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Presentazione del librom BARBARA NAJARIAN
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Auguri alla nostra giovane e caqrissima Amica;
Sullo sfondo del mondo precario degli insegnanti di scuole private, Carla, professoressa di lettere, vive nella sua vita privata il difficile passaggio dalla convivenza alla situazione di single poco convinta per poi conoscere e innamorarsi di un collega di origini armene.
La vicenda è semplice, è la vita di ognuno di noi, senza esiti assurdi o situazioni imprevedibili, narra un passaggio in cui la maggior parte delle donne si sono trovate prima o poi ed è raccontata proprio così, come la si racconterebbe ad un’amica, ridendoci su.
Il romanzo è diviso in tre parti che coincidono con le tre situazioni di Carla, convivente, single e innamorata:
1. nella prima Giampiero, il fidanzato, amareggia la vita di Carla, la classica insegnate precisa, colta e a volte vittima della sua stessa pedanteria, con la sua rozza scurrilità, il pavido materialismo, l’ignoranza presuntuosa e soprattutto con un’avarizia estrema, incomprensibile data la sua invidiabile situazione economica.
2. nella seconda Carla, dopo una inaspettatamente dolorosa separazione da Giampiero, ricomincia a uscire e incontrare gente, aiutata soprattutto dall’amica Federica, esperta nel far innamorare gli uomini per poi lasciarli. Carla si troverà così coinvolta in situazioni in cui si sente sempre fuori luogo e a disagio e conoscerà uomini sempre gretti e meschini. Sarà invece nell’ambiente della scuola che Carla conoscerà il grande amore, un insegnante di francese, Pietro Vartanian, che sembra però irraggiungibile perchè troppo bello e troppo giovane.
3. nella terza parte il sogno, contrariamente alle aspettative di Carla, si realizzerà, ma l’abitudine a vivere le situazioni in maniera poco autentica, la mancanza di fiducia in se stessa e la paura di commettere passi falsi, le causeranno comunque situazioni imbarazzanti.
La colite, filo conduttore della storia, nella prima fase è cronica, perenne fastidiosa, si caratterizza soprattutto come gonfiore addominale, tanto accentuato da sembrare agli occhi di molti una gravidanza, nella terza invece è più esplosiva si manifesta con coliche, bruciori, è quasi incontrollabile. Paradossalmente è quasi inesistente nella fase di single, come se quello in fondo fosse il momento di maggior serenità.
Il racconto è in prima persona, la voce narrante è della stessa Carla che rivive, come in un lungo flash-back, le vicende personali degli ultimi anni. L’umorismo è dato dalla comicità delle situazioni realistiche e imprevedibili, dalla mimesi dei dialoghi, spesso in dialetto romano, dalle considerazioni della protagonista. I personaggi entrano in scena con la forza di maschere teatrali e si muovono in maniera vivida e realistica per lo spazio della loro “esibizione”, lasciando il lettore colpito dalla loro crudezza, dalla loro forza comica ma anche dalla loro quotidianità: ognuno potrà ritrovare nelle situazioni vissute da Carla momenti della propria vita, persone conosciute nella realtà che diventano personaggi, sentimenti ed emozioni oggettivati dal dettato scorrevolissimo ed estremamente divertente. Il linguaggio è a tratti estremamente crudo ma nello stesso tempo articolato e bello. L’autrice spinge sull’acceleratore dello stile mai a caso ma solo quando alza il livello dei sentimenti e delle emozioni.
Al Circo
Così andammo al Circo. Per l’occasione Giampiero aveva deciso di vestirsi particolarmente male: indossava una maglietta verde fosforescente proveniente da un mio saggio di danza di dodici anni prima; pantaloni di poliestere grigi stretti alle caviglie ma larghi sui fianchi e, per colmo dell’orrore, sostenuti da una cinta del Charro scolorita e ammuffita con tanto di fibbia enorme come si usava negli anni ottanta, non l’aveva buttata, convinto che prima o poi sarebbe tornata di moda; come scarpe, i suoi vecchi sandali di camoscio stile centurione romano.
