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Di Prof Aldo Ferrari - Caucaso e Asia centrale dell’Ispi
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Aldo Ferrari insegna Lingua e letteratura armena presso l’Università
“Ca’ Foscari” di Venezia ed è responsabile del Programma
Caucaso e Asia centrale dell’Ispi
Il presente lavoro è stato realizzato nell’ambito del progetto “Sfide e opportunità nel Caucaso e in Asia centrale”, con il contributo del Ministero degli Affari Esteri.
Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche ad uso interno e didattico, non autorizzata.
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e-mail: ispi.segreteria@ispionline.it
2
L’EVOLUZIONE DELLE STRATEGIE RUSSE
NEL CAUCASO (1991-2006)
Aldo Ferrari
Introduzione
La dissoluzione dell’Urss, avvenuta alla fine del 1991, ha avuto conseguenze particolarmente notevoli in una regione complessa e tormentata come quella caucasica1. Il risultato più significativo è stato l’indipendenza di Georgia, Armenia e Azerbaigian, che in epoca sovietica avevano lo status di repubbliche federate. Dopo quasi due secoli la Russia ha così perso le sue conquiste transcaucasiche, con le quali aveva avuto un rapporto che nel complesso può essere considerato positivo. Conserva invece al suo interno le indocili popolazioni del Caucaso settentrionale, inquadrate in repubbliche o regioni autonome2.
Nel primo periodo post-sovietico la Russia si è quindi trovata a dover sostenere nei confronti del Caucaso una politica di doppio registro, interna ed esterna al tempo stesso, resa estremamente difficile dalla profonda crisi politica, economica e culturale che l’ha coinvolta soprattutto negli anni Novanta dello scorso secolo. In questo senso il Caucaso costituisce per la Russia una sorta di duplice confine, interno ed esterno al tempo stesso3. Conviene qui esaminarne lo sviluppo a partire dalla distinzione fondamentale tra i due versanti del Caucaso, l’uno ancora inserito nella compagine federale russa, l’altro ormai indipendente. A Mosca, tuttavia, l’intera regione caucasica viene percepita come un unico sistema, sia nella sfera economica che in quella di sicurezza4. Si tratta in effetti della regione più turbolenta dell’intera area ex-sovietica, che mette a dura prova le capacità politiche del Cremlino, i cui interessi fondamentali sono essenzialmente due: preservare l’integrità territoriale della Federazione nel Caucaso settentrionale e salvaguardare i propri interessi strategici ed economici nella Transcaucasia. Come è stato osservato, “Più ancora che in altre aree ex sovietiche, in quella caucasica la
1 Per uno sguardo più vasto sulla storia antica e recente del Caucaso rimando al mio recente saggio Il Caucaso. Popoli e conflitti di una frontiera europea, Roma, 2005.
2 Strumenti utili per “leggere” la complessa situazione attuale sono: N. BEROUTCHACHVILI - J. RADVANY (a cura di), Atlas géopolitique informatique du Caucase, Paris, 1996 e A. CUCIEV, Atlas Etnopolitičeskoj istorii Kavkaza, 1774-2004, Moskva, 2006.
3 Si veda a questo riguardo A. FERRARI, La Russia e il “limes” caucasico (1801-2002), in L. ZARRILLI (a cura di), La grande regione del Caspio. Percorsi storici e prospettive geopolitiche, Milano, 2004, pp. 17-42.
4 D. LYNCH, A Regional Insecurity Dynamic, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, «Chaillot Papers», 2003, 75, p. 17.
3
fondamentale e dominante finalità strategica russa rimane quella della conservazione di un ruolo egemonico primario di influenza politica”5. In questo studio la politica della Russia verso il Caucaso verrà esaminata in due fasi – corrispondenti la prima alla presidenza di Boris El’cin, la seconda a quella di Vladimir Putin – e seguendone l’evoluzione.
1. Il Caucaso settentrionale
Se la dissoluzione dell’Urss ha consentito alle tre repubbliche della Transcaucasia di trovare una loro pur sofferta ed ancora incompleta indipendenza da Mosca, le popolazioni del Caucaso settentrionale, tradizionalmente le più avverse al dominio russo e sovietico, sono invece rimaste inserite nel quadro della Federazione Russa con lo status di repubbliche o regioni autonome. Bisogna inoltre considerare che in gran parte di queste entità autonome esiste una forte componente russa (31, 8% in Ossetia settentrionale, 71, 8% nella regione autonoma adighea ecc.)6.
Nel Caucaso Settentrionale la Russia post-sovietica deve fronteggiare una situazione quanto mai complessa, in cui interagiscono fattori differenti. Benché la maggior parte delle popolazioni locali siano musulmane, l’aspetto religioso sembra essere secondario se non, in parte, nel caso della Cecenia e del Dagestan, dove l’islam è più antico e strutturato7. Dopo la fine dell’Urss sono in effetti venuti al pettine soprattutto i nodi creati dalla politica delle nazionalità portata avanti negli anni Venti, in primo luogo il collegamento – tra l’altro quasi sempre imperfetto – tra etnie e territori, compromesso ulteriormente dalle repressioni “staliniane”. Al di là di ogni giudizio di merito, la territorializzazione delle identità locali, in precedenza di carattere sostanzialmente tribale, ha determinato una serie di conflitti latenti8, aggravati dalle deportazioni “staliniane” alla fine della seconda guerra mondiale e dalla infelice gestione del ritorno dei popoli deportati9. L’apparente – e relativa – tranquillità di questi territori dopo il ritorno in essi dei deportati in seguito al XX Congresso ha dimostrato negli immediati anni post-sovietici tutta la sua precarietà. La possibilità che l’inserimento nella Federazione Russa venga sostituito da una struttura politica unitaria che comprenda tutti i popoli del Caucaso del Nord, o almeno una loro sensibile parte, sembra tuttavia remota. E non solo per l’indisponibilità di Mosca. Il punto è che
5 A. VITALE, La politica estera russa e il Caucaso, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, p. 40.
6 Questi dati sono quelli dell’ultimo censimento sovietico, del 1989. Cfr. P. B. HENZE, The Demography of the Caucasus According to 1989 Soviet Census Data, in «Central Asian Survey», 10, 1991, 1/2, p. 158.
7 A. BENNIGSEN - C. LEMERCIER QUELQUEJAY, L’islam parallelo. Le confraternite musulmane in Unione sovietica, a cura di E. FASANA (trad. it.), Genova, 1990.
8 S. SALVI, La mezzaluna con la stella rossa. Origini, storia e destino dell’islam sovietico, Genova, 1993, pp. 259-264.
9 A. NEKRIČ, Popoli deportati. Il genocidio delle minoranze nazionali sotto Stalin: una ferita ancora aperta, trad. it., Milano, 1978.
4
la politica nazionale sovietica ha sensibilmente rinforzato le singole identità etnico-nazionali, ormai fortemente collegate a entità politico-territoriali. Allo stato attuale dei fatti, cioè, appare poco probabile che le popolazioni del Caucaso del Nord possano realmente trovare una qualche forma di unità politica. Neppure la fede islamica, pur condivisa dalla grande maggioranza delle popolazioni del Caucaso settentrionale, assai spesso in maniera intensa, sembra poter costituire un fattore unificante davvero efficace a livello politico. Nell'intera regione, tuttavia, il peso dell'islam continua ad essere forte, soprattutto grazie all'azione delle confraternite, che neppure le dure repressioni sovietiche sono riuscite a smantellare ed hanno oggi ripreso a far sentire il loro influsso. Esistono anche organizzazioni politiche – in primo luogo il Partito della Rinascita Islamica – che in nome della comune fede religiosa chiedono il superamento delle divisioni etniche, riprendendo in questo modo il modello ottocentesco dell'imam Šamil', ma una prospettiva unitaria panislamica appare sinora inconsistente nel Caucaso come nelle altre regioni musulmane ex sovietiche. Nel Caucaso Settentrionale, cioè, la Federazione Russa si è trovata a fronteggiare una situazione quanto mai complessa, ma nella quale l’aspetto religioso sembra essere secondario se non, in parte, nel caso della Cecenia e del Dagestan.
