue stesse ambizioni, ma «che fino ad un certo punto si poteva capire», come dice uno degli storici (stranieri) intervistati dal regista –che poi non dimenticherà di citare anche le conseguenze devastanti di quella chimera.
Ma ci sono anche interessanti lavori di fiction: come un ironico mea culpa di Jean Claude Van Damme, attore europeo diventato in America una action figure più che un action hero, che ad un certo punto fa una confessione guardando dritto in camera di impressionante candore, o come il sorprendente Riunione di famiglia di Thomas Vinterberg, che stupisce sia perché non è girato (per la maggior parte) secondo i dettami tecnici ed espressivi del Dogma, sia perché il problematico rapporto padre-figlio al centro della storia, che faceva prevedere un Festen due, è invece trattato in maniera assai più ironica e gioiosa, sia infine perché il film non fa parte della sezione concorso, dove avrebbe fatto la sua degna figura.
Il filo rosso che collega i film e i documentari di L’altro cinema è uno spirito anarchico, inteso non come violenza distruttiva, ma come volontà
pacifica di compiere atti di ribellione poetica e di disobbedienza creativa, come fa il funambolo di Man on Wire o come fanno il Fabrizio De André e il Bob
Marley (che vede se stesso come «un rivoluzionario che conosce la differenza fra lottare per i diritti umani e fare solo politica») dei ritratti a loro dedicati: atti di ottimismo dell’immaginazione, come quelli delle madri di Gyumri che dopo aver seppelliti i loro figli ne fanno altri – dando ai secondi il nome dei primi; atti che uniscono invece di dividere – la cima delle Torri Gemelle come le immagini sconnesse filmate al buio da chi non saprà mai che cosa sia la luce; atti di fede nella forza dei legami familiari autentici, come quelli fra i protagonisti immaginati di Vinterberg ma anche fra i protagonisti reali del documentario Life Support Music, storia vera di un musicista americano colpito da un ictus e tornato alla vita grazie al sostegno dei suoi cari e alla sua arte. È questa la via da seguire, dice L’altro cinema: lontano dagli assolutismi, vicino al proprio istinto vitale, che non è sempre solo il mero istinto di sopravvivenza.

V.V

 
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