- Mettemose davanti, mettemose davanti- mi disse eccitato e nervoso.
Essendo lo spettacolo un omaggio o un risarcimento per i tanti soldi spesi inutilmente, si era fatto un punto d’onore l’arraffare il più possibile da quella serata. In realtà più che lo spettacolo da mettere in tasca c’era ben poco, ma Giampiero non avrebbe sopportato l’idea di non sedersi nel miglior posto possibile o di non vedere bene un numero o un’esibizione dei pagliacci.
Durante lo spettacolo mi sgomitava e mi chiedeva se avevo capito, se avevo notato la difficoltà del numero dei trapezisti, se avevo apprezzato l’intelligenza dei barboncini ammaestrati. Era eccitato, sudato, rideva ad alta voce, gridava battute per farsi notare. Insomma, tanto fece che al momento dell’esibizione dei clown Giampiero fu chiamato in pista. Un aiutante aveva infatti distribuito una carta enorme a quattro uomini del pubblico come se dovesse fare un numero di magia, poi invece li aveva semplicemente chiamati sull’arena per eseguire un numero. Mentre gli altri tre si lamentavano, scotevano il capo e si alzarono dal posto solo dopo le insistenze dei figlioli, Giampiero era al colmo dell’euforia. Mi guardava con aria di trionfo e rideva sgangherando la bocca.
Hai visto? Hai visto? E tu che volevi mettete dietro! Hai visto? Ora faccio parte dello spettacolo. E pensare che manco ho pagato.
Questa esibizione per lui significava aver profittato maggiormente del biglietto rispetto agli altri spettatori e quindi una nuova vittoria. È tipico degli animi meschini e attaccati al materiale non ammettere, se non davanti all’evidenza più netta, di aver subito una perdita, di averci rimesso qualcosa. Essi sono sempre pronti ad archiviare in fretta il ricordo della disavventura, ormai scesa al rango di inezia, piccolo fastidio, in nome di un nuovo, anche se modesto, guadagno.
Arrivato in centro alla pista Giampiero alzò le braccia in segno di vittoria, mentre gli altri tre se ne stavano a testa bassa cercando di nascondersi tra loro, rideva e faceva imitazioni di comici caduti nel dimenticatoio da secoli perciò nessuno capiva, tra l’altro neanche in quel frangente tralasciava di darsi le solite toccatine alle parti intime. I suoi vestiti orrendi erano in bella mostra davanti a centinaia di persone tanto che sentii mormorare dietro di me: -Guarda com’è vestito quello! Bah, deve far parte dello spettacolo, è una specie di clown d’accordo con gli altri, ora giocherà qualche tiro agli altri tre. È tutto preparato.
L’esperimento consisteva nel far sedere i quattro su quattro sgabelli posti a croce, farli sdraiare a braccia tese verso l’alto e poggiate sulle gambe dell’altro. Alla fine i corpi così incastrati si sarebbero dovuti reggere in piedi anche dopo la sottrazione degli sgabelli. L’esercizio, nonostante l’aspetto comico e scherzoso che i pagliacci cercavano di dargli, richiedeva una certa perizia da parte di chi sistemava i quattro spettatori e non sempre riusciva. In questo caso era evidentemente andato storto qualcosa e di certo per via di Giampiero. Infatti, al momento della scelta, Giampiero si era tanto sbracciato e agitato che erano stati costretti a chiamarlo, ma ad occhio si intuiva che le corporature dei partecipanti all’esperimento non erano per niente simili, come avrebbero dovuto essere per creare il giusto equilibrio: mentre gli altri tre erano alti e robusti, Giampiero era solo robusto ma non di certo alto. Questo rischiava di mandare in tilt l’esperimento. Cosa che puntualmente avvenne. I quattro uomini, privati delle sedie, non riuscirono a tenere la formazione e cominciarono a vacillare. Il presentatore guardò con aria di rimprovero il clown prestigiatore che abbassò gli occhi e allargò le braccia in segno di ammissione del proprio errore. Sembrava dicesse “sono stato costretto a scegliere quello”.