La prima contesa che esplose fu quella del distretto di Prigorodnyj, attribuito all’Ossetia dopo la soppressione della repubblica autonoma della Cecenia-Inguscetia e deportazione della sua popolazione, nel giugno 1946. Anche dopo la ricostituzione di tale repubblica nel 1957, il distretto rimase all’Ossetia e i deportati ingusci che vi fecero ritorno trovarono le loro case occupate da osseti, i quali si rifiutarono di restituirle, appoggiati dalle autorità locali. Il conflitto rimase insoluto ma latente negli ultimi decenni sovietici, ma si intensificò nel 1990-91 ed esplose nel 1992 con violenti scontri tra le due popolazioni, imponendo l’invio di truppe russe a separare i contendenti. Gli ingusci, musulmani, continuano ad essere visti, al pari dei loro consanguinei ceceni, come una popolazione tradizionalmente ostile alla Russia. Le accuse ai russi di appoggiare gli osseti, prevalentemente cristiani e loro tradizionali alleati, sembrano pertanto essere almeno in parte giustificate. L’atteggiamento sostanzialmente favorevole agli osseti da parte di Mosca va inserito nelle dinamiche di lungo termine del rapporto tra la Russia ed il Caucaso, dove questa popolazione costituisce da sempre un importante sostegno delle strategie russe. Non a caso Mosca ha sostanzialmente appoggiato anche le rivendicazioni degli osseti meridionali, che chiedono l'unione dell'Ossetia settentrionale e di quella meridionale, inserita nella repubblica georgiana10. In definitiva il conflitto osseto-inguscio ha fornito alla Russia il pretesto per riprendere saldamente il controllo militare su un territorio importante della regione nord-caucasica. L’azione russa in Inguscetia va inoltre inquadrata nell’ambito del confronto con la Cecenia, proclamatasi indipendente già alla fine del 1991.
10 Sulle complesse dinamiche ossete si veda l’articolo di J. BIRCH, Ossetiya – Land of Uncertain Frontiers and Manipulative Elites, in «Central Asian Survey», 1999, 4, pp. 501-534. 5
Nelle due repubbliche autonome del Caucaso del Nord, la Caraciaia-Circassia e la Cabardino-Balcaria, esistono invece contrasti tra le popolazioni caucasiche (circassi, adighei e cabardini, parlanti diverse varianti di un’unica lingua ed appartenenti all’etnia circassa) e turche (caraciai e balcari). Popolazioni cervelloticamente inserite in epoca sovietica in due entità politiche etnicamente miste e che cercano ora di ricomporsi secondo linee etniche e territoriali più coerenti, in sostanza costituendo una repubblica cabardino-circassa nel nord ed una caraciai-balcara nel sud montagnoso11. L’iniziativa è soprattutto nelle mani delle due popolazioni turche delle repubbliche, mentre quelle circasse sono meno attive. In ogni caso si tratta di popolazioni interamente musulmane, il che costituisce un parziale deterrente ad un loro scontro diretto. La situazione è tuttavia aggravata dalla presenza di una consistente popolazione russa, perlopiù di origine cosacca, quindi con un’antica tradizione di animosità nei confronti dei musulmani locali12. Il governo russo sembra propenso a riprendere la politica zarista di usare questa popolazione cosacca come un utile strumento di pressione nei confronti delle popolazioni circasse e turche delle due repubbliche 13. In entrambe, tuttavia, la situazione è rimasta sotto il controllo russo e sino a pochi anni fa non si sono avute gravi tensioni, anche perché al vertice sono rimasti uomini della nomenklatura sovietica, poco propensi ad avventure di tipo nazionalista o religioso.
Prima di passare ad occuparci del caso ceceno, conviene prendere in considerazione il rapporto tra Mosca ed il Dagestan. Quest’ultimo, organizzato in repubblica autonoma, è stato a lungo insieme alla Cecenia la regione più ostile alla dominazione russa. Il grande Šamil’, che nell’Ottocento guidò la resistenza antirussa, apparteneva ad una delle sue numerose popolazioni, gli avari, ed anche nel corso della ribellione al potere sovietico nel 1920-22 il Dagestan fu al centro degli eventi. Nonostante questo, però, la regione non venne coinvolta nella deportazione dei popoli avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale, forse per il timore in una sollevazione generale. Probabilmente proprio l’aver evitato questa tragedia è la ragione della relativa tranquillità della regione negli ultimi decenni sovietici, nel corso del quale le cariche politiche venivano distribuite alle molte, oltre trenta, comunità etniche della repubblica con un sistema di ripartizione simile al modello libanese. Anche negli anni immediatamente successivi alla dissoluzione dell’Urss, i problemi principali del Dagestan sono stati di ordine interno: da un lato l’aspirazione di una delle sue popolazioni – i lesghi – di riunirsi ai connazionali inseriti nell’Azerbaigian, dall’altro il conflitto tra la piccola comunità cecena locale (i cosiddetti akkiny) con quella dei lachi, che aveva occupato le loro terre durante la deportazione.
Anche nel corso delle due guerre della Russia con la Cecenia, quando molti ritenevano che il Dagestan avrebbe aiutato i suoi vicini, nulla di rilevante è in
11 S.E. CORNELL, Conflicts in the North Caucasus, in «Central Asian Survey», 1998, 3, p. 420.
12 V. AVIOUTSKII, Les cosaques au Nord-Caucase, in «Hérodote», 1996, 81, pp. 126-150.
13 S.E. CORNELL, Conflicts in the North Caucasus, cit., p. 422.
6
effetti avvenuto, benché la parte nord-occidentale della repubblica sia stata marginalmente coinvolta negli scontri. La ragione principale di questa estraneità va vista nel fatto che, a differenza di quanto è avvenuto in Cecenia, nel Dagestan è rimasta sinora al potere l’élite sovietica di orientamento se non filo-russo, almeno non ostile alla Russia. Inoltre, come si è detto, le popolazioni della regione non hanno memoria diretta dell’orrore delle deportazioni. Infine, l’estrema frammentazione etnica del paese rende poco agevole organizzare dell’opposizione a Mosca, dalla quale il Dagestan dipende economiche in maniera pressoché assoluta14. Non vi è dubbio peraltro che esista un sentimento anti-russo all’interno delle popolazioni dagestane, tra le quali la pratica islamica è particolarmente radicata, ma senza un cambio al vertice politico è difficile che possa affermarsi. Vi sono tuttavia diversi segnali del fatto che la presa dell’élite sovietica sulla repubblica si sta attualmente attenuando15. In particolare il Dagestan costituisce il centro di una rinascita dell’islam, che peraltro non è mai stato sradicato, neppure in epoca sovietica, grazie all’azione delle confraternite sufi16. Adesso la fase clandestina è solo un ricordo e nelle scuole della repubblica, soprattutto nei distretti nord-occidentali, si stanno diffondendo classi di arabo e di Corano17. Tutto questo tende, insieme con la rinascente pratica del pellegrinaggio alla Mecca, a riavvicinare i dagestani, come le altre popolazioni musulmane del Caucaso del Nord, al mondo islamico.
Sin dalla dissoluzione dell'Urss, tuttavia, il problema di maggior rilevanza della regione ciscaucasica è rappresentato dalla Cecenia. Nonostante il suo passato di strenua opposizione alla Russia, non vi è dubbio che un fattore determinante nel costituirsi di questa regione a bastione irriducibile della lotta dei popoli caucasici a Mosca sia stato l'aver trovato sin dall'inizio un leader energico come Džochar Dudaev. Questi, un ex generale sovietico, nell'ottobre del 1991 riuscì a prendere il potere a Groznyj indicendo un referendum nel quale venne sancita unilateralmente – unica tra le repubbliche della Federazione Russa – l’indipendenza della Cecenia-Inguscetia. Lo stesso Dudaev ne divenne presidente, chiedendo la solidarietà delle altre popolazioni caucasiche e dei musulmani in generale18. El’cin avrebbe voluto reprimere immediatamente questa secessione, ma il parlamento russo annullò il suo decreto sullo stato d'emergenza, allontanando per tre anni lo scontro armato. Nessuna delle altre repubbliche caucasiche ebbe però il coraggio di seguire l’esempio ceceno, anzi nel marzo del 1992 gli ingusci si separarono dalla Cecenia ed aderirono al nuovo trattato federale russo. Nel
14 Ibidem, p. 430.
15 R. BRUCE - E. KISRIEV, After Chechnya: New Dangers in Daghestan, in «Central Asian Survey», 1997, 3, pp. 401-412.
16 T. ZARCONE, Vitalità e influenza delle confraternite e del sufismo nella regione del Caucaso, in M. STEPANIANTS (a cura di), Sufismo e confraternite nell’islam contemporaneo. Il difficile equilibrio tra mistica e politica, Torino, 2003, pp. 161-181.
