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La Strada di Smirne e Sopravissuti del Villaggio degli Armeni- " NOR ARAX " di BARI
http://www.wuz.it/recensione-libro/3109/strada-smirne-antonia-arslan-armeni.html
La strada di Smirne di Antonia Arslan

Per Henriette e il piccolo Nubar, la casa si è aperta come una conchiglia. Evitando per istinto la gentilezza corretta e un po' forzata di Teresa, le sue eleganti maniere, i suoi vestiti viola e i cappellini fioriti, e tutti i nobili parenti che accorrono a vederli con orrore e pietà, i due bambini hanno scelto il rifugio della cucina al pianterreno. Seguito ideale della giustamente famosa opera precedente di questa autrice, La masseria delle allodole, La strada di Smirne si apre con la fuga dalla Turchia ormai giunta alla sua conclusione: Shushanig e i suoi quattro figli sono a bordo di una nave che li condurrà in Italia. Si lasciano alle spalle le atrocità che hanno sconvolto la loro vita e sterminato i loro cari e tante altre famiglie armene. Quello è il passato, racchiuso e conservato per sempre tra le pagine della Masseria delle allodole. Ora una nuova storia incalza. Mentre in Italia i figli di Shushanig si adattano dolorosamente a una nuova realtà, Ismene, la lamentatrice greca che tanto ha fatto per strapparli alla morte, cerca di dare corpo all'illusione di salvare altre vite, prendendosi cura degli orfani armeni che vagano nelle strade di Aleppo, ostaggi innocenti di una brutalità che non si può dimenticare. Ma proprio quando nella Piccola Città dove tutto ha avuto inizio qualcuno torna per riprendere quel che gli appartiene, ogni speranza di ricostruire un futuro compromesso cade in frantumi.Donne e uomini normali che hanno sofferto senza spezzarsi, attraversando le alte fiamme che, nell'incendio di Smirne, sembravano voler bruciare la speranza di una vita nuova.
Le diverse tesi degli storici e il dibattito sulla questione armena


Da la Repubblica del 18.02.2009, alcuni brani tratti dall’articolo di Guido Rampoldi È indiscutibile che in Anatolia la minoranza armena, soggetta per tutto l'Ottocento a violenze e soprusi, fu aggredita con la partecipazione attiva delle autorità, e che gli irregolari curdi esecutori materiali dei massacri furono di fatto autorizzati. Non per questo risulta più credibile la tesi della storiografia nazionalista armena, ostinata nell' attribuire le stragi ad un piano di sterminio sistematico, paragonabile alla "soluzione finale" applicata dal Terzo Reich agli ebrei.
Tra i non pochi storici occidentali che rigettano questa lettura c'è Guenter Lewy, autore di un saggio dal sottotitolo dubbioso, Un genocidio controverso (Einaudi). Secondo Lewy il regime ottomano voleva certo espellere dall'Anatolia la popolazione armena, temendo che agisse da quinta colonna della Russia, le cui truppe erano entrate in profondità nella regione di Van; ma i massacri che costellarono la deportazione non furono preordinati, e andrebbero semmai spiegati con il caos in cui si dissolveva la statualità imperiale.
Inoltre i timori ottomani non erano peregrini, giacché l'indipendentismo armeno combatteva effettivamente al fianco delle truppe russe e con metodi che includevano la strage di intere comunità musulmane.
Infine, l'avanzata dei russi e degli indipendentisti in Anatolia occidentale aveva costretto all'esodo decine di migliaia di contadini turchi, che riparati in Anatolia orientale pensarono di vendicare i lutti e di recuperare le proprietà perse rifacendosi sugli armeni. Riletto in questo contesto, il massacro di quel milione di cristiani perde la sua esclusività turca e diventa una spaventosa "pulizia etnica", affine alle "pulizie etniche" che dalla fine dell'Ottocento, e nel corso di un secolo, le popolazioni cristiane ribellatesi alla Sublime Porta abbatterono sulle minoranze musulmane nei Balcani.
Appartiene a questa sequenza criminale anche l'incendio di Smirne, i cui bagliori chiudono il romanzo della Arslan? Secondo un'opinione consolidata in Occidente, i vincitori turchi vollero cancellare la presenza greca e armena. La storiografia turca obietta, citando testimoni occidentali, che ad appiccare il fuoco sarebbero stati imprevidenti greci, per impedire che i magazzini abbandonati dall' esercito ellenico in fuga cadessero nelle mani delle truppe di Ataturk. Debole o no che sia questa versione, è bizzarro che non si riesca a trovare una versione grossomodo condivisa di vicende occorse un secolo fa...
Ecco la lettera che il Consiglio per la comunità armena di Roma ha indirizzato alla redazione del giornale in risposta all'articolo di Guido Rampoldi apparso su La Repubblica del 18.02.09.