-Accidenti!- esclamò con voce squillante e apparentemente divertita il presentatore- questa volta il numero è andato male, ma…così è il circo! Facciamo un bell’applauso. Tutti applaudirono. I quattro malcapitati barcollavano e cercavano di sganciarsi dalla presa e due circensi li aiutavano. La scena era ridicola e molto imbarazzante per loro ma Giampiero pensò bene di renderla grottesca. Tra le risa del pubblico si udì distintamente la sua voce roca gridare:
-Regà. Nun mollate! Potemo ancora faccela! Daje!
Forse era convinto di sopperire alla mancanza di centimetri del suo corpo con la forza fisica o più probabilmente non aveva capito che si trattava di una sorta di gioco di prestigio e non di un terribile esercizio ginnico, comunque il risultato fu che nonostante le ripetute profferte di aiuto da parte dei circensi, Giampiero si rifiutò decisamente di liberare le braccia dalla morsa e cercò invece con uno sforzo mostruoso, di tenersi su nonostante la forza di gravità e i pochi punti di appoggio. Il suo volto era rosso e gonfio e i denti serrati e tutti in vista, gli occhi erano sprofondati di qualche centimetro all’interno delle orbite, strizzati a sangue, gridava e grugniva come sotto il bilanciere in palestra e incitava gli altri tre a fare lo stesso. Quelli erano al parossismo dell’imbarazzo e lo imploravano di smetterla. Dopo qualche secondo, per fortuna, piombarono tutti a terra. Il pubblico impazzì dalle risa, mentre il prestigiatore-clown guardava con aria vittoriosa il presentatore: era definitivamente riabilitato per l’errore della scelta dei partecipanti.
Giampiero si avviò al suo posto con l’aria di trionfo. Continuava ad abbracciare e mollare pacche sulle spalle agli altri tre che, evidentemente, non vedevano l’ora di raggiungere i figlioli e iniziare la faticosa via della rimozione di quel terribile episodio. Giampiero non smetteva di parlare.
-Sapete il mio segreto qual è? Il segreto della mia forza intendo! vi ho tenuti su per più di dieci secondi! Eh, volete sapere come ho fatto?
Nessuna risposta.
-Ebbene, tutte le mattine appena sveglio, quattro uova ma… attenzione! Solo l’albume.
-Molto interessante- rispose uno dei tre.
-…ma guardate che risultati. Guardate che bicipite! Ha, ha.
-Scommetto che sei così coglione che te le mangi crude!- disse quello e sparì in fretta verso la sua famiglia.
Giampiero mi raggiunse. Prima di sedersi però si tuffò tra le sedie come a raccogliere qualcosa e risorse con il viso ancor più illuminato di prima.
-Guarda!- esclamò con voce soffocata.
-Ma cos’è?- chiesi io.
Aveva in mano una vecchia cinta da donna di cuoio, alta e piena di strass scoloriti e rotti.
-Una cinta, ho trovato una cinta-
-Ma che ci devi fare? Sei matto? Buttala! Mi fa pure schifo.
-Vorrai scherzare. Dimentichi che tra poco è il compleanno di Beba? La metto un po’ a posto e gliela regalo.
-Ma sei matto? Magari è di una puttana, come puoi fare una cosa simile?
-Non sai come mi chiamano? “Il mago del restauro”. Farò un ottimo lavoro. Fidati, guarda che risparmiamo un bel po’, sai. Eeeh, oggi è proprio la mia giornata. Mi va tutto a meraviglia.
Non insistetti. Aveva bisogno di gratificarsi dopo quello che aveva passato in quelle settimane. Uscimmo dal tendone con il bottino della cinta e dello spettacolo indimenticabile.
La Coca Cola
Guido cominciò allora a fissarmi con intensità poco sopra gli occhi, al centro della mia fronte protendendo la sua in avanti. Io feci finta di nulla, sorrisi, provai a offrirgli un po’ di tè, ma lui sembrava concentratissimo, quasi in trance. Forse era l’aura che precede l’attacco epilettico…forse stava per svenire. Che sciocchezza uscire con uno sconosciuto!