17 R. BRUCE - E. KISRIEV, The Islamic Factor in Dagestan, in «Central Asian Survey», 2000, 2, pp. 235-252.
18 S. SALVI, Breve storia della Cecenia, Firenze, 1995, p. 41.
7
frattempo la Russia esercitò un rigido blocco economico nei confronti della Cecenia, che fu allora abbandonata da quasi tutti i russi che vi risiedevano19. Oltre a ciò, Mosca fomentò l’opposizione interna a Dudaev, che nell’ottobre del 1994 tentò di conquistare Groznyj con l’appoggio dell’aviazione russa. Il fallimento di questo tentativo indusse El’cin ad invadere la Cecenia, iniziando una guerra rivelatasi rovinosa. Le truppe russe riuscirono dopo molti sforzi ad occupare la parte pianeggiante della Cecenia, inclusa la capitale Groznyj (ridotta in macerie dai bombardamenti aerei), ma la resistenza cecena si concentrò sulle montagne e produsse clamorose azioni terroristiche. Prima tra tutte quella di Budennovsk, in territorio russo, dove un commando guidato da Šamil Basaev, si impadronì nel giugno 1995 dell’ospedale locale, riuscendo a resistere al sanguinoso intervento delle truppe speciali ed ottenendo un salvacondotto per rientrare in patria.
Nonostante l’uccisione di Dudaev avvenuta nell’aprile del 1996, l’avventura bellica in Cecenia divenne sempre più invisa all’opinione pubblica russa. La decisione di porre fine alle ostilità venne rafforzata dalla improvvisa e sconcertante riconquista di Groznyj da parte dei ceceni nei primi giorni dell’agosto 1996. Il 23 di quel mese, A. Lebed’, il plenipotenziario russo inviato dal presidente El’cin a risolvere la contesa con i ceceni, sottoscrisse un cessate il fuoco che prevedeva la partenza immediata delle truppe russe dalla Cecenia. Lo stesso Lebed’ stipulò poi con Aslan Maschadov, divenuto il principale capo della resistenza cecena dopo la morte di Dudaev, l’accordo di Chazav Jurt, in base al quale lo status definitivo della Cecenia sarebbe stato rinviato di 5 anni20.
Sotto la guida di Maschadov, eletto Presidente della Repubblica nel gennaio 1997 e riconosciuto tale dalla Russia, la Cecenia ha conosciuto alcuni anni di confusa e precaria indipendenza. I negoziati con la Russia per definire il nuovo status della repubblica sono apparsi subito inconcludenti, nonostante la stipula di un trattato di pace nel maggio 1997. Da parte russa la possibilità di riconoscere una piena indipendenza alla Cecenia era preclusa da considerazioni tanto politiche quanto economiche. L’indipendenza cecena avrebbe da un lato potuto stimolare analoghe richieste da parte di altre repubbliche della Federazione, caucasiche e non, con in prospettiva il rischio di una disgregazione dell’intero paese. Da un punto di vista economico, inoltre, la Cecenia non è particolarmente ricca di petrolio, ma attraverso essa passa quello prodotto nell’Azerbaigian, che viene esportato in Occidente attraverso il porto di Novorossijsk, sul Mar Nero. Un accordo, siglato nel settembre 1997, regolò provvisoriamente la questione del transito di questo petrolio21. Da un punto di vista politico la Russia offriva in sostanza alla Cecenia uno status di ampia autonomia, simile a quello di cui gode il Tatarstan all’interno della federazione. Ma da parte cecena questo appariva insufficiente, soprattutto dopo una guerra sostanzialmente vinta. Di fronte alla Russia si pose quindi un
19 Ibidem, p. 44.
20 M. BENNIGSEN BROXUP, Chechnya: Political Development and Strategic Implication for the North Caucasus, in «Central Asian Survey», 1999, 4, p. 545.
21 Ibidem, p. 556.
8
dilemma: riconoscere l’indipendenza cecena, col rischio di innescare un processo di progressiva secessione dei soggetti della Federazione, almeno nel Caucaso settentrionale, oppure ritornare all’uso della forza, con una migliore programmazione dell’azione militare?
2. La Transcaucasia
A differenza di quanto fece l’Urss nei primi anni 20, la Russia post-sovietica non è stata in grado di arrestare il cammino verso l’indipendenza delle repubbliche transcaucasiche. E questo sia per una almeno iniziale rottura ideologica con il passato imperiale sia per il caos politico-diplomatico dell’immediato periodo post-sovietico. Come è stato osservato, ... per dimensioni e ritmi di attività economica, coerenza ed equilibrio nella politica estera la Russia attuale non raggiunge neppure il livello di una potenza regionale come la Turchia22. Pur con ripetute e spesso pesanti intromissioni nella vita politica di questi paesi, soprattutto di Georgia e Azerbaigian, Mosca non sembra avere l’effettiva possibilità di muoversi davvero in una direzione “neo-imperiale”. Oltre a ciò, anche psicologicamente l’opinione pubblica russa tende a disinteressarsi sempre più di questa regione, coinvolgendo le tre repubbliche transcaucasiche in una più generale avversione per il Caucaso derivante in primo luogo dalle vicende cecene23. Tra l’altro, in tutta la Transcaucasia la percentuale dei russi residenti è assai bassa, certo assai minore delle percentuali riportate dall’ultimo censimento sovietico (7,38% in Georgia, 1,84% in Armenia, 6,16% in Azerbaigian)24.
Occorre tuttavia tener presente che la Russia considera anche la Transcaucasia come le altre aree ex sovietiche un “Estero Vicino” (Blizkoe Zarubež’e), vale a dire uno spazio storicamente, politicamente ed economicamente legato ai suoi interessi vitali. Questo senza presupporre necessariamente una ricomposizione imperiale, ma …ponendosi come fine, non sempre apertamente confessato, quello della “reintegrazione sovrastatale” delle repubbliche ex sovietiche e dell’autodeterminazione delle minoranze russe in esse contenute25. Soprattutto a partire dalla fine del 1993, Mosca ha esplicitato i suoi interessi e le sue priorità riguardo ai conflitti nell’ex-Urss, rivendicando: a) le funzioni di peacekeeping e difesa delle minoranze nazionali, in particolare russofone, in tutto l’ “estero vicino”; b) il mantenimento della stabilità nel territorio dell’intera Csi e la formazione di una fascia di “buon vicinato” lungo i confini russi, da assicurare anche per mezzo di forze militari; c) un ruolo speciale all’interno della Csi, non solo per i suoi specifici interessi nazionali, ma anche alla luce del fatto che
22 S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, in «Vestnik Evrazii», 1999, 1/2, p. 122.
23 Ibidem, p. 123.
24 P.B. HENZE, The Demography of the Caucasus According to 1989 Soviet Census Data, cit., p. 151.
25 A. VITALE, La politica estera russa e il Caucaso, cit., p. 44.
9
nessuno stato estero e nessuna organizzazione internazionale ha mostrato l’intenzione o la capacità di sostituire la Russia in questo ruolo. Tali rivendicazioni non escludono però la richiesta di collaborazione con Onu e Osce nella gestione delle aree di crisi nello spazio ex-sovietico26.
La Transcaucasica è una regione di enorme significato strategico ed economico per la Russia, la cui politica nella regione risulta solo limitatamente efficace, in primo luogo a causa del divario esistente tra le ambizioni a rimanere nella regione come forza dominante e le potenzialità a disposizione27. L’azione di Mosca in Transcaucasia è peraltro favorita da alcuni fattori di notevole rilevanza: la contiguità territoriale, … l’appartenenza dell’intera regione all’area linguistica russa e la comune esperienza sovietica (che facilita le possibilità di comprensione e dialogo), il prevalente orientamento verso la Russia dei flussi economici ed umani locali (che aumenta l’interesse delle popolazioni transcaucasiche alla conservazione di vasti legami economici, politici ed umanitari con la Russia), la presenza, infine, di basi e truppe russe di peace-making nella regione (grazie alle quali la Russia può ancora esercitare una notevole pressione di breve termine)28.
Dal punto di vista strategico Mosca è evidentemente interessata ad avere a sud della nuova e turbolenta frontiera caucasica una fascia di paesi non ostili, che le consentano di mantenere i suoi interessi nella regione. Si tratta di interessi legati sostanzialmente alle fonti di energia. In primo luogo al petrolio nel Caspio, che dopo il crollo dell’Urss è passato sotto il controllo dell’Azerbaigian indipendente, dal quale le compagnie occidentali hanno presto ottenuto la maggior parte dei diritti di sfruttamento29. Ma anche a quello del Kazachstan, che – insieme con il gas del Turkmenistan – per essere avviato verso i mercati occidentali deve transitare attraverso il Caucaso seguendo un percorso che è stato al centro di accanite dispute tra i paesi interessati (Russia, Turchia, Iran, Azerbaigian, Armenia, Georgia) e che nel summit Osce di Istanbul del novembre 1999 si risolse a favore della linea Baku-Tbilisi-Ceyhan. Una soluzione duramente ma vanamente osteggiata dalla Russia, che viene tagliata fuori da questa direttrice, come anche l’Armenia e l’Iran, eterogeneo “asse” di paesi “esclusi” dal nuovo Eldorado petrolifero del Caspio.
