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Caucaso, la frontiera instabile d'Europa
Analisi
Giovedì 12 Novembre 2009 – 10:25 – Fabrizio Fiorini
L’espressione geografica “Caucaso” ha subito nel corso degli anni una trasposizione per cui, dall’originale denominazione della catena montuosa
estesa dal Mar Nero al Mar Caspio, è passata a indicare una vasta area comprendente diversi Paesi e numerose etnie. Fondamentale distinzione d’obbligo
è quella tra Transcaucasia e Ciscaucasia: la prima si estende sulle repubbliche post-sovietiche di Georgia, Armenia e Azerbaidžan, nonché sulle neo-indipendenti repubbliche di Abchazija e Ossetija meridionale; la seconda compresa all’interno dei confini meridionali della Federazione Russa e comprendente le repubbliche autonome di Adigezia, Karacai-Cerkessk, Kabarda-Balkarija, Ossetija settentrionale, Cecenia, Ingušcetija e Dagestan.
Non si può stabilire con esattezza il periodo di inizio di una “questione caucasica”, dato che l’area è costantemente stata terreno di scontro politico e
religioso, di revanscismo etnico e di istanze indipendentiste nazionali. Le stesse macchinose ma funzionali regole dell’ingegneria istituzionale sovietica difficilmente riuscirono a venire a capo delle questione e a pacificare l’area in modo stabile. Nella sua opera Il marxismo e la questione nazionale e coloniale, Stalin pose le basi del legame tra etnia e territorio; nonostante ciò, l’ordinamento istituzionale dell’Urss (Stato che, tra repubbliche
federate, repubbliche autonome, regioni autonome e territori contava ben cinquantatre divisioni amministrative ma in cui le etnie censite erano più del doppio) dovette giocoforza adeguarsi a dei criteri standardizzati al fine della ripartizione amministrativo-territoriale dell’Unione. Tali criteri furono: a)
la maggioranza linguistica e culturale di una data regione; b) la necessità di scongiurare il separatismo a favore di Stati confinanti; c) la necessità di dividere al proprio interno etnie che in epoca pre-rivoluzionaria avevano sviluppato un’identità più marcata, al fine di tutelare l’autonomia dello Stato centrale e di assicurare il funzionamento lineare dell’amministrazione
periferica1. L’Unione Sovietica, quindi, lontana dal configurarsi come un melting-pot, fu piuttosto una incubatrice di Stati indipendenti che tuttavia si
portarono dietro le imperfezioni che caratterizzavano lo stesso sistema che li avrebbe generati. Tornando al Caucaso dell’epoca sovietica, infatti, alcune contingenze storiche andarono a intaccare la meticolosa prassi amministrativa di Mosca. Una di
queste fu, ad esempio, all’indomani della rivoluzione d’ottobre, la ricerca di un alleanza coi turchi: tale asse bolscevico-kemalista, infatti, fece spostare
l’ago della bilancia, nella tuttora irrisolta questione dell’Alto Karabakh, a favore dell’Azerbaidžan etnicamente affine e politicamente vicino ai turchi;
Stalin in persona si prodigò in tal senso. Un’ulteriore destabilizzazione si ebbe durante il secondo conflitto mondiale quando, per reprimere e punire i popoli che avevano boicottato la guerra sovietica propugnando istanze indipendentiste in nome della propria identità islamica o in nome di una
alleanza col Terzo Reich nazionalsocialista2, intere unità amministrative vennero sciolte o degradate a un rango di autonomia inferiore; centinaia di
migliaia di cittadini vennero inoltre colpiti dalle deportazioni. Per tutto il secondo dopoguerra, fino allo scioglimento dell’Urss, la questione Caucaso
rimase latente e ‘anestetizzata’ dalla classe dirigente locale del Partito. Ma la tensione nelle stanze del potere restava alta, e gli echi dei giochi
caucasici di sentivano fino a Mosca, fino a ripercuotersi nel politburo e nel Comitato Centrale.
