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050620 - ARMENIANOVANT'ANNI FA LO STERMINIO A OPERA DEGLI OTTOMANI AI CONFINI DEL GENOCIDIO
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di Giulia Cerqueti
ARMENIA NOVANT'ANNI FA LO STERMINIO A OPERA DEGLI OTTOMANI AI CONFINI DEL GENOCIDIO
Un popolo fiero, che ricorda la tragedia ma sa guardare avanti.
Un Paese giovane, profondamente cristiano, che attrae capitali stranieri e si sta aprendo al futuro.
Erevan
Nina Hovnanian ha gli occhi grandi, nerissimi, tipici delle donne caucasiche. Parla in perfetto armeno, interrotto ogni tanto da qualche parola inglese che tradisce la provenienza straniera. Nina è un’armena della diaspora, figlia di emigranti in America. È nata a New York, dove si è laureata in Design. Nel 2001, la scelta di trasferirsi nella terra dei suoi padri.
«Mi sono innamorata di un armeno», racconta, «l’ho sposato e sono venuta a vivere qua». Oggi è la direttrice esecutiva dell’Ente del turismo armeno, fondato nel 2001. «L’Armenia è un Paese giovane, ricco di potenzialità», spiega, «ho creduto nella forza di questa terra e me ne sono innamorata».
Dopo il collasso economico da cui era stata inghiottita con la caduta dell’Urss, negli ultimi anni l’Armenia ha conosciuto uno sviluppo rapidissimo. «Tra le Repubbliche ex sovietiche», dice il viceministro del Turismo Ara Petrosyan, «è la più sicura. La sanità ha raggiunto buoni livelli, si sta creando una classe media che sta bene. L’edilizia è un settore in espansione: tutta Erevan, la capitale, è un grande cantiere».
La rinascita del Paese passa attraverso i capitali stranieri. L’intervento statale è una bazzecola in confronto agli investimenti privati. In primo luogo, quelli degli armeni della diaspora: se l’Armenia conta poco più di tre milioni di abitanti – di cui un milione e mezzo solo a Erevan –, gli armeni sparsi nel mondo (a causa delle persecuzioni e della povertà) sono otto milioni, di cui la maggior parte vive in Russia, Stati Uniti e Francia. Fra i Paesi stranieri, gli Stati Uniti sono in prima linea negli investimenti.
«Gli Usa hanno grossi interessi in Armenia, non tanto pratici quanto strategici», spiega dalla sede della comunità cattolica armena a Erevan padre Harutiun Bezdikian, direttore del Museo e dei beni culturali della Congregazione mechitarista di Venezia. «L’Irak è insicuro, il Medioriente e il mondo islamico sono instabili. L’Armenia è un Paese cristiano, tranquillo, affidabile. Basti pensare che a Erevan l’America ha costruito la più grande ambasciata statunitense del mondo. Quando ho chiesto all’ambasciatore americano il perché di questa struttura, lui mi ha risposto soltanto: "L’Armenia ci sta a cuore per l’avvenire"».
Eppure, più che agli Stati Uniti, questa Repubblica caucasica oggi guarda all’Europa e, in particolare, all’Italia. A Erevan è in progetto la costruzione di un Collegio italo-armeno, un istituto scolastico dove le materie scientifiche siano insegnate principalmente in italiano. «Gli armeni hanno scoperto di essere molto più affini agli italiani che ai russi o agli americani», dice padre Bezdikian. «Come gli italiani, sono intraprendenti, non hanno grandi ricchezze, ma sanno arrangiarsi, inventare. Io dico che sono metà artisti e metà musicisti».
La grande manifestazione dell’anniversario al Monumento al genocidio
che si trova nella capitale, Erevan, accanto al Museo del genocidio (foto AP).
L’attacco dei Giovani turchi
Nell’ex Urss l’Armenia è rinomata per l’elevato numero di studenti. Non a caso, nel XIX secolo Istanbul era la capitale dell’intellighenzia armena. Il genocidio degli armeni da parte degli ottomani cominciò proprio la notte tra il 23 e il 24 aprile 1915 con il massacro degli intellettuali nella capitale.
Tra il 1915 e il 1916 un milione e mezzo di armeni dell’Impero ottomano furono sterminati, o lasciati morire nel deserto, in nome dell’ultranazionalismo dei Giovani turchi che predicavano l’ideale della Turchia ai turchi. Gli armeni erano cristiani, con una cultura radicata e una propria lingua. Perciò andavano eliminati. Il genocidio è stato riconosciuto dall’Onu, dal Parlamento europeo, dal Vaticano e da molti Paesi nel mondo (fra cui l’Italia). Stati Uniti, Israele, Gran Bretagna e Germania mancano all’appello.
La Turchia persevera nel negazionismo, rifiutando l’idea di un progetto di sterminio da parte dei turchi. Fra Turchia e Armenia non esistono rapporti diplomatici, anche se Erevan ha di recente dato segnali di apertura verso Ankara. E il riconoscimento del genocidio ha un peso sulla possibile entrata della Turchia nell’Unione europea.
Una storia di sofferenza
Dopo novant’anni il genocidio rimane un macigno sul cuore degli armeni. Impossibile andare avanti senza rivolgere dolorosamente lo sguardo a quella tragedia, culmine di tutta una storia di sofferenza. Gli armeni cominciarono a subire persecuzioni da altri popoli molti secoli fa. Il destino è crudele: il primo Paese al mondo che, nel IV secolo, accolse il cristianesimo come religione di Stato, è stato il più perseguitato.
L’identità cristiana, che ha resistito anche al comunismo sovietico, è vissuta come motivo di orgoglio e identità nazionale: è impossibile essere armeni senza essere cristiani. «Dopo la caduta del comunismo c’è stata una forte rinascita religiosa, vissuta non tanto come sviluppo di un sentimento personale, quanto come moto nazionale», dice monsignor Claudio Gugerotti, nunzio apostolico in Georgia, Armenia e Azerbaijan. «I giovani hanno cominciato a domandarsi come ridare un’anima al Paese attraverso la religione».
La croce di pietra
La connotazione del martirio è palpabile nella storia di questo popolo: aleggia sulla musica, si avverte nella malinconia del folclore, perfino nell’umorismo e nei detti popolari, spesso tristi, nostalgici, venati di un cinismo che nasconde la rassegnazione.
Il marchio della sofferenza è inciso nella spiritualità armena: il khackhar, che in armeno significa "croce di pietra" – una stele con la croce impressa –, è il simbolo costante dei luoghi di culto. «L’immagine del Cristo sofferente qui è pregnante», osserva monsignor Gugerotti, «in Armenia non ci sono icone, è la pietra che parla». Non a caso, il poeta russo Osip Mandel’s tam aveva definito il piccolo Paese caucasico: «la terra delle pietre urlanti».
Eppure, in questa terra aspra c’è tanto impegno, tanta laboriosità. Al Museo al genocidio a Erevan colpisce l’iscrizione di un poeta armeno, Hovhannes Shiraz: «Anche se al mondo rimanesse un solo grembo di una madre armena, il popolo armeno rinascerebbe». «In questa gente», continua il nunzio, «non c’è ottimismo, c’è speranza. Un detto recita: "All’uccello cieco è Dio che fa il nido". Ecco la speranza: conservare un’immensa fiducia in Dio, certi che le sofferenze non finiranno».
Giulia Cerqueti
V.V
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