26 D. DANILOV, Russia’s Search for an International Mandate in Transcaucasia, in B. COPPETIERS (ed.), Contested Borders in the Caucasus, Bruxelles, 1995 (consultabile in rete: ).
27 P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, cit., p. 41.
28 S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, cit., pp. 123-123.
29 A. COHEN, The New Great Game: Pipeline Politics in Eurasia, in «Eurasian Studies», 1996, 1, pp. 2-25; R. GOULIEV, Oil and Politics. New Relationships among the Oil-Producing States: Azerbaijan, Russia, Kazakhstan, and the West, New York, 1997; J. FEDOROV, Neft’ i politika Azerbajdžana, Moskva, 1997; R. MUSABEKOV, Nezavisimyj Azerbaidžan: Neft’ i politika, in «Central’naja Azija i Kavkaz», 1998, 1, pp. 48-52.
10
Da un punto di vista militare la Russia ha cercato in questi anni di mantenere la sua presenza in Transcaucasia, impegnandosi ad impedire la penetrazione di agenti esterni (in primo luogo, ovviamente, Turchia e Iran, ma anche Stati Uniti e Nato), anche solo a livello di assistenza militare e fornitura di armi. Come in Asia Centrale, tuttavia, anche nel Caucaso la Russia ha voluto prendere il controllo dei confini esterni della Csi (coincidenti con quelli sovietici), ma se in Armenia la presenza del suo esercito è benvenuta (come deterrente nei confronti non tanto dell’Azerbaigian quanto della Turchia), l’Azerbaigian ne ha preteso il ritiro sin dal 1993. E la Georgia ha di recente ottenuto l’inizio della chiusura delle basi russe.
In effetti la politica della Russia post-sovietica nei confronti della Transcaucasia è stata in larga misura determinata dall’atteggiamento delle nuove repubbliche indipendenti. Tra queste solo l’Armenia è entrata sin dall’inizio nella Csi, mostrando così di voler mantenere un legame preferenziale con la Russia, reso obbligato non tanto, o non solo, dalle tradizionali buone relazioni tra i due paesi quanto da una situazione geopolitica estremamente rischiosa a causa della guerra non dichiarata con l’Azerbaigian per l’Alto Karabakh e l’ostilità della Turchia. Tbilisi e Baku, guidate da due accesi nazionalisti, il georgiano Gamsakhurdia e l’azero Elchibey (eletto nel giugno 1992), hanno avuto inizialmente un atteggiamento più ostile, rifiutandosi di aderire alla Csi. Gamsakhurdia, fautore di una politica micro-imperiale ostile sia alla Russia che alle autonomie delle minoranze etniche30, riuscì in breve a suscitare una aperta resistenza da parte di Abkhazi e osseti, subito appoggiati da Mosca. Alla quale non era certo più gradito Elchibey, sostenitore dell’avvicinamento - anche militare - alla Turchia. Si spiega così il sostegno offerto all’Armenia nel conflitto per l’Alto Karabakh per “premiarla” della sua immediata scelta filo-russa e, al contrario, quello offerto ai separatisti abkhazi per punire la Georgia della sua “infedeltà”31. In entrambi i casi, tuttavia, tale sostegno non è stato decisivo32 né assoluto, in quanto sarebbe imprudente per uno stato multi-etnico come la Russia appoggiare in maniera troppo aperta le rivendicazioni “separatiste” delle diverse etnie caucasiche.
Allo stesso modo non sorprende che la Russia abbia appoggiato i nemici interni di Gamsakhurdia e Elchibey, rovesciati in maniera violenta nel corso del 1992 e sostituiti da Shevarnadze e Aliyev, persone dal lungo trascorso sovietico, che senza affatto divenire fantocci di Mosca, anzi mostrando maggiore autonomia di quanto sembrasse prevedibile, hanno promosso comunque una politica più realista: alla fine del 1993 Georgia e Azerbaigian, soccombenti nei rispettivi
30 O. VASILIEVA, La Georgia quale modello di piccolo impero, in C. M. SANTORO (a cura di), Nazionalismo e sviluppo politico nell’ex URSS, Milano, 1995, pp. 206-228.
31 A. DE TINGUY, La Russie en Transcaucasie: chef d’orchestre ou médiator, in R.M. DJALALI (ed.), Le Caucase postsoviétique: La transition dans le conflit, Bruxelles/Paris, 1995, pp.152-153.
32 La ragione principale della netta vittoria militare di queste minoranze, enormemente inferiori da un punto di vista numerico rispetto ad azeri e georgiani, deve essere visto nella loro assai maggiore combattività, che deriva in primo luogo dalla comune percezione di una gravissima minaccia alla propria identità etno-culturale. Cfr. S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, cit, p. 115.
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conflitti interni, aderirono alla Csi. E Aliyev, pur rifiutando di accogliere truppe di Mosca sul territorio dell’Azerbaigian, attribuì alla Lukoil – l’ente russo per le risorse energetiche – una percentuale, limitata peraltro al 10%, nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi. La Georgia, invece, con un trattato bilaterale del 1995 concesse alla Russia il diritto a mantenere per 25 anni le quattro basi presenti sul suo territorio. A parte quella di Vaziani, situata nei pressi di Tbilisi, le altre basi russe si trovavano proprio in regioni più o meno fuori del controllo del governo centrale: a Batumi, in Agiaria, a Gudauta, in Abkhazia, a Akhalkalaki, in Javakheti33.
Nel complesso sembra di poter individuare due linee alternative della politica estera russa verso la Transcaucasia. Una, prevalente ma applicata soprattutto nei confronti di Georgia e Azerbaigian, prevede rapporti di coesistenza regolati dal diritto internazionale. L’altra, ufficialmente non riconosciuta, ritiene che la Russia sia costretta dalla particolare situazione post-sovietica a difendere i suoi interessi vitali anche al di fuori di tali norme, privilegiando gli interlocutori ad essa più favorevoli, vale a dire armeni, osseti ed abkhazi34. In pratica queste due linee si sono sviluppate in maniera spesso contraddittoria.
La Transcaucasia costituisce un obbiettivo primario di questa nuova assertività politico-diplomatica di Mosca, che non è risultata tuttavia molto produttiva. La Russia ha cercato in questi anni di ottenere un mandato internazionale per risolvere i conflitti interetnici in Transcaucasia, ponendosi però in sostanziale contrasto con la volontà delle repubbliche locali (ma non di armeni, abkhazi e osseti) e della stessa comunità internazionale, restia a conferirle questo ruolo. Il suo rinnovato attivismo è stato piuttosto salutato con timore, come una nuova manifestazione dell’imperialismo russo. Tuttavia la sua posizione è stata favorita dalla riluttanza di Onu e Osce di agire con prontezza, cosicché già nel 1992 la Russia inviò truppe nell’Ossetia meridionale e all’anno successivo nell’Abkhazia35. In entrambi i casi questo intervento di peace-keeping ha ottenuto il riconoscimento dell’Osce, ma senza determinare una soluzione definitiva dei conflitti: queste due regioni sono infatti rimaste in sostanza al di fuori dell’autorità georgiana. Si tratta, peraltro, di un esito non sgradito a Mosca, anche se la Federazione Russa avrebbe dovuto poco dopo confrontarsi con forme analoghe di secessionismo nel Caucaso settentrionale, in particolare in Cecenia.
Nell’Alto Karabakh i risultati diplomatici della Russia sono stati ancora più limitati. In particolare Mosca non è riuscita – i tentativi in questo senso furono particolarmente intensi nel 1994 – a convincere l’Azerbaigian ad accettare l’interposizione di truppe russe e da allora la questione della contesa regione autoproclamatasi indipendente è stata internazionalizzata, sottraendosi in
33 Sulla questione delle basi russe in Georgia si veda A. FERRARI, Georgia e Russia. Un’amicizia senza basi, in «ISPI Policy Brief», Marzo 2004, 4, .
