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Obama alla partita del Bosforo
14/3/2009 da La Stampa

ALDO RIZZO

Si prepara la scelta del nuovo segretario generale della Nato e ci sono obiezioni della Turchia sul premier danese Anders Fog Rasmussen per non aver punito nel 2005 i responsabili delle vignette inutilmente offensive verso Maometto, che provocarono aspre reazioni nel mondo islamico. Le obiezioni non sembrano di tipo religioso, ma di opportunità politica, pensando ai molti contatti che il futuro capo della Nato dovrà avere con musulmani, specie riguardo a quell.Afghanistan che della Nato rappresenta oggi il problema più grave. E, in questa chiave, c.è qualche comprensione da parte americana, anche alla luce della strategia di Obama, volta a dividere il fronte talebano, cercando un dialogo con la sua parte più moderata e non legata a Al Qaeda.

Verosimilmente, la questione sarà già stata risolta, proprio per una qualche inattaccabile intesa turco-americana, in un senso o in un altro, quando il presidente degli Stati Uniti arriverà in Turchia, ai primi di aprile. Visita di cui il portavoce di Hillary Clinton (propiziatrice della missione) ha ribadito una ben più ampia importanza. Infatti Obama ha scelto la Turchia - storico membro della Nato, ma anche potenza regionale in proprio, nonché Paese islamico e democratico - per rivolgere da lì un appello all.universo musulmano per una stagione di dialogo, approfondendo un auspicio che era già nel discorso d. «inaugurazione» del 20 gennaio.

Ora, però, ci si può chiedere se la visita di Obama, oltre che un appello all.Islam e un omaggio alla Turchia, non sia anche, se non uno «schiaffo», un monito all.Unione europea che, pur con eccezioni, mostra di sottovalutare il ruolo di Ankara in una posizione geopolitica di decisivo rilievo e non fa molto, o nulla, per incoraggiare i suoi sforzi di rispondere in pieno ai criteri di ammissione alla struttura comunitaria. Da questo punto di vista, la situazione è la seguente. Alla vigilia di elezioni amministrative nazionali, che si terranno il 29 marzo, il governo islamico-moderato di Tayyip Erdogan può esibire, pur nella crisi mondiale, una buona tenuta dell.economia turca, che fa presa anche tra elettori tradizionalmente laici e nella stessa, cospicua, minoranza curda. Questa, a lungo osteggiata, ha ottenuto un canale tv nella propria lingua e il progetto d.una facoltà universitaria autonoma. È stato avviato un dialogo con i curdi iracheni, anche per isolare le correnti estremiste e terroristiche.

Quanto all.altro tabù, ormai storico, della repressione degli armeni nella prima guerra mondiale, è stata appena pubblicata una ricerca che testimonia la «scomparsa» di circa un milione di persone. Il saggio è nelle librerie di Ankara e Istanbul, qualcosa d.impensabile, secondo l.autore (turco) Murat Bardakci.

Certo, molto resta da fare, nella legislazione garantista, anche verso l. invadenza dei militari, ma molto è stato fatto. Naturalmente, in assenza di riscontri europei, prende corpo, polemicamente, il «faremo da noi». Anche in politica estera (raffreddamento con Israele, approccio all.Iran e all.Islam «radicale», sia pure in chiave moderatrice). E tuttavia, non dimenticando l.Europa, per la prima volta è stato istituito un ministero votato al problema
del negoziato di adesione all.Ue.
L.Obama atteso in Turchia è lo stesso che ha invocato una comunità d. interessi tra America ed Europa. E dove, se non sul Bosforo, tra due continenti e due mondi, questa può meglio manifestarsi? L.alternativa è una testa di ponte tutta americana, con contraccolpi «islamisti» tutti europei.


da VIRGILIO

Turchia/ Ankara teme Usa su genocidio, atteso discorso Obama-focus Se userà la parola "genocidio" a rischio relazioni con Ankara


Istanbul, 13 mar. (Apcom-Nuova Europa)
- Certo che con tutti i problemi che ha Barack Obama, gli mancava solo di dover stare attento a come parlerà il prossimo 24 aprile, per non offenedere il tradizionale alleato turco. La data in cui si commemora ufficialmente il massacro dei cittadini armeni da parte delle truppe ottomane, datato 1915, si avvicina. E con lei il tradizionale
discorso che il Presidente degli Stati Uniti tiene in questa circostanza.

