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Stiamo perdendo la Turchia
da il foglio
Toni freddi con Israele, rapporti stretti con i vicini, soprattutto con l’Iran.
L’Ue interessa sempre meno Il governo turco ha iniziato una serie di manovre diplomatiche che portano
dubbi e sospetti a Washington, a Gerusalemme e a Bruxelles. L’ultimo allarme è suonato il mese scorso, quando il premier, Recep Tayyip Erdogan, ha impedito che l’aviazione israeliana partecipasse ai war game della Nato in programma sul territorio turco. Pochi giorni più tardi, Ankara ha lanciato una partnership
militare con la Siria, grande spalla dell’Iran in medio oriente. La doppia scelta solleva diffidenza fra gli alleati dell’occidente. La Turchia si è davvero allontanata dall’Europa? Quali fattori provocano questo processo? Il
governo filo islamico di Erdogan è ancora affidabile? Per Soner Cagaptay, un esperto del Washington Institute For Near East Policies, “è come se avessero spostato una montagna: per la prima volta dopo sessant’anni, un governo turco prende le distanze dall’Alleanza atlantica e si sposta verso est”.

Cagaptay è l’autore di un saggio pubblicato sulle pagine di Foreign Affairs che mette in discussione il ruolo svolto dal Partito giustizia e sviluppo (Akp), al quale appartengono il premier Erdogan e il presidente della Repubblica,
Abdullah Gül. I guai con Israele risalgono a gennaio, allo scontro militare che ha permesso all’Idf di sconfiggere Hamas, ma ha anche provocato centinaia di morti civili nella Striscia di Gaza. Erdogan ha chiarito il proprio punto di vista in primavera, durante il summit economico di Davos. Prima di abbandonare l’incontro senza strette di mano, ha accusato Israele di “crimini contro l’umanità”: è una svolta radicale dopo la lunga era di sostegno alla lotta contro il terrorismo. “Adesso le sue parole diventano azione politica – dice al Foglio Cagaptay – Questa trasformazione può portare molteplici conseguenze: se l’islamismo guiderà il paese, la Turchia lascerà le policy dell’occidente”.
Per anni, il governo turco ha avuto più problemi in patria che all’estero.
L’Akp ha vinto le ultime elezioni con il 47 per cento dei voti, ma ha rischiato di essere sciolto per attività sovversive: secondo i rappresentanti dell’opposizione, Erdogan vuole trasformare la Turchia moderna e laica di Kemal in uno stato islamico. L’opinione pubblica è profondamente divisa. Contro il premier si è schierato Ayidin Dogan, un magnate della stampa che controlla tre televisioni e quattro quotidiani. Un processo giudiziario terminato nel 2008 ha pulito il movimento da ogni accusa e ha fatto salire il consenso intorno al
governo. Il Gruppo Dogan è sotto inchiesta per frode fiscale: se perderà la causa, dovrà pagare al Fisco una multa da tre miliardi di dollari. Forte del successo, il premier si è mosso con maggiore sicurezza sulla scena
internazionale: ha chiuso un accordo di pace con l’Armenia, ha proseguito le trattative per risolvere il caso di Cipro e ha rilanciato i rapporti con due vicini pericolosi come l’Iran e la Siria.
Teheran porta avanti da mesi un programma nucleare clandestino e i servizi segreti americani ritengono che abbia uranio a sufficienza per costruire armi atomiche.
La comunità internazionale ha già approvato diverse sanzioni contro il regime.
Nei giorni scorsi, Erdogan ha incontrato il presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad, e ha lanciato un messaggio ambiguo a quelli che dovrebbero essere i suoi alleati: chi è contrario alla armi atomiche, ha detto, dovrebbe distruggere le proprie. Le parole del premier turco offrono una sponda agli ayatollah e rischiano di accendere i sentimenti antioccidentali in Anatolia.
Proprio ieri, a Trabzon, alcuni studenti hanno lanciato uova contro l’auto dell’ambasciatore di Gerusalemme, Gabby Levy, al grido di “Israele è un assassino”. Non è una buona notizia per l’occidente, ma nemmeno per Erdogan. In Turchia, l’opinione pubblica è divisa sulla politica interna, ma sembra più compatta quando entra in gioco la situazione internazionale, altro segnale poco incoraggiante per Israele e per il Patto atlantico. Neppure l’esercito,
l’apparato più laico e più distante dalla dottrina filo islamica dell’Akp, ha preso le distanze dalla svolta. Per il direttore del German Marshall Fund di Ankara, Ozgur Unluhisarcikli, “qualunque governo deve tenere conto
dell’opinione pubblica, ma quello turco ha i numeri e la forza per portare senza ostacoli avanti il proprio piano di politica estera”.