34 S. PANARIN, Konflikty v Zakavkaz’e: pozicii storon, perspektivy uregulirovanija, vozmožnyj vklad Rossii, cit., p. 124.
35 Ibidem.
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definitiva all’intervento diretto di Mosca. Nell’ambito del “gruppo di Minsk” il suo atteggiamento ha sempre cercato di bilanciare quello dei paesi occidentali, tendenzialmente filo-azero nonostante l’influsso delle comunità armene di Francia e Stati Uniti, mantenendosi quindi su posizioni almeno in parte favorevoli alle rivendicazioni degli armeni, i suoi più affidabili partner nella regione.
Nel complesso, tuttavia, nonostante gli sforzi profusi nel primo decennio post-sovietico, la presa russa sulla Transcaucasia si è attenuata. Delle tre repubbliche della regione due, Georgia e Azerbaigian, si sono mosse – sia pure con la dovuta cautela, soprattutto quest’ultimo – verso un deciso avvicinamento all’Occidente, la seconda attraverso un legame privilegiato – anche se non privo di difficoltà – con la Turchia. Solo l’Armenia, per la sua tradizionale vicinanza alla Russia e la necessità di controbilanciare l’asse Baku-Ankara, tende ancora verso Mosca anche se un’eventuale soluzione del conflitto per il Karabakh – impossibile senza il consenso dell’Occidente – le consentirebbe di eliminare l’attrito con i due vicini turchi e quindi di porre fine alla dipendenza dall’appoggio russo 36.
Occorre tener presente che dopo il crollo del sistema sovietico ed il conseguente indebolimento del controllo russo, il Caucaso si trova oggi in una situazione di estrema incertezza. La dissoluzione dell’Urss ha trasformato una regione già di per sé tanto complessa e travagliata in un luogo di scontro di giganteschi interessi internazionali. Interessi economici, in primo luogo, ma anche strategici, che si riannodano inestricabilmente con lasciti storici dolorosi e rivendicazioni contrapposte. In realtà la complessità della realtà caucasica e delle forze esterne che vi agiscono rendono difficile non solo fare previsioni di medio o lungo termine, ma anche disegnare un quadro coerente ed esauriente delle dinamiche in corso. Mentre molte entità politiche locali sono indipendenti o aspirano a tale status, l’intera regione è tornata ad essere oggetto di scontro tra interessi geopolitici esterni. In primo luogo, ovviamente, quelli delle potenze locali, vale a dire Russia, Turchia e Iran.
Mosca, Ankara e Teheran si confrontano per ridefinire le rispettive sfere di influenza in una partita che comprende complessi fattori religiosi, politico-ideologici ed economici. In questo senso il Caucaso si trova cioè in una situazione in parte simile a quella del XVIII secolo, prima che la Russia riuscisse ad estromettere dalla regione i suoi rivali musulmani37. Dopo circa due secoli questa sistemazione torna ad essere posta in discussione, secondo una dinamica per alcuni aspetti paragonabile a quella dell'Asia centrale ex sovietica, l'altro frutto tardivo dell'espansionismo imperiale russo. Ma il dato principale della questione sta piuttosto nel fatto che entrambe queste aree sono inserite in quello che viene definito “Grande Medio Oriente” o “Grande Asia Centrale”, intendendo
36 L. ZARRILLI, No peace no war: riflessioni sul conflitto del Nagorno-Karabagh, in «1989. Rivista di Diritto Pubblico e Scienze Politiche», 2000, 2, p. 324.
37 A. FERRARI, Etnie e petrolio del Caucaso, in «Relazioni Internazionali», 1995, 36, pp. 60-66 e idem, La Russia e il Caucaso: alle origini di un problema insoluto, in «La Nuova Europa», 1995, 4, pp. 85-93. 13
con queste espressioni l’enorme regione, fondamentale su scala globale per le sue ricchezze energetiche, che va dalle coste orientali del Mar Nero alle frontiere della Cina38.
Il sempre influente Z. Brzezinski ha indicato con molta chiarezza quale debba essere in questa regione, da lui definita i “Balcani dell’Eurasia”39, la strategia degli Stati Uniti: evitare … il riemergere di un impero euroasiatico che potrebbe ostacolare l’obbiettivo geostrategico americano 40 Anche senza attribuire agli scenari disegnati in quest’opera il valore di un programma ufficiale dell’amministrazione statunitense, non vi è dubbio che dopo la dissoluzione dell’Urss Washington ha condotto, soprattutto a partire dal 1994, una politica di penetrazione massiccia nell’intera regione che oggettivamente tende a privare la Russia del tradizionale ruolo dominante. Uno specialista tanto acuto quanto schietto come Stephen Blank scrive chiaramente: States and analysts may talk of international relations as if a new liberal dispensation had come to pass. But, as in earlier times, they act according to long-standing tenets of realism and realpolitik. The quest for energy, the source of all the talk of a new great game between Russia and United States, cannot be understood or separated apart from more traditional and competitive geostrategies aiming to integrate the Transcaspian into a Western, or Russian “ecumene”41.
Nel Caucaso – così come in Asia Centrale (entrambe le regioni sono qui incluse nel termine Transcaspian) – ci si trova quindi di fronte ad una sorta di riedizione del great game ottocentesco di kiplinghiana memoria, in cui la Russia post-sovietica si confronta con un antagonista occidentale rappresentato questa volta non dalla Gran Bretagna, ma dagli Stati Uniti42. Ma i rapporti di forza sembrano essere molto più sfavorevoli a Mosca di quanto fossero a Pietroburgo. Secondo la maggior parte degli analisti, proprio la competizione politica, strategica ed economica – non cruenta, ma reale – tra Stati Uniti e Russia nei paesi post-sovietici del Caucaso (e dell’Asia centrale) costituisce il dato saliente delle dinamiche dell’intera regione. Per alcuni aspetti questa competizione richiama certamente il great game ottocentesco e kiplinghiano, vale a dire la lunga rivalità tra Russia e Gran Bretagna per le regioni a cavallo tra i rispettivi imperi. La suggestione di questo parallelo storico non deve però condizionare oltre misura l’analisi della situazione odierna43, che è determinata da fattori in larga misura
38 M.R. DJALALI - T. KELLNER, Moyen-Orient, Caucase et Asie Centrale: des concepts géopolitiques à construire et à reconstruire?, in «Central Asian Survey», 2000, 1, pp. 117-140.
39 Z. BRZEZINSKI, La grande scacchiera, trad. it., Milano, 1998, p. 167.
40 Ibidem, p. 121.
41 S. BLANK, Every Shark East of Suez: Great Power Interests, Policies and Tactics in the Transcaspian Energy Wars, in «Central Asian Survey», 1999, 2, p. 150.
42 Per la politica statunitense nella regione si veda B. SHAFFER, US Policy, in The South Caucasus: A Challenge for the EU, cit., pp. 53-62; C. STEFANACHI, Il Caucaso nell’orizzonte strategico americano, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 27-37.
43 M. EDWARDS, The New Great Game and the New Great Gamers: Disciples of Kipling and Mackinder, in «Central Asian Survey», 2003, 1, pp. 83-102.
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differenti da quelli ottocenteschi. In particolare, occorre tener presente la pluralità di agenti statuali locali (Georgia, Armenia, Azerbaigian44, Turchia45, Iran46), super-statuali (Unione Europea, Nato, Osce, Guuam) e sub-statuali (multinazionali, Ong, lobbies di vario tipo, diaspore, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e così via) che interagiscono a livelli diversi nella regione.
La penetrazione statunitense ha luogo a diversi livelli: l’aspetto economico, in primo luogo il controllo delle fonti energetiche, è in realtà inscindibile da quello politico e strategico. Il colossale progetto di un asse geo-economico mirante a collegare il petrolio ed il gas dell’Asia centrale con il Mediterraneo, noto con l’immaginifica denominazione di “Via della seta del XXI secolo”47, appare parallelo al tentativo politico di eliminare la presenza russa dalla regione. Un tentativo portato avanti anche sostenendo la costituzione di un asse tra i paesi ex sovietici più ostili alla prospettiva di una ricomposizione politica intorno alla Russia, il cosiddetto Guuam (acrostico di Georgia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian e Moldavia), la cui prima riunione politica ha avuto luogo nel maggio del 200048. Nel Caucaso il principale beneficiario di questo progetto è – o dovrebbe essere – l’Azerbaigian, a sua volta paese di grande rilevanza economica per i giacimenti di petrolio del Caspio. Come anche per i paesi centro-asiatici le prospettive collegate allo sfruttamento delle ricchezze naturali sono state utilizzate per attrarre fuori dall’orbita russa i neo-indipendenti stati della regione, allettati da miraggi di ricchezza rivelatisi illusori per diversi anni. Questa politica economica ha tuttavia cominciato a dare i primi risultati tangibili nel 1999, quando è stato inaugurato l’oleodotto che da Baku porta il petrolio a Supsa, sul litorale georgiano del Mar Nero, ponendo così fine all’egemonia russa sull’esportazione del petrolio caspico. Nello stesso anno la Georgia ha denunciato il trattato di sicurezza collettiva della Csi, al quale l’Azerbaigian non aveva mai aderito, avvicinandosi invece alla Nato. E la Russia ha effettivamente iniziato lo sgombero delle basi che conservava in questa repubblica49. Non è da escludere che l’offensiva dei guerriglieri ceceni in Dagestan nell’agosto del 1999 sia stata favorita
44 Sul coinvolgimento di queste tre repubbliche si veda A. FERRARI, Georgia, Armenia e Azerbaigian. Pedine del nuovo “Grande Gioco”?, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 15-26.
