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10 03 2009 - sull'incontro con Rakel Dink nella serata
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L'articolo di Gregorio Schira (in allegato) del Giornale del Popolo del venerdì 6 marzo sull'incontro con Rakel Dink nella serata "Testimone di Pace" del 4 marzo dedicata a Hrant Dink...
10 Marzo 2009
Il seme della libertà
«Il sacrificio di mio marito lo ha reso cento volte più capace di spingere la Turchia verso la democrazia». Così Rakel Dink e l’avvocato Fethiye Çetin portano avanti la battaglia del giornalista che ha fatto uscire la questione armena dall’oblio
di Rodolfo Casadei
«La mia coscienza non accetta l’insensibilità e la negazione della Grande Catastrofe che gli armeni ottomani subirono nel 1915. Respingo questa ingiustizia e, per quanto mi riguarda, simpatizzo coi sentimenti e il dolore dei miei fratelli armeni. Io chiedo loro scusa». Parole solenni e soppesate quelle con cui, per la prima volta nella storia della Turchia moderna, nel dicembre scorso un gruppo di intellettuali e giornalisti turchi (Ahmet Insel, Baskin Oran, Cengiz Aktar e Ali Bayramoglu) si sono rivolti con una lettera aperta ai loro concittadini armeni per riconoscere le ingiustizie storiche di cui essi furono vittime e chiedere loro perdono. Parole che hanno raccolto l’adesione di altri 30 mila coraggiosi, insensibili alle intimidazioni e alle minacce subito pervenute agli iniziatori della petizione. Ma soprattutto parole che non sono spuntate dal nulla. «Quando mi hanno mostrato il testo della lettera e l’ho letto, ho pianto. Quegli uomini erano i migliori amici turchi di mio marito. In quel momento ho capito che il sacrificio di Hrant è stato l’avvenimento necessario perché si producesse questo evento storico. Mi è venuto in mente il Vangelo là dove dice: “È necessario che il seme cada nel terreno e muoia perché dia molto frutto”. Non avrei mai creduto che una persona, una volta sepolta, potesse fare cento volte di più che da vivo». Rakel Dink è bella e dolente. Due anni fa una mano assassina, punta di lancia di un ampio complotto, le ha portato via l’uomo con cui aveva condiviso gioie e dolori della vita sin da bambina e del quale è stata per 31 anni la sposa. Hrant Dink, armeno di Turchia, fondatore e direttore di Agos, il giornale creato per far conoscere il punto di vista armeno ai turchi e proporre loro di lavorare insieme per la democratizzazione del paese. Al processo gli imputati e persino i loro avvocati, quando il clima si fa teso, si rivolgono a lei con espressioni spregiative e termini razzisti. Ma un sorriso velato da un’ombra anima i suoi occhi chiari quando evoca i frutti che il sacrificio del seme sta producendo: «Gli amici turchi, quelli per lealtà verso i quali Hrant diceva che non avrebbe mai lasciato la Turchia, sono sempre più decisi e coraggiosi nel far conoscere al popolo la verità sulla storia degli armeni. Loro sono la maggioranza nella Fondazione Hrant Dink, che prosegue la missione civica di mio marito insieme ad Agos. Abbiamo inaugurato un Osservatorio sui media dell’odio, giornali e tv che usano un linguaggio spregiativo nei confronti delle minoranze. Ma la nostra missione è soprattutto far incontrare tutti coloro che lavorano per la difesa dei diritti umani».
Rakel Dink è venuta in Europa per un’audizione presso il Parlamento confederale svizzero a Berna, invitata dal gruppo parlamentare Svizzera-Armenia, e per una conferenza pubblica all’università di Lugano. Con lei Fethiye Çetin, avvocatessa specializzata in cause per delitti di opinione, la giurista che difese Hrant Dink nei quattro processi intentatigli per insulto all’identità turca sulla base dell’articolo 301 del codice penale e che oggi rappresenta gli interessi dei familiari nel processo contro gli assassini del giornalista. Una donna portatrice di una storia personale fuori dal comune. In un giorno della sua giovinezza nonna Seher ha chiamato da parte lei, la nipote prediletta, per svelarle un grande segreto: che il suo vero nome non era Seher, ma Heranush, e che non era turca ma armena, una bambina sopravvissuta alle deportazioni del 1915, separata dalla famiglia emigrata in America, finita in sposa a un turco (il nonno di Fethiye) per aver salva la vita. «Quella rivelazione ha inciso profondamente sul mio modo di essere», confessa la militante dei diritti umani, che negli anni Ottanta conobbe per tre anni la prigione al tempo del governo militare del generale Evren. «Quello che lei mi raccontava non era la stessa storia che ci avevano insegnato a scuola. Ho fatto ricerche e letture sui fatti del 1915, ho cominciato a pensare con la mia testa. E allora ho cominciato a capire i sentimenti e le preoccupazioni delle minoranze religiose ed etniche in Turchia, e da lì è nata la mia vocazione ad essere avvocato per la difesa dei diritti umani. Ogni giorno ringrazio mia nonna, perché è lei che ha salvato la mia sensibilità umana. Grazie a lei, finché vivrò io sarò sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi. Grazie a lei, io non appartengo più ad una sola identità. In Turchia io mi sento armena, curda, alevita. Per questo le sono grata e la ricordo sempre con affetto».