- Cosa fai?- gli chiesi in procinto di chiamare un’ambulanza.
-Lui diede qualche segno di coscienza e chinò la testa in avanti.
-Ti guardo con il terzo occhio- rispose con voce roca.
-Ah, è il terzo occhio. Pensavo fosse un brufolo.
-Cosa? Cosa hai detto?
Per fortuna in quel momento terribile per me, passò un’auto con lo stereo altissimo che lo distolse dal suo esperimento.
- Musica commerciale, orribile. Tu che musica ascolti Carla?-
Sapevo che qualunque risposta lo avrebbe deluso. -Io ascolto molto la radio, difficilmente compro dei dischi, dunque…non c’è un cantante in particolare, ma mi piacciono molto i System of a down, gli U2…tra gli italiani, Carmen Consoli, Loredana Berté, Piero Pelù… Tu cosa ascolti?-
Guido, dopo aver contorto la faccia in un’espressione di raccapriccio all’udire i miei gusti, rispose: -Che orrore, che banalità. A me invece, che non sono scontato mai nei miei gusti, piace molto Chang Lee
- Chi?-
- Chang Lee, non lo conosci? È bravissimo. Fa una musica devastante. È Jonatan Claiyton della nuova generazione, almeno Claiyton lo conosci?
- Veramente no, ma forse Chang Lee l’ho sentito nominare.
- Ma certo, ha scritto la bellissima “La luna piena”, hai capito? Certo, è un cantante di nicchia, per pochi intenditori, iniziati direi quasi…non roba commerciale…per tutti. Diciamo che è tra il neogotico e il rock FM con influenze nu-metal. Capito? Senti questa – si mise una mano sul petto, socchiuse gli occhi in segno di lieve sforzo e cominciò a cantare-“E poi, se un vero amico tu sei, non mi dimenticheraiiii, maiii”-
Cantava a piena voce, agitando le mani e non sembrava volersi fermare. Dagli altri tavoli tutti lo guardavano con occhi sbarrati.
- “Un vero amicoooo non ti tradisce mai eeee sempre sarà con te”. Devastante, vero?-
- Già…
- Un grande autore. Sicura che non lo conosci? “Un vero amico, tuuu, lalalalalaaa”
A questo punto si ingobbì e cominciò a mimare un’esecuzione al pianoforte agitando istericamente le dita a martello sul tavolo e canticchiando le sciocche parole della canzone.
- No- ammisi io -non conosco questo …questo…Chang Lee-
- Ma sono io- fece il cameriere cinese che giungeva in quel momento.
- Ecco l’artista- esclamò Guido con orgoglio -stavo cantando la tua canzone. Vieni, unisciti a noi-
Guido e il cameriere cinese cominciarono a cantare insieme cingendosi reciprocamente le spalle con le braccia. Ero disperata, sorridevo tristemente.
- Ti presento Carla. Vedi, lui è un grandissimo artista, adesso per pagarsi da vivere fa il cameriere, ma di notte scrive. “Perchèèèè, se un vero amico tu sei, ci coccoliamo a vicenda”. Bravo Chang canta con me.
-“Un vero amico, tuuu”- cantava anche Chang
Va bene, ma ricordatelo quando porti il conto uah, uah, uah.– disse mettendo il riso nei piatti come a fare il galante, seppur dandone pochissimo a me e scodellando tutto il resto nel suo, senza omettere di tenere i gomiti alzati e mostrare le ascelle bagnate.
Chang si allontanò canticchiando.
- Non sei fiera di conoscere un simile artista?- mi chiese.
- Può sicuramente fare strada, è giovane.
-Sì, ha solo quarantacinque anni, può ancora dire molto. Ora mangiamo questo “lauto pasto”, he, he, he. -
Si gettò ancora sul piatto e prese a scaraventarsi il cibo in bocca con mani nervose.
- Sai Carla,- disse dopo aver finito, cioè dopo pochi secondi- sai perché amo il riso cantonese? Perché c’è quel soffritto che ha tutta una valenza particolare.
- La valenza del soffritto?