Egr. Direttore, Abbiamo letto con certo stupore e un pizzico di sgomento la recensione al libro di Antonia Arslan “La Strada di Smirne” del Dr. Guido Rampoldi apparsa su La Repubblica di oggi.
Lo stupore riguarda alcuni passaggi ed affermazioni del giornalista che riguardano la oramai acclarata verità storica del genocidio armeno perpetrato nel 1915 a danno della minoranza armena da parte dell’allora governo turco. Argomento trattato nel romanzo della Arslan.
Il Dr Rampoldi invece di limitarsi ad una recensione letteraria dell’opera si cimenta in una ricostruzione storica personale delle vicende avvenute nel 1915 facendo riferimento al già noto e discusso libro di Guenter Lewy. Storico, che per sua stessa ammissione, dice di non conoscere né la lingua armena né quella turca e che fa una analisi della vicenda, alquanto controversa, sposando appieno le tesi negazioniste del Governo di Ankara. Il Dr Rampoldi tralascia (volutamente?) quella montagna di storiografia occidentale ed i numerosi storici come Marcello Flores (italiano) o Taner Akcam (turco), giusto per citarne alcuni, che hanno invece affermato che il genocidio degli armeni è una verità storica incontestabile. Rampoldi vuol farci credere che l'annientamento e lo sradicamento di un milione e mezzo di armeni è dovuto solo alla circostanza che “l'avanzata dei russi e degli indipendentisti in Anatolia occidentale aveva costretto all'esodo decine di migliaia di contadini turchi, che riparati in Anatolia orientale pensarono di vendicare i lutti e di recuperare le proprietà perse rifacendosi sugli armeni.”? Oppure è rimasto l’unico ad affermare che “ad appiccare il fuoco (di Smirne) sarebbero stati imprevidenti greci, per impedire che i magazzini abbandonati dall'esercito ellenico in fuga cadessero nelle mani delle truppe di Ataturk”... quando questa tesi è stata ampiamente smentita dagli stessi studiosi e giornalisti turchi in articoli ed opinioni che hanno riempito, nemmeno un anno fa, pagine di giornali? Non è la prima volta che ci vediamo costretti a manifestare la nostra ferma contrarietà a certe affermazioni del Suo giornale. Affermazioni che feriscono la memoria dei sopravvissuti e sminuiscono l’opera di tanti eccellenti storici anche turchi.
Proprio adesso che in Turchia dove l’opinione pubblica si sta svegliando da un letargo durato fin troppo e dove un gruppo di intellettuali ha lanciato una campagna di scuse verso i fratelli armeni “per gli avvenimenti del 1915” crea certo stupore e sgomento leggere sulle pagine di un quotidiano italiano frasi come: “E qui forse la memoria tramandata dai sopravvissuti non sembra corrispondere esattamente alla verità storica.” Oppure “Indiscutibile l’aggressione alla minoranza armena ma non fu una “soluzione finale”. Sempre più spesso la storia del genocidio degli armeni si trasferisce sulle pagine dei giornali regalandoci, ahinoi, talvolta una verità faziosa e distorta.

Da Sono razzista, ma sto cercando di smettere, di Guido Barbujani e Pietro Cheli «A qualcuno può sembrare strano, ma la storia documenta come mantenere identità ricche e complesse fosse più la regola che l' eccezione, prima dell' esaltazione monoidentitaria del Novecento. Difficile oggi immaginare la Salonicco di minareti, sinagoghe e monasteri, ottomana e poi greca, dove gli ebrei in fuga dalla Spagna cattolica hanno trovato ospitalità in una comunità che comprendeva anche il fondatore dello stato turco moderno, Ataturk; Salonicco nel cui bazar si inseguivano una dozzina di lingue, e che finisce nel momento in cui i turchi si scoprono musulmani, i greci cristiani, e cominciano le deportazioni: dei turchi nel 1912, degli ebrei nel 1943». Chiunque l' abbia incendiata, la Smirne di Antonia Arslan appartenne a quel mondo di identità plurime che il secolo scorso distrusse e che questo tende a ricostruire, tra fortissime ostilità.
Dall’ Intervista ad Antonia Arslan a cura di Stefania Garna (Università di Venezia)

