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Original Version: Les voix qui font tomber les murs
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Questo articolo di Domenique Eddé, scritto in memoria dell’autore turco-armeno Hrant Dink, rende omaggio alle figure di una resistenza scomoda: l’indiana Arundhati Roy, l’israeliana Amira Hass e il libanese di origine palestinese Samir Kassir
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Più di due anni fa, il 19 febbraio 2007, il giornalista turco di origine armena Hrant Dink fu colpito da due proiettili alle spalle, nel cuore di Istanbul, davanti alla sede di Agos, il giornale bilingue turco-armeno di cui era il direttore. Quest’uomo, all’età di 53 anni, pagò con la vita l’aver combattuto instancabilmente per il riavvicinamento della Turchia e dell’Armenia, per l’instaurazione di un clima di fiducia in grado di eliminare qualsiasi traccia di odio. Il giorno del suo funerale, più di 100.000 persone scesero spontaneamente in strada. La città volle dimostrare ai mandanti dell’omicidio, che Dink era sopravvissuto alla sua stessa morte, e gli episodi che seguirono lo confermarono. Poco dopo, infatti, venne istituita la Fondazione internazionale Hrank Dink. I suoi membri, turchi e armeni insieme, realizzarono il suo sogno. Uno spazio affrancato dalla tutela nazionalista, da un lato, e dalla strumentalizzazione della questione armena, ad opera di questo o quel parlamento straniero, dall’altro.
Il 19 gennaio seguente, Arundhati Roy inaugurò una serie di conferenze annuali in sua memoria. Trasparente e aperto sul mondo, il suo intervento conferì una dimensione universale ai dibattiti e ai lavori sul genocidio. Da indiana, denunciò soprattutto il massacro della comunità musulmana, nel 2002, nel Gujarat. «L’assassinio di Dink, disse, invece di imporre il silenzio, ha destato scalpore». E infatti, nel dicembre 2008, un gruppo di intellettuali turchi, vicini ai membri della fondazione, intrapresero una campagna storica.
Per la prima volta, decine di migliaia di firmatari chiesero «perdono» agli armeni (özür, in turco, viene da ezer in arabo). Giudicata insufficiente da numerosi armeni della diaspora e intollerabile da diversi turchi nazionalisti, la campagna non fu comunque meno decisiva. Era stato infranto un tabù. Il muro veniva abbattuto. La parola era stata liberata. Il 15 settembre scorso – data di nascita di Hrant Dink – la fondazione ha raggiunto un nuovo traguardo, con l’attribuzione di un premio annuale a un’importante figura della resistenza in Israele: Amira Hass. Una personalità esemplare in termini di coraggio e coerenza, nella lotta in favore dei diritti dei palestinesi. Nata a Gerusalemme
nel 1956, figlia di militanti comunisti, sopravvissuti ai campi di concentramento, vive da più di quindici anni nei territori occupati. A Gaza, prima. E dal 1997, a Ramallah.
Giornalista di Haaretz, non solamente ha imparato l’arabo e deciso di raccontare la quotidiana ccupazione e repressione israeliana, ma, contemporaneamente, ha fatto in modo di non cadere in nessuna delle trappole che poteva generare la sua scelta. La sua irriducibile opposizione al potere
coloniale e alla politica dell’apartheid del suo paese va di pari passo con un’incorruttibile capacità critica verso tutti gli abusi di potere; neanche l’Autorità Palestinese e Hamas sono risparmiati, se necessario. Quando i membri della fondazione le offrirono il premio, la sua prima reazione fu quella di dire: «non mi attribuite più coraggio di quanto effettivamente io abbia. Non sono un’eroina. Faccio il mio lavoro senza essere infastidita né minacciata dalle autorità. La mia vita non è in pericolo, contrariamente a quella di altri, altrove. Il problema è che scrivo per un popolo (gli israeliani) che non vogliono leggermi». Che sia un’eroina o meno, in questa donna si riscontra una
doppia attitudine alla solitudine e alla solidarietà che è del tutto eccezionale.
Pubblicato in ebraico nel 1997, il suo libro “Bere il mare a Gaza” è un notevole contributo, ristemente premonitore. Tradotto in più lingue, l’opera non è ancora stata tradotta in arabo. Perché? Un esempio di rigore, unito a empatia, ma privo di sentimentalismo. Il contenuto? Un documento di un valore inestimabile sui meccanismi della guerra e della dominazione israeliana, e sull’estensione della distruzione e dei traumi che ne sono seguiti. «Nel 1992, racconta Amira Hass, un bambino palestinese rifiutò di credere che ero israeliana». Perché? «Perché non ha un fucile», aveva risposto. Dieci anni dopo, un altro bambino di un’altra città usò la stessa parola «impossibile».
Perché? «Perché non ha un carro armato», aveva detto. Nessuno meglio di Amira Hass può raccontare il terrore e la devastazione, che produce la potenza israeliana, non solo sul campo di battaglia ma anche nelle menti.
Come non capire quanto debba essere difficile per questa donna, confrontarsi, giorno per giorno, con così tanta violenza, soprattutto quando una parte ti considera una «traditrice», e l’altra una «straniera» o un’ «ebrea»? Lei certamente non approverebbe le mie parole. Le correggerebbe subito, dicendo, «no, no non è così, sono una privilegiata». Questo senso di rigore e questa
precisione – qualità rarissime al giorno d’oggi – sono recentemente state omaggiate da una giuria composta da armeni e turchi. Spero che la mia presenza in Turchia sia l’occasione per diffondere l’informazione e per sperare, nel giorno in cui rendiamo omaggio, noi arabi, a questa forma di resistenza scomoda. Vorrei inoltre, ricordando Hrant Dink, celebrare la memoria di colui che pagò con la vita il fatto di aver avuto due identità, di essere stato un traghettatore: lo storico e giornalista Samir Kassir.
Un armeno, un’indiana, un’israeliana, un libanese di origine palestinese…più tendiamo l’orecchio, più la lista delle voci che abbattono i muri, si allungherà.
Solo mantenendo la doppia rotta della resistenza e dell’apertura, – a dispetto della corruzione e di quegli slogans superati che paralizzano la parola e il pensiero – queste voci dissidenti potranno portare al cambiamento. Sei anni fa, giorno dopo giorno, si spense colui che incarnava, con genialità, questo linguaggio, questo modo di unire la fermezza all’inventiva: Edward Said. Colui
che aveva fatto sua la formula di Mandela – « Colpite l’immaginazione del mondo» –, colui, la cui voce viaggiava da un capo all’altro del mondo, non ha smesso di aiutarci a capire che i muri non si abbattono né piegando la schiena, né rivoltandosi contro gli altri.
Dominique Eddé è una scrittrice libanese; vive e lavora a Parigi; ha tradotto in francese alcuni libri di Edward Said; questo articolo è apparso il 21 ottobre 2009 sul settimanale egiziano al-Ahram Hebdo
V.V
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