- Sì, certo. Sebbene non posso certo abbandonare la pizza, perché la pizza è materna, perché il pomodoro è come il sangue, la pasta è come la carne. Tu sei della mia stessa scuola di pensiero?
- Mi sembra un po’ blasfemo.
- Tu cosa vuoi dire con questo? Come ti poni veramente? Apriti, lasciati leggere nell’anima.
- Sai, di solito io la pizza la mangio- risposi cercando di metterla sulla scherzo- Vedi che bel tempo? Questa domenica pensavo di andare al mare, speriamo che il tempo rimanga così. -Ero al colmo del disagio.
- Che rapporto hai con il mare? Che cosa significa il mare per te. Sai perché te lo chiedo? Perché è difficile trovare due persone che abbiano lo stesso rapporto con il mare, però sento che io e te lo viviamo allo stesso modo.
- Penso che bisognerebbe provarlo. Non credo che sia una cosa spiegabile con parole.
- Oh, arriva il secondo. Gustiamoci questo “lauto pasto”, he, he, he.
Continuava a ripetere questa specie di battuta del “lauto pasto” sperando che io, prima o poi, avrei riso.
Improvvisamente precipitò la testa sotto il tavolo e cominciò a cercare qualcosa nella sua borsa di cuoio chiaro, agiva furtivo e veloce guardando nervosamente verso le cucine e facendomi l’occhiolino. Finalmente estrasse e pose sul tavolo una bottiglia di Coca Cola.
- Ma che fai? Sei impazzito?- esclamai io.
- Perché? Al supermercato cosa un euro, qui più del doppio, perché devo farmi fregare?-
- Ma che c’entra, anche il riso se te lo fai casa costa meno che qui…-
- Appunto-
- Appunto cosa?-
- Perché dobbiamo sprecare il denaro? Mi sembra sciocco e ingiusto nei confronti di chi soffre la fame. Io ieri, ad esempio, ho commesso una leggerezza imperdonabile. Vuoi sapere cosa? Ho gettato dell’olio d’oliva dopo averlo usato. Ci avevo solo fritto le melanzane, le cotolette e le patatine ma…era ancora buono, avrei potuto condirci l’insalata…che so…-
- Secondo me non è grave. Se vuoi fare del bene puoi dare denaro in beneficenza, aiutare i poveri…-
- Lo ho fatto. - rispose fiero -lo ho fatto proprio questa mattina. Ascolta, ascolta! Devi renderti conto di quale cuore batta dentro questo petto. C’era un povero accattone che chiedeva l’elemosina. Aveva un cartello con scritto “ho fame” ed io, sono andato subito all’alimentari a comprargli una bottiglia di Coca Cola. Che persona buona che sono, vero?-
A questo punto non potei fare a meno di ridere -Coca Cola a chi ha fame? Già che c’eri potevi comprargli un digestivo. Diceva “ho fame” non “aiutami, mi è rimasta pesante la bagna cauda”-
Guido ridacchiò come se gli avessi fatto un complimento. - E’ vero- consentì -anche io odio la Coca Cola e gli americani. Ho partecipato alla campagna anti-cocacola. Ho anche scritto una poesia contro di loro e voglio proprio che venga pubblicata. Farò di tutto, non mi importa di mettermi contro qualche pezzo grosso, non mi importa di offendere un paese così grande. La leggeranno tutti, se è vero che mi chiamo Guido Bucirotti-
Di nuovo scoppiai a ridere
- Ecco come ti chiami: Buci rotti! Ora capisco perché hai scelto un nome d’arte!-
Mi resi conto di non essere stata simpatica, cercai di rimediare cambiando discorso, ma Guido non aveva fatto una piega alla mia battuta poco fine. Era una di quelle persone che, anche se escono con qualcuno sono sempre insieme solo a se stesse, proseguono il loro discorso indifferenti alle obbiezioni e ai commenti, come un asino che marcia nella tempesta. Tuttavia pensai di rimediare chiedendogli di recitare la sua poesia.
Guido tossì e ridacchiò pregustando il suo successo. Poi cominciò con voce profonda e cavernosa:
- Gueraaaaa…
Ho paura come un pulcino.
