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I cristiani pronti a cedere il Libano all’Iran di Rolla Scolari
da il giornale
Negli Stati Uniti sono l’Ohio e la Florida a determinare un’elezione. In Libano, il colore del Parlamento sarà dato, domani, dal voto dei cristiani.
«Non c’è dubbio – dice l’esperto Paul Salem da Beirut – sono loro lo swing vote». Se Hezbollah, il partito sciita di Hassan Nasrallah, guiderà la politica
portando così il piccolo Paese levantino sotto l’influenza dell’Iran,lo deciderà la battaglia elettorale nei distretti cristiani. Sunniti e druzi sono con il blocco pro-occidente del 14 marzo, attuale maggioranza, alla testa del quale c’è il giovane Saad Hariri, delfino dell’ex premier Rafiq, ucciso in un attentato nel 2005. Dall’altra parte, l’opposizione sciita del Partito di Dio, sostenuto da Teheran. Divisi tra i due schieramenti ci sono i cristiani. Il generale maronita Michel Aoun ha alleato le bandiere arancioni del suo Free Patriotic Movement con quelle gialle di Hezbollah dal 2006. I suoi voti possono fare la differenza. Con gli sciiti, anche gli armeni del Tashnag. Il Kataeb, della famiglia maronita dei Gemayel, e le forze libanesi di Samir Geagea sono invece i maggiori gruppi cristiani del 14 marzo. Spiega Paul Haidostian, rettore dell’università Haigazian, della Chiesa armena protestante di Beirut, che «per le regioni sciite, sunnite o druze, abitate da una sola componente religiosa che propende verso un determinato campo politico, si conosce già il risultato. Nel caso dei cristiani, con diverse mentalità, alleanze e denominazioni religiose, è più difficile fare previsioni».
Si sapeva da tempo che la battaglia sarebbe stata all’ultimo voto. Per questo la campagna elettorale è stata intensa. Il Paese è tappezzato da cartelloni colorati spesso così sofisticati da assomigliare più a patinate reclame di moda
che a strumenti di politica. Sui manifesti, a ricordare il carattere feudale della politica locale, compaiono gli stessi nomi di sempre, ma facce diverse:
Sami Gemayel, giovane figlio dell’ex presidente Amin e nipote del leader Bashir, ucciso nel 1982; Michel Moawad, figlio di un altro leader assassinato; Nayla Tueni, il cui padre, Gibran, è saltato in aria in un attentato nel 2005.
Contano immagini, slogan e soprattutto simboli: una mano chiusa impugna un ramoscello d’ulivo verde. È il nuovo logo del 14 marzo, in volontario contrasto
con il pugno chiuso che stringe un AK47, simbolo del Partito di Dio e delle sue
milizie. Il blocco di Hariri ha fatto campagna sul disarmo dei gruppi armati libanesi estranei all’esercito. «Il cittadino cristiano deve scegliere tra lo Stato senza armi e uno stato nello Stato», dice al Giornale Boutros Harb, membro maronita della maggioranza ed ex candidato presidenziale.
Il voto libanese trascende i confini del piccolo Paese: il risultato di domani consegnerà un nuovo equilibrio alla regione. «È l’Iran contro l’Occidente», ha scritto l’analista Amir Taheri sul Wall Street Journal. Il vice presidente americano Joe Biden, a Beirut aveva detto: «Valuteremo la forma della nostra assistenza sulla composizione del nuovo governo». Gli Stati Uniti, che considerano Hezbollah un’organizzazione terroristica, hanno fornito 500 milioni
di dollari in aiuti militari al Libano dal 2005. Washington e alleati, Egitto e Arabia Saudita in testa, spaventati dall’espansionismo iraniano, guardano con apprensione a una possibile vittoria del Partito di Dio e dell’asse pro-Iran.


G.C

 
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