Lo stratega di Erdogan si chiama Ahmet Davutoglu e guida il ministero degli Esteri da pochi mesi. Davutoglu appartiene alla nuova classe di conservatori filo islamici arrivata al potere negli ultimi dieci anni. E’ nato a Konya,
nella parte centrale dell’Anatolia, e ha costruito la propria reputazione all’Università Bilkent di Istanbul. La sua dottrina è scritta in un libro,
“Profondità strategica”, che ispira ogni mossa del governo turco. Il principio guida è semplice: per acquisire peso sulla scena internazionale, la Turchia deve avere soltanto amici nel cortile di casa. Sembra una regola convincente,
ma può diventare pericolosa quando i vicini si chiamano Iran, Iraq e Siria.
“Negli anni della Guerra fredda eravamo la periferia del mondo e dovevamo usare la forza per difendere i nostri confini – dice al Foglio Rashat Arim, un collega di Davutoglu alla Bilkent – Oggi siamo tornati al centro, siamo consapevoli del nostro ruolo e abbiamo la possibilità di usare strumenti diversi. Israele è sempre nostro alleato, ma questo non significa che non possiamo criticare le sue azioni quando riteniamo che siano sbagliate. Siamo l’unico paese d’Europa in grado di trattare con tutti, Hamas compreso.
L’occidente non può fare a meno di noi”.
Negli anni Novanta, la Turchia ha chiuso le frontiere con l’Armenia e ha minacciato di invadere la Siria per interrompere i legami fra il regime di Damasco e i separatisti curdi del Pkk. La strategia è cambiata radicalmente con i filo islamici al governo: nel 2003 è arrivato il “no” all’invasione dell’Iraq, ora la pace con l’Armenia e la nuova epoca nei rapporti con l’Iran e con la Siria. Per molti, Ankara è semplicemente più pragmatica; altri ritengono che abbia voltato le spalle all’occidente. “Un tempo si pensava che il nostro
paese avesse i muscoli forti e lo stomaco debole – scrive Davutoglu nel suo
libro guida – Oggi sappiamo che i paesi in grado di difendersi meglio sono
quelli che esercitano la propria influenza attraverso il soft power”.
All’ufficio dell’Organizzazione per la ricerca strategica, un pensatoio
liberale di Ankara, dicono che la vera svolta non è politica, bensì economica.
L’ascesa dell’Akp ha favorito una nuova classe di imprenditori cresciuta nelle
province orientali: sono fedeli al partito di governo, sfidano sul campo
l’élite kemalista e devono buona parte del loro successo alla dottrina
Davutoglu. In questo scontro di potere, la religione ha un peso relativo.

“Se il cortile di casa è tranquillo, gli affari sono più facili – spiega al Foglio un analista del gruppo, Mehmet Özcan – Negli ultimi anni le relazioni con l’occidente sono rimaste stabili, mentre quelle con gli altri paesi della regione sono migliorate in modo considerevole. Oggi le esportazioni verso il medio oriente hanno raggiunto un nuovo record, collaboriamo con i paesi dell’Africa, possiamo comprare petrolio in Russia e in Iran”. Una società di Istanbul, Tav, ha appena costruito il nuovo terminal dell’aeroporto del Cairo e aprirà presto cantieri in Libia, in Tunisia e in Qatar. Altre aziende gareggiano con i giganti europei per ricostruire strade e scuole in Iraq e nel Kurdistan. “Made in Turkey” sono pure i televisori e i frigoriferi che riempiono i bazar di Beirut e di Tbilisi. Questi risultati, dice Özcan, non si possono ottenere senza la politica.Da quando è premier, Erdogan ha firmato accordi di libero scambio con Egitto, Israele, Marocco e Tunisia, i suoi ministri volano fra Damasco e Baghdad per intese che riguardano ogni settore dell’economia, dal turismo all’industria passando per la sicurezza, i rapporti con i paesi del Golfo sono buoni. “E’ un processo naturale – spiega l’analista – che motivo avremmo di fermarlo?”.

In Europa, molti pensano che ci siano ragioni sufficienti per farlo. La segreteria della Cdu, il primo partito tedesco, ha pubblicato un documento di sei punti che spiega le ragioni del “no” alla Turchia nell’Unione. Sulla stessa linea ci sono la Francia di Nicolas Sarkozy e le capitali dell’est, dove l’opinione pubblica è decisa: nessuna nazione musulmana entrerà mai nell’Ue. I
manifesti seminati per le strade di Varsavia descrivono il paese di Erdogan come un cavallo di Troia che porta i colori dell’islam. Questa condizione aumenta l’insofferenza del popolo turco nei confronti dei vecchi alleati.
Secondo un sondaggio recente, soltanto un cittadino su tre vorrebbe entrare in Europa: l’anno scorso erano otto su dieci. “La dottrina della profondità strategica serve anche a limitare i danni nel caso in cui la candidatura europea fallisse – spiega al Foglio un analista dell’Istituto per gli studi di
politica internazionale, Carlo Frappi – Pochi si fanno illusioni ad Ankara: se l’Ue andrà al referendum, per la Turchia non ci sarà alcuna speranza”.

L’Europa è più lontana anche sul dossier energia. Ankara non ha risorse naturali, ma è il punto di raccolta principale per il petrolio in arrivo dall’Asia e diretto al Vecchio continente. Nel 2007, il governo turco ha acquistato grandi scorte di gas in Iran, una mossa che ha fatto infuriare i diplomatici americani. Quelli europei si sono scaldati a luglio, quando Erdogan ha firmato un accordo con il premier russo, Vladimir Putin, per costruire il gasdotto South Stream.

Bruxelles sostiene un progetto chiamato Nabucco, che collegherà l’Europa ai giacimenti del Caspio passando per l’Anatolia. Ora qualcuno dubita che i turchi forniranno pieno appoggio al disegno dell’Ue. L’Italia ha sempre avuto un ruolo di mediazione fra la vecchia Europa e questo alleato che molti considerano
scomodo. Una fonte della Farnesina dice al Foglio che il governo Berlusconi continua a sostenere il lavoro svolto da Erdogan in medio oriente. La posizione dinamica della Turchia può essere utile nei rapporti con la Siria e con l’Iran,
purché gli obiettivi rimangano gli stessi per tutti. Oggi il partito degli scettici è più numeroso: forse l’occidente non è fatto per l’islamismo moderato dell’Akp.

© 2009 - FOGLIO QUOTIDIANO
di Luigi De Biase


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