Le ombre dentro i tribunali
La Çetin ha raccontato la storia del rapporto con sua nonna in un libro che è stato tradotto anche in italiano col titolo Heranush mia nonna (Alet 2007, 106 pagine, 12 euro). È il primo e finora l’unico che racconta la scoperta di radici armene da parte di un cittadino turco che non sapeva di averne, ma testimonia una realtà sommersa di cui è difficile afferrare le dimensioni: migliaia di bambini e soprattutto bambine e giovani donne armene sopravvissero nel 1915 grazie all’accoglienza in una famiglia turca o al matrimonio più o meno forzato con turchi o curdi. «Quando ho condiviso la mia scoperta con altre persone di Maden, la mia città natale, ho appreso che molti si trovavano nella mia situazione o conoscevano storie simili. Quando ho pubblicato il libro le persone hanno cominciato a telefonarmi e a venire da lontano per raccontarmi scoperte identiche alla mia che anche loro avevano fatto».
Alla domanda se abbiano fiducia nella giustizia del loro paese e se credano che sarà resa giustizia per l’assassinio di Hrant Dink, Fethiye e Rakel rispondono con circospezione. «Il cammino della Turchia verso la democrazia è pieno di ostacoli, le cose terribili come l’assassinio di Hrant sono i momenti cruciali di questo cammino», dice l’avvocatessa. «C’è un prezzo da pagare, e questo prezzo sono le nostre sofferenze. La giustizia nel nostro paese sta progredendo poco a poco». Simile la valutazione della vedova: «Non posso vedere nel futuro. La grande partecipazione di popolo ai funerali di mio marito mi aveva fatto ben sperare, ma nel processo sono coinvolti dei militari, e questo ha creato dei problemi. Le persone indirettamente responsabili della morte di mio marito per omissione di atti d’ufficio sono ancora al loro posto, e da quel posto ostacolano la giustizia».
Sulle vicende dell’attualità politica turca, in particolare sulla famosa inchiesta Ergenekon, che ha per oggetto l’intreccio di poteri occulti che da sempre condizionano la vita politica e che rappresenterebbero il “governo reale” della Turchia, le due donne hanno le idee chiare. «L’inchiesta è la conseguenza dello scontro in atto fra chi vuole trasformare le istituzioni del paese per renderle più simili a quelle dei paesi democratici e chi invece vuole conservarle come sono ora», dice Fethiye Çetin. «Ergenekon coincide con lo “Stato profondo”, che è una realtà di potere formata da personaggi dentro e fuori le istituzioni. L’inchiesta ha scoperchiato per la prima volta questa realtà. Ma nella misura in cui tocca gli alti livelli dell’organizzazione, tende ad arenarsi. Solo se sarà accompagnata da un movimento popolare l’inchiesta potrà veramente disarticolare lo Stato profondo. Ma finora questo non si vede. Però è un passo avanti il fatto che gli intoccabili di sempre adesso non si sentono più sicuri».
L’Europa è ancora lontana
«Quel che Hrant scriveva ha fatto tremare lo Stato profondo, che si è vendicato facendolo uccidere, ma questa inchiesta potrebbe addirittura farlo crollare», dice Rakel Dink. «Lui diceva sempre: “Noi lottiamo non solo contro il terrore, ma contro la forza che sta dietro a questo terrore”».
Quanto alla candidatura della Turchia per l’adesione all’Unione Europea, tante cose dovrebbero prima cambiare nel paese perché possa essere presa in considerazione: «La Turchia – dice la Çetin – in questi anni è cambiata molto per poter aderire all’Ue, ma non ha cambiato la cosa più importante: la Costituzione, che è ancora quella imposta dai militari golpisti nel 1980. Bisogna farne una nuova che subordini chiaramente il potere militare a quello civile. Poi bisogna abrogare gli articoli del codice penale che ostacolano la realizzazione dei diritti umani, come l’articolo 301. E riformare l’educazione, che oggi incoraggia il disprezzo del diverso e la contrapposizione all’altro da sè. Ci serve un’educazione che insegni la fratellanza e l’unità». Quest’ultimo è un punto che sta molto a cuore a Rakel Dink, che l’evocò in un passaggio del toccante discorso al funerale: «Qualunque età abbia l’assassino, 17 o 27 anni, io so che un tempo è stato anche lui un bambino. Fratelli miei, sorelle mie, non possiamo fare niente senza prima chiederci quale bruttura ha potuto fare di questo bambino un assassino».
Recentemente la Fondazione Hrant Dink, insieme ad altri soggetti della società civile, ha protestato per la diffusione per iniziativa del ministero dell’Educazione nelle scuole, comprese quelle elementari, del documentario San Gelin, che nega il genocidio contro gli armeni e ribalta le accuse contro di essi. «Oggi l’educazione è ancora troppo basata sul nazionalismo e sul rifiuto delle minoranze. Occorre far conoscere la verità sui fatti del 1915, perché fino a quando la verità non sarà compresa si continuerà a uccidere. Ma quando ci incontreremo nel riconoscimento dell’ingiustizia che è stata fatta agli armeni, questo porterà al riconoscimento anche delle ingiustizie fatte ad altri. La questione armena non è l’unica ferita aperta in Turchia. Ma se cadrà questo tabù, cadranno anche tutti gli altri».
G.C.
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