La Diaspora armena, discendente della gente massacrata si augura che almeno Obama mantenga quello che i suoi predecessori - Bill Clinton e George W. Bush -avevano promesso a più riprese e che hanno sempre astutamente evitato:
l'utilizzo della parola "genocidio" nel loro speech, che equivarrebbe a un
riconoscimento ufficiale da parte degli Stai Uniti d'America e che comporterebbe una crisi senza precedenti con la Turchia.

Obama durante la sua campagna elettorale ha più volte fatto riferimento alla questione, schierandosi a favore dell'utilizzo del termine che in Turchia non si può pronunciare.

Le versioni turca e armena su che cosa è successo sono così diverse da essere inconciliabili. L'Armenia parla di 1 milione 1,5 milioni di morti,deportati e uccisi in modo predeterminato e in mezzo alle più atroci sofferenze. Un massacro che Erevan e parte della comunità internazionale vorrebbe vedere riconosciuto come "genocidio". Ankara si rifiuta e contrappone la sua versione dei fatti, dicendo che non si trattò di una deportazione ma di una "relocation" e che le vittime furono al massimo 300mila, uccise non in modo premeditato, ma in seguito a iniziative personali da parte di alcuni soldati (spesso curdi) ed epidemie. A questo Ankara aggiunge che ci furono migliaia di turchi sterminati dalle truppe russe che entrarono nel territorio ottomano dalla parte di Kars.
Un dibattito che va avanti a quasi cent'anni, ma che negli ultimi tempi ha fatto intravedere anche raggi di speranza. Le relazioni fra Turchia e Armenia infatti negli ultimi tempo sono progressivamente migliorate, anche grazie alle prospettive che derivano dalle future rotte dell'energia che attraverseranno il Caucaso e che dalle quali l'Armenia non vuole rimanere fuori. La Turchia sta mediando in modo determinante per ricomporre la frattura fra Armenia e Azerbaigian, i cui rapporti sono tesi per la questione del Nagorno Karabakh, regione in territorio azero a maggioranza armena di fatto occupata militarmente
da Erevan


Una parola usata da Obama potrebbe bloccare questi processi, vitali per la pacificazione del Caucaso. L'eventualità preoccupa seriamente il ministero degli esteri turco, Ali Babacan, che proprio questa settimana si è detto preoccupato per l'eventualità, concreta secondo lui che Obama possa veramente utilizzare il termine genocidio.

Ankara si presenta al nuovo presidente con un'attività diplomatica di primo piano sviluppata nell'ultimo anno e apprezzata anche dall'amministrazione Bush in più occasione e con un ruolo chiave ricoperto nell'ultima crisi sulla Striscia di Gaza. Un interlocutore quindi da tenere in grande considerazione.

Sarà interessante vedere quale input Obama deciderà di dare all'alleanza, tenendo anche conto dell'apporto chiave della Turchia in Afghanistan e i rapporti preferenziali con Iran, Iraq e Siria, tutti stati con cui Obama deve accreditarsi in modo nuovo.

Il neopresidente deve tenere in considerazione il fatto che il riconoscimento del genocidio armeno è un punto su cui lo stesso vicepresidente Joe Biden e l'attuale Segretario di Stato americano Hillary Rodham Clinton hanno lanciato precisi messaggi, giunti quanto mai graditi alla Diaspora Armena, potentissima negli States.

C'è comunque chi aspetta a fasciarsi la testa. Ferai Tinc, editorialista del quotidiano Hurriyet, interpellata da Apcom, ha molta fiducia nei colloqui che stanno andando avanti spontaneamente fra Ankara ed Erevan ormai da qualche mese. Senza contare che, dopo l'ultima violenta crisi sulla striscia di Gaza, Obama e suoi avranno cose più urgenti a cui pensare. Di contro il grande ruolo ricoperto dalla Turchia e la centralità di Ankara a tutti i tavoli diplomatici potrebbe portare se non alla scomparsa, almeno al momentaneo accantonamento della questione armena.