Dov’è la mia chioccia? Pio…pio…
Americani indifferenti ai lamenti dei bimbi
È scoppiata la guerra
E i bimbi curdi hanno paura…
Intanto lui beve Coca Cola.-
Tirò su il suo bicchiere e se lo scolò velocemente. Pensai che forse avrei potuto fingere di raccogliere qualcosa da terra per poi fuggire gattonando dal ristorante, ma sarebbe stato difficile. Dovevo dire qualcosa. Assunsi uno sguardo estasiato.
- Ma è bellissima- commentai con un filo di voce per fingermi emozionata.
- Lo so, è veramente devastante. Tra poco avrai altri motivi per apprezzarmi, he, he- rispose strizzando l’occhio. Capii che era un riferimento ben preciso a qualcosa che nella sua testa doveva avvenire dopo cena.
-Ma ora gustiamoci questo “lauto pasto”, he, he, he.
- Maledetto…- sussurrai tra i denti.
La settimana bianca
Mi recai sulla pista topolino. La sera prima, avendo deciso di prendere lezione, mi ero segnata ad un corso per principianti. Sul luogo dell’appuntamento c’erano solo bambini. Appena mi videro cominciarono a fare ampi cenni con le braccia.
- La maestra, la maestra. Ecco la maestra.
Era logico, vestita come Deborah Compagnoni alla Coppa del Mondo, non potevo essere certo una principiante. Abbassai gli occhi dallo scorno e mi misi accanto a loro. Il maestro, prestante dentone dall’alito avvinazzato, non faceva che tirarmi battutine e trattarmi da stupida. I bambini si contorcevano dalle risate nel guardarmi. Finita la lezione continuai a fare la topolino per diverse volte.
Non conscia del fatto che la pendenza di quella pista fosse più o meno quella di un terrazzo, verso mezzogiorno feci l’errore di ritenermi sufficientemente abile. Così quando incontrai tre ragazzi del quinto, piuttosto bravi ed esperti, mi feci convincere a seguirli alla pista rossa, covando in me la segreta speranza di vedere Pietro.
Dalla seggiovia, mentre guardavo verso il basso, mi infondevo coraggio vedendo scendere donne e bambini che sciavano senza un briciolo di stile e mi dicevo: - La mia tecnica è di gran lunga migliore, guarda come gira quello! Mi viene da ridere. -
Non caddi alla discesa dalla seggiovia perché mi sostennero i ragazzi, ma lo feci dopo qualche metro di pista. Mi rialzai e andai avanti per un lungo tratto, visto che la pendenza era abbordabile e non più difficile della pista topolino. I miei alunni mi precedevano saltando sulle cunette o procedendo su uno sci solo. Notai che più avanti la vallata sembrava come interrompersi salendo leggermente. Raggiunsi quel punto e caddi ancora.
- Non fa nulla, non fa nulla- dissi per sdrammatizzare.
Purtroppo guardai in basso: era una pendenza assolutamente spaventosa, gli sciatori in basso mi sembravano piccoli come formiche e il vento soffiava violentemente alle mie spalle come una minaccia. Cominciai a scendere, potevo farcela, sì, bastava un po’ di coraggio. Uno sci scappò via e precipitai giù per alcuni metri rimanendo però miracolosamente in piedi, fu come cadere da un palazzo. Riuscii a bloccarmi frenando a spazzaneve e puntando le racchette con tutta la forza che avevo nella neve. Il terrore era diventato panico. Gli alunni non mi badavano ed erano già lontani. Uno di loro si girò e mi vide.
- Venga, venga prof.-
Il cuore mi batteva all’impazzata, il respiro era diventato affannoso e rotto. Se provavo a muovere una racchetta, il piede precipitava verso il basso, allora contraevo le gambe in un estremo spazzaneve e cercavo di rimanere immobile. Dopo qualche minuto le gambe erano diventate di fuoco, i muscoli sembravano voler esplodere come una corda troppo testa che comincia a sfilacciarsi. Non potevo più tenere quella posizione ma ogni movimento poteva essermi fatale. Mi resi conto che gli sciatori che avevo denigrato dalla seggiovia mi sfilavano di fianco con scioltezza e senza indugio anche se “mancavano di stile”.