Quale chiave di lettura ci offri perché noi possiamo capire l’accettazione del silenzio da parte degli Armeni scampati al Metz Yeghérn?
Sono persone che sono state traumatizzate due volte. La prima per le terribili cose che hanno vissuto: quando sei l’unico sopravvissuto di gruppi di duecento persone è proprio un miracolo che tu riesca a essere una persona normale, eppure si sono costruiti una vita ecc. Però, bisogna anche ricordare che questa gente ha subito con il Trattato di Losanna del 1923 una seconda deportazione e persecuzione; la loro mente si è come atrofizzata. Perché di fronte ad un trattato di pace che non usa neanche la parola Armeni, che non dice agli armeni diamo poco o diamo nulla, ma non li nomina proprio, si sono sentite persone non esistenti, fuori posto dovunque. Che a parlare delle loro tragedie, la gente avrebbe riso piuttosto che pianto. Bisogna distinguere fra la conoscenza dei contemporanei, che era altissima – in fondo nel 1915/16 tutti sapevano - e la conoscenza fino al 1918/20 che era lo stesso molto ampia, e poi questa coltre di silenzio che passando attraverso la cacciata dei Greci e l’incendio di Smirne ha coperto del tutto anche gli Armeni.

E, ora, quali sono i punti di forza e i punti di debolezza di questa Memoria, non solo in seno alla comunità armena ma anche e soprattutto nella comunità internazionale, a partire dall’Europa?

Per capire cosa è stato il genocidio basterebbe anche solo leggere Lepsius e il
Libro Blu di James Bryce. Ma i punti di forza stanno nel fatto che ormai sono uscite numerosissime testimonianze contemporanee: quaderni, resoconti, diari. Il famoso medico dell’assedio di Van, di cui si parla nel film Ararat di Atom Egoyan, l’infermiera danese di cui sono usciti adesso i diari, l’infermiera americana che stava in uno dei teatri peggiori delle deportazioni il cui quaderno è stato recuperato per terra in una casa in demolizione. Questi testi sono pubblicati in America. O ancora il resoconto con fotografie che il console americano Leslie Davis mandò al dipartimento di Stato americano, resoconto che è stato stampato solo recentemente. Sono tutti tasselli di memoria che rendono ormai non più in nessun modo nel fatto che non hanno mai strutturato questo vissuto come hanno fatto invece gli Ebrei; questo perché sono meno; perché purtroppo in molte comunità si sono chiusi in se stessi: si vedono fra loro, si parlano fra loro; un aspetto quasi di neghittosità orientale. Sono anche gente spaventata, gente che non vede riconosciuto il genocidio da cinquanta-settant’anni; gente che si sente chiedere chi sono gli Armeni se afferma che è sopravvissuta al massacro degli Armeni; si sono abituati a non parlare. Ecco il grande sforzo di questi ultimi anni è stato quello di farli parlare. Ma ce n’è ancora tanta, di strada da fare.

Nei viaggi che hanno caratterizzato questi tuoi ultimi mesi, hai avvertito quella costruzione di una opinione pubblica matura, critica e solidale che tutti vorremmo ci fosse?
Sì, davvero. Nel mio piccolo, giorno dopo giorno, lo constato. Il mio recente viaggio in Puglia è stato una conferma clamorosa in questo senso, pur non avendo i pugliesi di oggi, praticamente, memoria storica dell’accoglienza nei confronti degli Armeni sopravvissuti, del villaggio Nor Arax alle porte di Bari ecc. È proprio una solidarietà che nasce dalla lettura del libro, di gente che poi vuole documentarsi, sapere, esprimere un’opinione. Cosa ti auspichi accada di positivo nel quadro un po’ fosco di “sdoganamento politico della Turchia” da un lato e di amnesia di Strasburgo dall’altro?
Non sono contraria per principio all’ingresso della Turchia in Europa. Lo dico chiaramente perché può essere che questa cosa possa essere fatta con le dovute cautele. Sono in apprensione per la incapacità di gestire la vera diplomazia che sta dimostrando la Comunità Europea. Nel momento in cui essa dà il via al negoziato per l’ingresso e non dice neanche una parola sugli Armeni e lascia che non venga preso nessun piccolissimo impegno su Cipro, mi viene il sospetto che la diplomazia turca, notoriamente abilissima, ci stia buggerando. Eppure il Parlamento di Strasburgo lo aveva pur riconosciuto, il genocidio armeno, nel 1987. L’Olanda lo ha appena riconosciuto, la Slovacchia pure. L’Italia lo ha fatto, e la Francia pure. Oggi la Francia è sotto pressione, c’è pure in corso uno sciopero della fame. Tutto questo spero che indurrà i parlamentari ad un ripensamento. Non per respingere la Turchia – ci sono molte cose che fanno di questo paese anche un candidato abbastanza serio – ma perché deve esserci una trattativa ferma e seria e la Turchia deve esserne convinta. A quel punto i governanti turchi, che sono abilissimi, capiranno che conviene fare quel gesto morale di riconoscimento del genocidio.
Alla luce di questi mesi di caldo strepitoso successo editoriale ed umano, oggi come potresti interpretare o anche solo descrivere “gli speciali doveri di chiamarsi Antonia”?