Poi il disastro dell’era elciniana, con la Federazione Russa che continuava inesorabilmente a disgregarsi sia al proprio interno (tracollo dell’autorità
dello Stato, rottura di ogni vincolo sociale tra cittadini e tra questi e il potere, violenta crisi finanziaria, perdita di ogni parvenza di sovranità
economica in favore di potentati non autoctoni, declino della produzione ndustriale, sbandamento delle forze armate e crescita esponenziale della
criminalità), sia nel suo ruolo di potenza internazionale e sia sui propri confini meridionali – e segnatamente caucasici – con la disfatta cecena e con la destabilizzazione del Dagestan. Nelle tre repubbliche transcaucasiche, svincolatesi da Mosca, tornavano a bruciare le polveri. Ma il Karabakh
(etnicamente armeno ma interno ai confini dell’Azerbaidžan) riusciva a difendersi e a tutelare la propria autonomia; in Georgia fallivano i tentativi
del governo di Tbilisi di sottomettere l’Abchazija e l’Ossetija del sud che, da regioni autonome, passarono a conseguire un’indipendenza di fatto; nonostante la difficile situazione in cui si trovava, la Russia fu determinante per l’intermediazione e il mantenimento della pace nella regione per parecchi anni, anche attraverso la conduzione di una missione militare della neo costituita Comunità degli Stati Indipendenti.
Alla riedificazione della Russia e alla riaffermazione della stessa come superpotenza, conseguentemente alla elezione di Putin a guida della Federazione nel 2000, seguì primariamente il ribaltamento della situazione cecena attraverso una serrata campagna militare che permise di ripristinare nella disgraziata repubblica caucasica l’autorità dello Stato e una pur precaria sicurezza civile, a tutt’oggi in ase di consolidamento. Il risultato politico della vicenda aumenta la propria incidenza se si considera il foraggiamento e il sostegno su cui la guerriglia poteva contare dall’estero: dall’appoggio logistico georgiano alle manovre “diplomatiche” di Londra.
Fuori dai confini della Federazione, in Transcaucasia, la situazione era invece ancora lontana dal poter fare ipotizzare una stabilizzazione e una pacificazione. La causa di ciò è da ricercarsi nella - pur contestuale al ripristino dell’azione politica russa - interferenza sempre più marcata degli
Stati Uniti nella regione. Interferenza sia di natura politica (accerchiamento della Russia, conquista dello spazio centroasiatico, allargamento del Patto
Atlantico, rivoluzioni colorate, ONG, sostegno al separatismo) che di natura economica, riconducibile sostanzialmente alla politica degli oleo-gasdotti. In
base a tale politica le vie di transito energetiche sarebbero dovute transitare al di fuori dei confini della Russia e dell’Iran (e dell’Armenia, che con
questi ha conservato una vicinanza strategica); esempio ne è stato la costruzione dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Cheyan, che riesce quindi a unire il
mar Caspio al Mediterraneo transitando solo sul territorio di Paesi politicamente vicini a Washington3.
L’apice del coinvolgimento occidentale nelle vicende caucasiche si è registrato la scorsa estate con il sostegno attribuito alla Georgia nella brutale
aggressione della repubblica separatista dell’Ossetija del sud, politicamente vicina a Mosca ed etnicamente affine all’omologa repubblica settentrionale interna ai confini della Federazione Russa. In tale spregiudicata e sprovveduta
mossa politica - esasperata dai tamburi della propaganda e dalle armi di Tel Aviv – però, come spesso accade, “i pifferi di montagna andarono per sonare, ma furono sonati”. Non solo: la Russia non si è limitata alla difesa della Repubblica di Ossetija del sud e della sua popolazione, vittima della
sproporzionata violenza di Tbilisi, ma ne ha riconosciuta l’indipendenza, unitamente a quella della Repubblica di Abchazija. Verosimilmente Mosca sarebbe stata molto più incline al pragmatismo, almeno fino alla rottura degli schemi
internazionali conseguenti l’indipendenza del Kosovo. Verosimilmente avrebbe preferito un governo amico a Tbilisi piuttosto che l’indipendenza forzata dell’Ossetija. Insomma, avrebbe messo in atto la normale, normalissima politica di una superpotenza consapevole del suo peso internazionale, che non si è mai sognata il diritto divino di “esportare la democrazia”. Ma – sembra questo il motto che ha animato l’agenda politica del Cremlino – “dove non vale più la forza della ragione valgano le ragioni della forza”.

da G.C

 
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