Ancora qui prof.?
Dissero gli alunni sfrecciandomi accanto e scomparendo velocemente un’altra volta verso il basso. Provai a chiamarli sorridendo ma non ci riuscii. Passarono diverse decine di minuti ma io non abbandonavo la mia postazione. La cosa peggior che poteva capitarmi in quel momento, era che passasse Pietro. Per fortuna ripassarono invece i miei alunni.
Non ci volle molto perché capissero la gravità della situazione. Cercarono di convincermi con le buone a seguirli, mi spiegarono che bastava lasciarsi andare, che scendendo a spazzaneve potevo farcela, ma era tutto inutile. Continuavo a voltarmi nel timore di vedere Pietro, e assicuravo che no, non potevo seguirli, non potevo far nulla e diventavo sempre più nervosa. Certo Pietro non c’era, ma la figuraccia di donnetta terrorizzata davanti a persone che di solito devo torchiare durante le interrogazioni la stavo facendo eccome. Questo mi innervosiva ulteriormente e il mio panico cresceva. Alla fine, vedendo che ero assolutamente inconvincibile, decisero di chiamare aiuto. Mi avrebbero fatto portare via in barella o qualcosa del genere. Io accettai pensando che se Pietro mi avesse vista, avrei finto una slogatura alla caviglia. Riuscii a rilassarmi un po’ e a prendere una posizione un po’ più comoda.
Dopo venti minuti arrivarono due carabinieri. Non potei fare a meno di notare che non avevano appresso alcuna barella. I miei alunni si dileguarono e i carabinieri cominciarono a loro volta a spiegarmi in che modo dovevo scendere. Il panico si mischiò a rabbia e cominciai a rispondere con durezza alle loro parole di conforto. Mi dissero con tranquillità, nel loro accento altoatesino, che se non avevo il coraggio di muovermi uno di loro mi avrebbe portato sulle spalle. La mia collera divenne più forte. Cominciai a urlare ed insultare i carabinieri denigrando il loro lavoro e tutta l’arma.
Ma signorina si calmi, la prego- disse il più nerboruto – venga, la prendo sulle spalle e tra cinque minuti siamo a valle.
Io cominciai a piangere – Non voglio nessuno. Lasciatemi sola, lasciatemi qui.
Dopo altri venti minuti ero sulle spalle del più nerboruto mentre l’altro mi portava gli sci. Gli sciatori si fermavano al nostro passaggio e ci guardavano sconvolti, ma il coraggioso carabiniere non si scomponeva e filava come il vento. Affondavo la faccia nella sua schiena per la paura della velocità e quella di incontrare Pietro. Eravamo quasi arrivati quando ciò avvenne.
Pietro si avvicinò pallido di preoccupazione.
- Cosa è successo?- chiese – ti sei fatta male?
Io cercai di rispondere ma il carabiniere mi anticipò.
La signorina ha avuto un attacco di fifa blu- disse con il suo forte accento altoatesino- ma non c’è problema ora è tutto OK.
Lo smacco era stato così forte che quella sera non uscii dalla mia camera e il giorno dopo decisi di prendere ancora lezioni di sci ma questa volta con un insegnante privato.
In effetti il mio panico era stato eccessivo. Sarebbe bastato cimentarmi in piste più facili e poi, pian piano, acquisire sufficiente tranquillità anche per una pista rossa.
Il mio maestro di sci seppe darmi molta sicurezza in me stessa. Lo stile mancava ma le piste non erano più un problema per me: se la pendenza era troppa, bastava lasciarsi cadere a spazzaneve curvando il più possibile.
Al quarto giorno ero abbastanza sicura per rispondere di sì all’invito di Pietro di sciare con lui e alcuni alunni.
Le cose non potevano andare meglio. Tutti lodavano il mio stile e la rapidità con cui avevo imparato. Io feci notare che il problema non era stato imparare ma ricordare, in quanto da ragazzina ero stata piuttosto bravina.