45 M. FUMAGALLI, Le iniziative regionali della Turchia, in A. COLOMBO et al., Il Grande Medio Oriente. Il nuovo arco dell’instabilità, Milano, 2002, pp. 109-158; M. AYDIN, Turkey’s Policies toward the South Caucasus and its Integration in the EU, in «Quaderni di Relazioni Internazionali», 2006, 1, pp. 51-62.
46 R. REDAELLI, Gli assi strategici della politica estera iraniana alla luce dell’attuale evoluzione politica interna, in M. ANTONSICH et al., Geopolitica della crisi. Balcani, Caucaso e Asia Centrale nel nuovo scenario internazionale, Milano, 2001, pp. 437-492.
47 Cfr. M.O. ZARDARIAN, Velikij Šelkovyj put’: istorija, kon’junktura, perspektivy, in «Central’naja Azija i Kavkaz», 1999, 4 (5), pp. 175-183.
48 Per maggiori informazioni sulla struttura e le finalità di questa associazione di stati post-sovietici si veda il sito .
49 J. RADVANYI, Conflits caucasiens et bras de fer russo-américaines, in «Le Monde diplomatique», octobre 2000, p. 18.
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dall’impressione che la presa russa sull’intera regione caucasica fosse ormai esaurita. L’energica reazione di Mosca, sotto un leader più energico dell’ultimo El’cin, ha peraltro dimostrato che la situazione caucasica è più fluida di quanto si possa pensare e talvolta desiderare.
3. Putin e la politica caucasica della Russia
Il Caucaso ha avuto in effetti una notevole importanza per la carriera politica di Vladimir Putin, che era stato da poco nominato capo del governo quando, all’inizio dell’agosto 1999, vi furono le già ricordate infiltrazioni di guerriglieri ceceni in Dagestan. Tra la fine di agosto e i primi di settembre alcuni attentati – attribuiti dal Cremlino a terroristi ceceni, peraltro senza presentare prove convincenti – provocarono centinaia di vittime a Mosca ed in altre località del paese. In reazione a tali fatti la macchina militare russa si rimise in moto, questa volta con un andamento molto deciso delle operazioni. I guerriglieri vennero espulsi dal Dagestan, poi la Cecenia fu nuovamente invasa, con una sostanziale ripetizione delle diverse fasi del precedente conflitto: occupazione della zona pianeggiante e delle principali città, ardua penetrazione nelle zone montagnose, violenti contrattacchi della resistenza cecena. L’impressione di efficacia offerta da Putin in quell’occasione fu fondamentale per la sua elezione a presidente nel marzo 2000.
Nel corso di questa seconda occupazione della Cecenia, rifiutandosi di trattare non solo con i comandanti militari come Basaev, ma anche con il presidente Maschadov, la Russia ha invece cercato di individuare un interlocutore politico malleabile. Un interlocutore che è stato dapprima l’ex sindaco di Groznyj, Belan Gantemirov, quindi – nel giugno del 2000 – la suprema autorità religiosa cecena, il mufti Achmed Kadyrov, che negli anni precedenti si era opposto ai tentativi di Basaev di imporre un regime islamico al paese. Una figura quindi ostile al radicalismo islamico e disposto a collaborare con Mosca, ma la cui azione è stata fortemente limitata tanto dall’ostilità dei suoi rivali tra i connazionali filorussi quanto dagli scarsi poteri a sua disposizione. Benché buona parte della popolazione cecena, stanca di una situazione ormai insostenibile, abbia accettato il ritorno della sovranità russa, i combattenti più irriducibili si sono asserragliati sulle montagne, rinforzati da volontari islamici di diversa origine, bene armati e decisi a resistere a oltranza, anche iniziando il ricorso ad azioni suicide50. In questa situazione, le possibilità di un’estensione del conflitto alle vicine regioni caucasiche, soprattutto al Dagestan, sono nel complesso aumentate51.
50 T. VALASEK, The Changing Face of the Chechnya War, in «Weekly Defense Monitor», 13 July 2000, .
51 S. LEVINE, Upheaval in Caucasus, Central Asia Comes as No Surprise, in «Eurasia Insight», 28 September 2000, .
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Anche sotto la nuova presidenza la Russia, quindi, … appears to try to restore its influence throughout the region, on all sides, in every conflict, in order to prevent developments from slipping out of control and so opening the floodgates to outside interference52. Per raggiungere questo obbiettivo Putin sembra utilizzare due distinte politiche: una puramente repressiva in Cecenia, l’altra più flessibile ed incentrata prevalentemente, ma non esclusivamente, sulle leve diplomatiche ed economiche in Transcaucasia. Occorre considerare che anche nel Caucaso la Russia è da alcuni anni grandemente favorita dalla favorevole congiuntura economica, che grazie agli alti prezzi petroliferi ha posto Putin in una situazione incomparabilmente migliore di quella in cui si era trovato El’cin nel decennio precedente, consentendogli di elaborare una vera e propria strategia energetica globale53. Al tempo stesso, però, Putin ha dovuto confrontarsi con il ridispiegamento strategico di Washington verso il cosiddetto Grande Medio Oriente seguito all’11 settembre 2001, che ha ovviamente coinvolto anche il Caucaso (e l’Asia Centrale).
L’incondizionato avvicinamento, almeno verbale, agli Stati Uniti e l’opportunistica adesione allo slogan della “lotta al terrorismo internazionale” dettati dalla possibilità di migliorare in maniera sostanziale la posizione della Russia nei confronti dell’Occidente, nella sfera economica come in quella strategica54, hanno consentito alla Russia di avere un sostanziale via libera alla repressione militare della Cecenia, che continua ad essere portata avanti con sistemi particolarmente detestabili. Questo, tuttavia, non ha certo portato ad un progresso della situazione nella regione. Sul fronte militare l’esercito russo ha ottenuto notevoli successi negli ultimi, portando duri colpi alla resistenza cecena ed eliminando alcuni tra i leader principali (sono stati uccisi gli arabi Khattab e Abu Walid, Jandarbiev, quest’ultimo nel Qatar con una discussa operazione dei Servizi di Sicurezza, mentre Charbiev è stato costretto alla resa). Ma questi progressi sul fronte bellico, pagati peraltro a durissimo prezzo dalla popolazione civile, non hanno certo prevenuto l’organizzazione di gravissimi atti terroristici, sia in Cecenia e nelle regioni limitrofe del Caucaso (in particolare Ossetia e Inguscetia) sia in Russia (come hanno dimostrato soprattutto i tragici eventi del teatro Dubrovka a Mosca, 23-25 ottobre 2002 – costati la vita non solo all’intero commando ceceno che se ne era impadronito, ma anche a 129 civili russi). Anche in Cecenia, inoltre, si è diffuso negli ultimi anni la pratica di origine vicino-orientale degli attentati suicidi, compiuti talvolta da donne.
52 D. TRENIN, Russia’s Security Interests and Policies in the Caucasus Region, in B. COPPETIERS (ed.), Contested Borders in the Caucasus, cit., (consultabile in rete: ).
53 Per la politica energetica di Putin si veda M. OLCOTT, Vladimir Putin and the Geopolitics of Oil, in The Energy Dimension in Russian Global Strategy, The James A. Baker III Institute for Public Policy at Rice University, 2004, .