Mi sento infatti molto più serena. Mi pare di aver fatto il mio dovere. Lo speciale dovere di chiamarsi Antonia consisteva nel raccontare; finalmente, dopo tanti giri e tante altre cose, l’ho fatto.

Antonia Arslan – La strada di Smirne
285 pag., 18,50 € - Edizioni Rizzoli 2009 (Scala italiani) ISBN 978-88-17-02799-1

Le prime pagine >>>
Cominciamo a leggere: La strada di Smirne Un romanzo di Antonia Arslan edito da Rizzoli Leggi la recensione È il 1916 e la deportazione degli armeni ha come crocevia la città siriana di Aleppo: da qui riprende il filo del racconto lasciato sospeso nella Masseria delle allodole. La tragedia si è compiuta, ma il destino ha voluto che qualcuno si salvasse. Sembrano lontanissimi i preparativi che hanno occupato per mesi Sem-pad, Shushanig e tutta la famiglia per accogliere Yerwant e i suoi figli in arrivo dall'Italia. Yerwant, partito tredicenne tanti anni prima, in fuga volontaria dalla sua terra natale, dalla Piccola Città in Anatolia. Ma è scoppiata la Grande Guerra e, quando l'Italia entra nel conflitto, i telegrammi che i due fratelli si scambiano in vista del viaggio non arrivano più a destinazione. Qualcuno ha deciso che la minoranza armena debba essere eliminata, gli uomini uccisi, le donne e i bambini deportati nel deserto. Manca poco perché il campo da tennis alla Masseria sia ultimato, ma qualcuno ha deciso altrimenti e su quel terreno sono destinati a cadere i corpi mutilati di Sempad e dei suoi figli maschi. Ma l'orrore è solo all'inizio. Ai massacri degli uomini seguono le carovane dirette al deserto di Deir-es-Zor: donne, bambini e anziani in marcia verso la morte. Shushanig, le figlie, le cognate e Nubar, l'unico figlio maschio sopravvissuto perché vestito da bambina. Con il popolo armeno d'Anatolia si mettono in cammino: molti di loro non ce la faranno e i sopravvissuti arriveranno stremati ad Aleppo, la città che secondo i piani avrebbe dovuto essere l'ultima tappa prima della fine. Il governo dei Giovani Turchi insegue il sogno di una grande Turchia, ma qualcuno si oppone allo sterminio indiscriminato: per esempio Nazim, il mendicante zoppo che, insieme alla lamentatrice greca Ismene e al prete Isacco, salverà quel che resta della famiglia di Sempad. È una fuga rocambolesca quella che i tre amici organizzano ad Aleppo: il doppio fondo di una carrozza servirà a nascondere i fuggiaschi dai gendarmi del campo. Ad attenderli ci sono Zareh, il fratello aleppino di Sempad e Yerwant, e Ma-rie-Joséphine, la bella francese che ha dato un contributo indispensabile al piano di fuga. La masseria delle allodole si chiude a questo punto. Il lettore che ha amato le pagine del mio primo romanzo ancora non sa come le tre ragazze, Arussiag, Nevart, Henriette, e il piccolo Nubar raggiungeranno l'Italia, dove li attendono lo zio Yerwant, e i cugini Wart e Khayèl. Né il lettore sa che cosa faranno Ismene, Isacco e Nazim dopo la loro partenza. Leggendo La strada di Smirne scopriremo finalmente che ne è stato di loro. L'autric
Antonia Arslan
Padova, 1938

Scrittrice e saggista italiana di origine armena. Laureata in archeologia, è stata professore di Letteratura italiana moderna e contemporanea all'Università di Padova. È autrice di saggi sulla narrativa popolare e d'appendice (Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento) e sulla galassia delle scrittrici italiane (Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra '800 e '900).
Attraverso l'opera del grande poeta armeno Daniel Varujan — del quale ha tradotto le raccolte II canto del pane e Mari di grano — ha dato voce alla sua identità armena.
Ha curato un libretto divulgativo sul genocidio armeno (Metz Yeghèrn, Il genocidio degli Armeni di Claude Mutafian)e una raccolta di testimonianze di sopravvissuti rifugiatisi in Italia (Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni).
Nel 2004 ha scritto il suo primo romanzo, La masseria delle allodole (Rizzoli), che ha vinto il Premio Stresa di narrativa e il Premio Campiello e il 23 marzo 2007 è uscito nelle sale il film tratto dall'omonimo romanzo e diretto dai fratelli Taviani.La strada di Smirne è del 2009.

Vahè

 
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