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In Turchia è guerra per bande
09 Giugno 2009 TEMPI.it
Divampa il conflitto a colpi di manette, processi e trame segrete tra gli ultralaici e l’islamico Erdogan. Neanche l’inviolabile storia della repubblica e uscirà indenne di Marta Ottaviani Istanbul

A questo in Turchia non avrebbe mai pensato nessuno. Eppure la telenovela dello scontro fra il premier islamico-moderato Recep Tayyip Erdogan e il vecchio establishment kemalista ha toccato il nervo più scoperto. E tutto si potrà dire, ma non che a Erdogan sia mancato il coraggio o che non abbia sparato alto. Qualche giorno fa il capo dell’esecutivo della Mezzaluna si trovava a Duzce, cittadina a pochi chilometri dalla costa occidentale del Mar Nero, e durante un discorso pubblico ha ammesso – nessun capo di governo lo aveva mai fatto nella storia della repubblica turca – che nel passato del paese sono state compiute ai danni della popolazione pratiche illegali e antidemocratiche, atti che Erdogan non ha esitato a definire “fascisti”.
Si riferiva in particolare al pogrom del settembre 1955, quando migliaia di greci di Costantinopoli furono costretti ad abbandonare Istanbul (soprattutto il quartiere di Beyoglu) cacciati in buona dose dalle loro proprietà da una folla di ultranazionalisti, che fecero comunque in tempo a uccidere 17 persone e a razziare tutto quello che trovavano sulla loro strada. Un episodio di pulizia etnica in piena regola per il quale sei anni più tardi il primo ministro Adnan Menderes sarà condannato a morte in seguito al primo golpe militare del 1960, per poi venire riabilitato negli anni Novanta. Un ricordo, quello del 1955, rimasto impresso nella memoria di molti turchi, anche perché all’epoca in Turchia la comunità greca era la minoranza religiosa più consistente (quella armena era scomparsa quasi interamente nel 1915). «In questo paese – ha detto Erdogan – per anni identità diverse da quella turca sono state mandate via dal paese. E questo è stato fatto nella consapevolezza generale, con un approccio fascista. Per molti anni si sono verificati fatti negativi per le minoranze etniche che vivevano qui. Ci furono operazioni di pulizia etnica per via della loro identità diversa. È arrivato il momento di capire come mai quei fatti sono avvenuti e che cosa abbiamo imparato da questi.
Si è trattato del risultato di una concezione fascista. Siamo caduti anche noi in questo grosso errore».
Insomma il primo ministro ha ammesso pubblicamente quello che in Turchia nessuno oserebbe dire nemmeno per scherzo, pena un processo per insulto all’establishment militare e alla magistratura (e appena dieci anni fa si rischiava di subire conseguenze anche più serie). Un gesto che nel paese non è passato inosservato. Il quotidiano Vatan, di orientamento liberale, non ha esitato a parlare di «discorso storico» da parte del capo del governo.
Associazioni di legali vicine all’Akp, il Partito per la giustizia e lo sviluppo che detiene la maggioranza in Parlamento, hanno reso noto che Erdogan con questa dichiarazione ha dimostrato come gli sforzi del governo siano volti a rimuovere gli ostacoli rimasti sulla strada verso la democrazia del paese.
Naturalmente non sono mancate le critiche, anche feroci, provenienti soprattutto dall’opposizione laica. Il Chp, il Partito repubblicano del popolo, ha accusato il primo ministro di aver voluto calcare la mano, perché tacciare la storia turca di fascismo sarebbe “fuorviante”. L’Mhp, il Partito per il movimento nazionale a cui fanno riferimento anche i Lupi grigi e che in passato ha appoggiato la legge di Erdogan sul velo nelle università, poi bocciata dalla Corte costituzionale, ha dichiarato che il premier con la sua ammissione ha scritto «la pagina più nera» da quando è salito al potere.
Se il leader voleva far parlare di sé ha raggiunto il suo scopo. Forse, però, l’unico che ha inquadrato il discorso nel modo giuto è stato Cengiz Aktar, editorialista molto noto in Turchia, che pur prendendo atto della portata dell’outing di Erdogan ha fatto notare che le leggi a tutela delle minoranze (poche e troppo blande per un paese che aspira a entrare nell’Unione Europea)
non vengono applicate nemmeno nella Turchia odierna, governata dall’Akp.
Il che può volere dire due cose. La prima è che Erdogan predica bene ma razzola, se non come le persone che ha accusato, certo non nel migliore dei modi. La seconda è che l’outing del premier potrebbe essere assimilato a uno sfogo, all’ultimo modo che il primo ministro ha per dare una spallata a chi, probabilmente, non lo lascia lavorare come lui vorrebbe e come l’Europa si aspetta.