54 Su questo tema si veda P. SINATTI, La Russia dopo l’11 settembre, in «Affari Esteri», 2002, 133, pp. 125-140 e il mio articolo I dilemmi del Cremlino tra eurasismo e occidentalismo, in «Limes. Rivista italiana di Geopolitica», 2002, 3, pp. 227-236. 17
Nonostante l’ostentata sicurezza delle dichiarazioni delle autorità di Mosca, la questione cecena è tuttora tragicamente aperta. Oltre alla mancanza di una politica di sviluppo dell’intera regione nord-caucasica, che pure potrebbe essere favorita dall’odierno momento positivo dell’economia russa55, il nodo cruciale della situazione è dato dalla totale mancanza di legittimazione da parte di Mosca della controparte separatista, definita tout court terroristica e con la quale si rifiutano trattative politiche per tentare di risolvere in conflitto in ogni maniera che non sia la resa incondizionata. Tanto gli elementi irriducibili come Basaev, ucciso il 10 luglio di quest’anno, quanto quelli politicamente più moderati – come il presidente Maschadov – sono stati esclusi da ogni trattativa, mentre Mosca ha puntato tutte le sue carte sul consolidamento di Kadyrov, inviso a buona parte della popolazione locale. Nel marzo 2003 ha avuto luogo un referendum con il quale è stata approvata – con una sospetta percentuale favorevole del 96% – la nuova costituzione, che conferma l’inserimento della Cecenia nella Federazione Russa e ne sancisce un ordinamento fortemente presidenziale. Quest’ultimo aspetto è determinato dalla volontà di Mosca che il proprio proconsole in Cecenia disponga di forti poteri, ma al tempo stesso non corrisponde alla struttura clanica della società cecena, che richiederebbe invece una amministrazione il più possibile condivisa e rappresentativa. Neppure l’amnistia concessa nel maggio 1993 a tutti i combattenti non coinvolti in atti criminali – omicidi, rapimenti, stupri – ha contribuito ad una ricomposizione della situazione politica in Cecenia. Kadyrov combatteva aspramente i radicali islamici (i wahabiti, come vengono chiamati solitamente in Russia), cercando al tempo stesso di avvicinare a sé i capi dei vari clan. Tuttavia le sue forze di sicurezza, alla cui testa aveva nominato il figlio Ramzan, si rendevano responsabili di tali violenze ed arbitri da renderne sempre più impopolare la guida. La sostanziale mancanza di legittimità del potere di Kadyrov venne confermata proprio dalle grottesche elezioni dell’ottobre 2003, in cui egli è stato eletto presidente dopo che gli altri principali candidati erano stati convinti dalle pressioni russe a ritirarsi e con una affluenza alle urne altissima secondo le autorità federali ma quasi inesistente nella realtà56.
Nei mesi successivi alle elezioni la popolarità di Kadyrov è rimasta bassissima, cosicché l’attentato che il 9 maggio 2004 pose fine alla sua vita non ha certo costituito una sorpresa. La scomparsa di Kadyrov ha inferto realmente un duro colpo alla politica russa in Cecenia, basata esclusivamente sulla repressione e priva di una visione di lunga durata. La sua morte – seguita da una nuova ondata di violenze e arbitri, nonché dall’intensificazione delle azioni della guerriglia, sia
55 Anzi, il perdurare del conflitto in Cecenia ostacola pesantemente lo sviluppo dell’intera area, che pure avrebbe interessanti prospettive. Cfr. al riguardo A. FERRARI, La regione del Mar Nero e la politica estera russa, in A. COLOMBO et al., Il Grande Medio Oriente. Il nuovo arco dell’instabilità, cit., soprattutto pp. 92-93.
56 T. ALIYEV, Chechen Election Goes just about to Plan, in «Caucasus Reporting Service», n. 9 October 9, 2003, 199, .
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contro le truppe federali che contro le forze di polizia locale fedeli a Mosca57 – avrebbe potuto indicare alle autorità russe la necessità di un cambiamento di strada nella loro politica verso la Cecenia. Ma non sembra che questa svolta abbia avuto luogo. Inizialmente il presidente Putin aveva dato l’impressione di voler semplicemente sostituire il presidente ucciso con suo figlio Ramzan, ricevendolo al Cremlino poche ore dopo l’attentato e nominandolo primo vicepremier. In seguito ha però abbandonato questo progetto, che con ogni probabilità avrebbe peggiorato ulteriormente la situazione, non tanto per la giovane età del personaggio, quanto per l’odio che la sua temuta milizia gli ha procurato. Alla successione di Kadyrov Mosca ha designato Alu Alchanov, in precedenza ministro degli Interni. Le elezioni presidenziali sono state precedute da una serie di violente operazioni militari della guerriglia, sia in Cecenia che nelle regioni limitrofe, nonché dai due attentati aerei della notte tra il 23 ed il 24 agosto, probabilmente di matrice cecena, che hanno provocato 89 vittime. Le elezioni del 29 agosto ratificarono la scelta delle autorità russe, ma senza certo porre fine alla tragedia della Cecenia.
Non è certo un caso che immediatamente dopo queste elezioni la cittadina di Beslan, nell’Ossetia settentrionale, sia stata vittima della più grave tragedia del Caucaso post-sovietico. Il primo settembre, un commando ceceno prese in ostaggio un migliaio di persone. I terroristi chiedevano il ritiro delle truppe russe dalla Cecenia e la liberazione dei prigionieri accusati di terrorismo. Dopo inutili trattative, l’intervento dei militari russi ha causato centinaia di vittime, soprattutto bambini. Questo tragico episodio ha dimostrato come sia tutt’altro che tramontato il rischio che dalla Cecenia il conflitto possa estendersi alle vicine regioni caucasiche58.
Una politica di “cecenizzazione” che si fondi essenzialmente sul potere di un presidente imposto dalla Russia ed appoggiato da una milizia brutale non può certo ottenere il consenso necessario ad avviare questa regione sulla via di una pacificazione che sarà comunque difficile e irta di problemi di ogni genere. In Cecenia tale consenso può essere raggiunto solo coinvolgendo nella maggior misura possibile nel governo le entità claniche (tejp) che ne costituiscono tuttora il fondamento sociale. Un organo collettivo, una sorta di “Loya Jirga” locale, corrisponderebbe alla tradizione politica e sociale cecena assai più di un presidente-proconsole59. Per quanto non certo esente da rischi, un processo di questo tipo – magari sanzionato in seguito da una modifica costituzionale che
57 U. DUDAEV, Killings on the Increase, in «Caucasus Reporting Service», 9 June, 2004, 237, .
58 In seguito anche la repubblica cabardino-balcara è stata di recente sanguinosamente coinvolta nel conflitto, quando - il 15 ottobre 2005 - un numeroso reparto di miliziani ceceni ha attaccato la capitale Nal'cik, provocando decine di vittime. Negli ultimi mesi, inoltre la situazione politica ed interetnica si è visibilmente deteriorata anche nel Dagestan e non è da escludere che nei prossimi mesi la relativa tranquillità di questa repubblica possa venir meno.
59 T. DE WAAL, Chechnya: Time for an International Role?, in «Caucasus Reporting Service», 16 June, 2004, 238, .
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trasformi la repubblica cecena da presidenziale a parlamentare – potrebbe contribuire al miglioramento della situazione. Inoltre, non si vede come la Russia possa pensare di giungere ad una pacificazione definitiva della Cecenia senza riconoscere il diritto di sedere al tavolo delle trattative anche ai leader separatisti, o almeno a quelli di essi – come Maschadov e Zakaev – che, oltre a mantenere una legittimità politica, non sono influenzati dall’islamismo radicale.
Un processo di questo tipo richiederebbe però da parte russa e cecena una volontà politica di comprensione reciproca che sembra essere del tutto assente. La conclusione della tragedia della Cecenia appare in effetti lontana. Nelle sue diverse fasi il conflitto dura ormai da oltre un decennio ed ha prodotto una profonda radicalizzazione da entrambe le parti. Nel campo ceceno si trovano indubbiamente numerosi estremisti, tra i quali i fondamentalisti islamici che considerano i russi “infedeli” da sterminare e perseguono l’obbiettivo politico di costituire uno stato islamico nel Caucaso settentrionale. Si tratta evidentemente di uno scenario politico che potrebbe avere conseguenze disastrose per la Russia, alla quale non può quindi essere negato il diritto di opporvisi. Al tempo stesso, come è stato osservato, non tutti coloro che cercano l’indipendenza possono essere considerati come terroristi o fanatici, benché, naturalmente, elementi del genere possano essere presenti60. Mosca continua invece a rifiutare ogni soluzione politica che non consista nella completa sconfitta dei “terroristi” per mezzo di una brutale repressione – che non può neppure essere definita militare – e la creazione di un governo fantoccio. La demonizzazione del nemico determina una percezione non politica, bensì metafisica e strumentale al tempo stesso del conflitto in corso. In questo senso l’inserimento della resistenza cecena nella onnicomprensiva categoria del “terrorismo internazionale” è un’arma a doppio taglio, che aiuta a legittimare la repressione militare, ma allontana al tempo stesso la soluzione politica. L’imbarbarimento di entrambi i contendenti ed il loro rifiuto di riconoscere alla controparte ogni legittimità non possono non indurre al pessimismo riguardo alla possibilità che il conflitto che da oltre dieci anni devasta la Cecenia possa concludersi in tempi brevi. Dalle autorità della Russia post-sovietica, che sta pagando questo conflitto con un altissimo prezzo – umano e morale, prima ancora che economico – sembra legittimo attendersi un atteggiamento differente da quello avuto sinora, senza che lo schermo della lotta al terrorismo internazionale impedisca ancora la ricerca di una soluzione indubbiamente difficile, ma necessaria.