Stufa di applicare la politica del dare-avere, Ankara spera che con l'era Obama cambi veramente la percezione della politica estera di Washington in un'ottica più multilateralista. Ci spera soprattutto il presidente della Repubblica Abdullah Gul, che di recente al quotidiano Zaman ha dichiarato che si aspetta dal nuovo presidente una maggior cooperazioni con gli altri Paesi per favorire un minor unilateralismo nella politica estera.

Intanto Obama sarà in Turchia ai primi di aprile e sarà un primo importante test per capire che cosa deciderà di fare il 24 aprile.

Sergio Romano su PANORAMA


Nel discorso pronunciato dopo il giuramento, Barack Obama dette al mondo islamico un segnale di apertura. Nei giorni seguenti abbiamo letto sulla stampa americana che un segnale molto più forte sarebbe stato lanciato con un discorso interamente dedicato all’Islam, da pronunciarsi verosimilmente durante il primo viaggio del nuovo presidente in un paese musulmano. Non sappiamo se questo accadrà a Istanbul o Ankara in occasione del viaggio presidenziale in Turchia annunciato dal segretario di Stato Hillary Clinton. Ma i fatti, in questo caso,sono più importanti delle parole.
Per il suo primo viaggio in Medio Oriente Obama ha scelto un paese con cui gli Stati Uniti, all’epoca della presidenza di George W. Bush, hanno avuto rapporti difficili. I primi segni di freddezza risalgono alla vigilia della guerra irachena. Quando l’America, nella primavera del 2003, chiese l’uso del territorio turco per le truppe americane che si preparavano a invadere l’Iraq,
il parlamento di Ankara oppose un secco rifiuto. La Turchia temeva che la guerra avrebbe provocato la crisi dello stato iracheno e riaperto la questione curda. Non aveva torto.
Il Kurdistan iracheno, unica isola di ordine e prosperità in un paese distrutto e diviso, cominciò a comportarsi come un regime indipendente e divenne una base operativa per la guerriglia curda in Turchia. Ankara reagìlanciando una serie di operazioni militari al di là del confine. Gli americani dovettero tollerare e tacere. Ma la questione irachena continuò a dividere i due vecchi alleati e a pesare sui loro rapporti. Oggi la situazione è cambiata.
L’America ha un nuovo presidente, deciso a ritirare le truppe dall’Iraq e ad affrontare con uno sguardo nuovo le crisi del Medio Oriente. La Turchia, nel frattempo, è diventata, oltre che l’indispensabile mediatore del conflitto tra Siria e Israele, un possibile ponte per le relazioni dell’Occidente con i paesidel Mar Nero, con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale, forse addirittura con l’Iran di Mahmoud Ahmadinejad. La teatrale baruffa di Davos tra il premier turco Recep Erdogan e il presidente israeliano Shimon Peres, durante
una discussione sulla guerra di Gaza, ha considerevolmente giovato all’immagine della Turchia nel mondo arabo-musulmano.
Obama ha capito che non possono esservi processi di pace senza l’aiuto dei turchi e lo riconosce pubblicamente scegliendo Ankara per il suo primo viaggio nella regione. Il viaggio servirà alla politica americana, tuttavia, soltanto se il presidente si renderà conto che i rapporti degli Stati Uniti con Ankara non potranno essere quelli degli anni della guerra fredda, quando la Turchia dipendeva pressoché interamente da Washington per la sua sicurezza.
Il paese è cresciuto economicamente. È laico, ma governato da un partito islamico e più adatto quindi a parlare con tutti i paesi della regione. Ha un governo forte, appena scalfito dal malumore dei militari e dalle sentenze della
sua Corte suprema. È diventato un cruciale crocevia per i gasdotti e gli oleodotti che provengono da est. Può parlare contemporaneamente con gli Stati Uniti, la Russia e l’Iran. Non ha rinunciato al desiderio di entrare nell.Ue, ma ha dimostrato di avere, all’occorrenza, altre ambizioni e prospettive. E ha dato prova di grande flessibilità e immaginazione quando il suo presidente ha visitato la repubblica armena, patria morale degli armeni ottomani massacrati durante la Grande guerra.
Il nuovo presidente degli Usa visiterà quindi una nuova Turchia e il suo viaggio sarà tanto più utile quanto più dimostrerà di esserne consapevole.

G.C.

 
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