Tutto cominciò con la legge sul velo Difficile dire dove stia la verità e certamente, visto il comportamento del premier in diverse occasioni, chi lo accusa di spendere solo belle parole potrebbe non avere tutti i torti. Ma, a osservarlo bene, il gesto di Erdogan appare più come il massimo grado di una contrapposizione con una parte di Turchia, quella che si usa designare ultralaica, che va avanti ormai dal 2007, anno in cui l’Akp ha stravinto le elezioni politiche, conquistando il 46,6 per cento dei consensi.
Ad accendere la contesa sicuramente sono stati il premier e la sua formazione politica, proponendo come primo provvedimento una legge che andava a toccare uno degli argomenti più spinosi per la componente laica dello Stato, ossia la liberalizzazione del velo nelle università. La norma fu approvata nel febbraio dell’anno scorso e rigettata dalla Corte costituzionale dopo pochi mesi perché ritenuta contraria ai princìpi laici su cui poggia lo Stato fondato da Mustafa Kemal Atatürk. Contemporaneamente la Yargitay, la Procura generale della Repubblica, aveva messo l’Akp sotto accusa per attività antilaiche e volte a distruggere l’unità nazionale, chiedendo l’allontanamento per cinque anni dalla vita politica del premier Erdogan, del presidente della Repubblica Abdullah Gül, e di altri 59 dirigenti. Praticamente un azzeramento di una bella fetta della classe politica. Gli ultralaici si aspettavano che i magistrati della Suprema corte ripetessero la decisione presa già altre 25 volte nella storia del paese, e cioè che sopprimessero l’Akp, partito votato da 17 milioni di persone. Invece Erdogan si è salvato, ancorché per un voto solo. Ma da quel momento è iniziato per lui un calvario di altro tipo, dal quale il premier sicuramente non uscirà illeso.
Con l’assoluzione di Erdogan e dei suoi è iniziata contro di loro una guerra sotterranea, alla quale l’esecutivo ha risposto con l’inchiesta contro Ergenekon, l’organizzazione segreta che fa capo al “Derin Devlet”, lo Stato profondo, che annovera fra le sue schiere estremisti laici e islamici, elementi deviati dei militari e dei servizi segreti, politici corrotti ed elementi della mafia locale. Ergenekon è accusata di terrorismo, tentata strage, colpo di Stato, nonché di aver tramato in ogni modo per abbattere il governo Erdogan. Le ondate di arresti vanno avanti da mesi, e nel paese si fa sempre più largo l’ipotesi che il premier stia usando un’operazione così importante per il futuro della Turchia anche per mandare in disgrazia, tramite l’arresto, persone in realtà estranee ai fatti, in primis militari, magistrati, politici, soprattutto curdi, e intellettuali. Le retate, infatti, sono sempre composte di decine di persone. Una buona metà viene rilasciata il giorno dopo. A nutrire dubbi sulle modalità di questi arresti sono ormai anche alcuni membri dello stesso esecutivo, come il ministro della Cultura Ertugul Gunay.

C’è pure lo scandalo internazionale Ma se Erdogan pensava che questo bastasse a pareggiare i conti si sbagliava di grosso. A settembre 2008, proprio quando, finalmente libero dalla sentenza della Corte costituzionale, poteva dare il via alle riforme, per il premier è arrivata un’altra brutta sorpresa: il suo braccio destro Mehmet Dergin Firat è rimasto coinvolto in una frode internazionale legata all’associazione benefica “Deniz Feneri” (Faro del mare), che raccoglieva soldi dai turchi residenti
all’estero, soprattutto in Germania, ma che anziché darli in beneficenza, li riservava ad altri fini. Quali fossero questi fini ancora non è stato chiarito, ma fra le ipotesi del quotidiano Radikal c’è anche il finanziamento di Hamas.
Di certo sette milioni di euro sono finiti nelle mani di un alto dirigente dell’Akp, identificato appunto in Firat. Il processo tedesco si è concluso con una condanna a cinque anni di carcere per i responsabili dell’associazione.
Adesso, però, i fascicoli sono a disposizione della magistratura turca, che li ha fatti tradurre e li esaminerà presto. E intanto l’Akp ha già subìto gli effetti di questo scandalo: ha perso otto punti alle elezioni amministrative di marzo, batosta che ha costretto Erdogan a un rimpasto di governo che gli ha procurato più critiche che consensi. I lavori per la nuova Costituzione, inoltre, procedono a rilento. Poi ci sono i difficili rapporti con l’esercito, storicamente considerato il garante della laicità kemalista della Turchia.

Il generale Ilker Basbug, capo di Stato maggiore, in febbraio ha pensato bene di fare visita al capo del governo e al presidente della Repubblica, per far sapere loro che cosa pensasse dell’affare Ergenekon. Il risultato? Da allora il premier incontra Basbug ogni giovedì.
In questa escalation di cannonate, Erdogan aveva bisogno di caricare un pezzo da novanta: l’atteggiamento nei confronti delle minoranze etniche e religiose.
Che forse è anche l’ultima carta che gli resta da giocare.

G.C.

 
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