Erano menzogne, ma l’amore mi spingeva a rischiare. Pietro mi stava vicino, mi sorrideva ed era uno spettacolo vederlo sciare.
Tutto filò liscio finché ad una pista non rimasi terribilmente indietro rispetto al gruppo. Ero in cima, mentre loro già erano in fila per salire sulle seggiovie. Fui presa dal terrore di perderlo e mi misi a sciare a tutta velocità. Gli sci erano paralleli e la pendenza era forte. Presto persi il controllo e cominciai a non poter più frenare. La staccionata della seggiovia era intasata di gente che mi guardava sconvolta. Alcuni facevano il gesto di coprirsi il viso per non vedere la mia fine, altri mi gridavano di frenare o di buttarmi verso destra. Ma andavo troppo velocemente e gli sci non rispondevano ai comandi. Non mi fermai finché gli sci non si furono bloccati al primo ostacolo: la staccionata della seggiovia, e la testa fu catapultata violentemente contro di essa.
Per qualche istante vidi tutto nero ma presto tornò la luce. Pensai solo ad una cosa: Pietro era lontano e l’avrei perso per tutta la giornata se non lo raggiungevo subito. Gli sciatori mi guardavano con le bocche aperte come se aspettassero da me un segno di vita dopo l’immane capocciata, provai a sorridere per sdrammatizzare ma nessuno rispose al mio sorriso. Io mi alzai facendo la vaga e mi misi a fare la fila come se non fosse successo nulla.
Mentre salivo non pensavo all’incidente ma al fatto che per una stupida distrazione mi ero persa il gruppo e lui se ne era andato avanti senza accorgersi del mio ritardo. Avrei passato il resto della giornata da sola perché su quelle piste non era facile ritrovarsi ed era ancora mattina. Che cosa tremenda! Mi veniva da piangere, ore e ore senza di lui e poi forse la sera mi avrebbe ignorata per parlare con le alunne del quinto o nel migliore dei casi, trascurata per il regolare controllo sulle stanze che non durava certo una manciata di minuti.
Invece Pietro mi stava aspettando all’arrivo della seggiovia e soprattutto era solo. Fu come vedere Gesù in persona che mi indicava la strada della mia vita.
-Mi sono accorto scendendo dalla seggiovia che tu non eri dietro di noi! Ma quando ti sei allontanata? Ti abbiamo aspettato per un po’, ma poi gli altri se ne sono voluti andare.- mi disse sorridendo.
-Potevi andare anche tu…mi dispiace che hai perso tempo. Vi avrei raggiunti lo stesso, non era mica un problema.
-E se non ci riuscivi? Le piste sono molte.
-Beh avrei sciato da sola per oggi. Che sarà mai!
-Ma vuoi scherzare!
Salimmo insieme sulla seggiovia seguente che per poco non ci tenevamo per mano. Il tragitto era lungo, per fortuna, e parlammo ininterrottamente in piena sintonia. Era come se lui andasse a cercare i ragionamenti nel mio cervello e poi me li riferisse senza cambiarli. Non ero mai stata tanto bene con una persona, non pensavo neppure che si potesse stare così con un uomo.
Ad un certo punto però Pietro mi guardò la fronte.
-Ma cos’hai sotto la fascetta? Perché ti sta così?
Non feci in tempo a fermarlo che già l’aveva sollevata. Lo sgomento si disegnò nei suoi occhi.
- Oh mio Dio! Ma cosa ti è successo? È tutto gonfio e viola. Ti esce anche del sangue! Ma stai bene?
- He, he. Ho preso una piccola botta sotto, ma non è niente-. Cercai di sminuire
- Come non è niente? Ti devo portare in ospedale. È enorme.
Cercai di protestare ma, in effetti, mi sentivo sempre peggio. La fronte mi tirava ed avevo nausea e mal di stomaco. Mi vedevo già all’arrivo della seggiovia chinata a novanta gradi, vomitarmi l’anima mentre Pietro mi guardava. Per fortuna mi ripresi.
S.M.
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