L’incapacità di trovare una soluzione politica alla resistenza cecena, ridotta unicamente a questione terroristica, rende ancor più difficile per Mosca opporsi alla penetrazione statunitense nelle repubbliche indipendenti della Transcaucasia. La politica di Putin in questa regione ha tuttavia segnato un cambiamento significativo rispetto a quanto era avvenuto nel decennio precedente. In particolare Putin si è sforzato di superare la mancata coincidenza tra la politica
60 R. MENON - G.E. FULLER, Russia’s Ruinous Chechen War, in «Foreign Affairs», 79, 2002, 2, p. 44.
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estera dello stato e l’interesse delle grandi compagnie petrolifere russe che aveva ostacolato l’azione di Mosca nella regione. La decisa, se non brutale, opera di riappropriazione delle compagnie petrolifere russe da parte dello stato ha avuto ripercussioni notevoli nella regione61, soprattutto per quel che riguarda l’Azerbaigian. Qui, oltre a sanare diversi contenziosi accumulatisi in precedenza e a legittimare la transizione ereditaria del potere, Putin ha finalmente acconsentito alla costruzione del contestato oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Tanto in Georgia quanto in Armenia, inoltre, la politica russa ha iniziato a far leva sull’economia. Tra il 2002 ed il 2003 Mosca acquisì il controllo pressoché totale dell’energia elettrica in Georgia62, estendendo ulteriormente la sua penetrazione economica in Armenia, della quale controlla ora circa la metà dell’energia elettrica e – dal settembre 2003 – anche la centrale nucleare di Metzamor63. Questo spregiudicato uso politico dell’economia da parte della Russia appare in effetti collegato all’idea di “impero liberale” elaborato dall’influente Anatolij Čubais, noto per avere guidato le liberalizzazioni nei primi anni Novanta ed attualmente a capo di una vasta holding energetica di Stato, la Rao Ues. A partire dalla fine del 2003 Čubais si è più volte espresso a favore di questa prospettiva, che consentirebbe al paese più industrializzato e maggiormente dotato di risorse energetiche, umane e militari fra gli stati membri della Csi, di tornare ad assumere il ruolo che gli compete e di edificare un moderno impero basato sui principi liberali della tolleranza e della cooperazione. In maniera non dissimile dagli Stati Uniti, la Russia dovrebbe ricostituire la sua egemonia sull’area ex-sovietica su queste nuove basi, con un accorto utilizzo degli strumenti a sua disposizione, primo fra tutti la leva delle risorse energetiche, ma anche accordando sostanziale libertà di movimento e di lavoro in territorio russo alle intense correnti migratorie in provenienza principalmente dall'area caucasica e centroasiatica64.
Al di là della discutibile consistenza dell’idea della Russia come “impero liberale”, non vi è dubbio che la politica estera di Mosca negli ultimi anni si stia servendo ampiamente delle leve energetiche, in particolare – ma non solo – nei confronti delle repubbliche ex-sovietiche. Assai prima del conflitto con l’Ucraina per il gas a cavallo tra 2005 e 2006, la Transcaucasia può in effetti essere considerata il banco di prova di questa nuova strategia russa.
Un altro aspetto importante di questa politica estera basata principalmente sugli strumenti economici, è il riavvicinamento alla Turchia, con la quale aveva avuto in precedenza forti contenziosi sia in Europa (Bosnia e Kosovo) sia nello stesso
61 P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., p. 45.
62 M. TSERETELI, Russian Energy Expansion in Caucasus: Risks and Mitigation Strategy, 27 August 2003, .
63 H. KHACHATRIAN, Russian Moves in Caucasus Energy and Power Sectors Could Have Geopolitical Impact, in «Eurasia Insight», 25 September 2003, .
64 I. TORBAKOV, Russian Policymakers Air Notion of “Liberal Empire” in Caucasus, Central Asia, in «Eurasia Insight», 27 October 2003, .
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Caucaso (Alto Karabakh e Cecenia). Da alcuni anni Mosca e Ankara hanno invece trovato opportuno migliorare i loro rapporti. A livello economico è da segnalare soprattutto la costruzione del gasdotto sottomarino Blue Stream, che porta il gas russo in Turchia attraversando il Mar Nero, nonché il forte intensificarsi del flusso turistico tra i due paesi. A livello strategico, invece, Russia e Turchia – quest’ultima soprattutto dopo il peggioramento dei rapporti con Washington in seguito alla Guerra del Golfo – trovano conveniente limitare la penetrazione statunitense nel Caucaso65
Oltre a perseguire queste nuove strategie di carattere prevalentemente economico, Mosca continua peraltro a portare avanti nel Caucaso alcuni aspetti della politica precedente. In particolare ha riconfermato il suo appoggio alle regioni separatiste, soprattutto ad Abkhazia e Ossetia meridionale, che fanno parte della sempre meno controllabile Georgia. Un altro aspetto importante di questa politica è il tentativo di mantenere il più a lungo possibile le proprie basi militari in Georgia ed Armenia. E’ evidente che Mosca si è servita di queste basi per preservare la propria declinante presa sulla Georgia. In ogni caso il parlamento georgiano non ha mai ratificato il trattato del 1995, il che ha consentito al governo di chiedere in seguito la chiusura delle basi russe. Nel novembre 1999, durante il vertice Osce di Istanbul, Georgia e Russia firmarono un nuovo trattato per la graduale riduzione della presenza militare russa. Le basi di Gudauta e Vaziani avrebbero dovuto chiudere, ma questo è avvenuto solo per la seconda. La prima, situata in Abkhazia, ha continua ad ospitare una forza militare russa di peace-keeping, tanto gradita agli abkhazi quanto invisa al governo di Tbilisi. La presenza delle basi russe in Armenia non è invece mai stata messa in discussione a causa del perdurare della percezione della minaccia turca da parte di Erevan. Nel complesso tuttavia, la reale rilevanza strategica di queste basi è discutibile. In particolare, da più parti vengono sollevate “…questions about the purpose and the rationale of the Russian military bases in Georgia and Armenia, since their dismal status stands in sharp contrast to the strategic importance that is often ascribed to them. Indeed, the few thousand troops stationed in those bases are at a low state of readiness and increasingly resemble lost legions that have few chances of seeing reinforcements arriving swiftly in a time of crisis”66.
In ogni caso, la presenza di queste basi e la pressione energetica non hanno potuto impedire la penetrazione statunitense in Georgia, avvenuta – almeno ufficialmente – sotto il segno della lotta al terrorismo. Sin dal febbraio 2002, infatti, gli Stati Uniti hanno inviato in Georgia un contingente militare, sia pur limitato (200 uomini) e preposto all’addestramento anti-terroristico (progetto Train and Equip). Il dispiegamento di militari statunitensi in Georgia è seguito alla “scoperta” di militanti di al-Qaeda nella repubblica ex-sovietica di Georgia, precisamente nella valle settentrionale del Pankisi, che costituisce da anni il principale canale
65 F. HILL - O. TASPINAR, La Russie et la Turquie au Caucase: se rapprocher pour préserver le statu quo?, in «Russie.Nei. Visions», 2006, 8, pp. 4-5.
66 P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., p. 48.
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attraverso cui si alimenta la guerriglia separatista cecena. Nonostante Putin abbia cercato di far buon viso a cattivo gioco dichiarando che l’arrivo di militari statunitensi in Georgia non preoccupa il governo russo, tale fatto – che segue di poco il loro più consistente dislocamento nelle repubbliche centroasiatiche ex sovietiche – ha un significato strategico molto preoccupante per la Russia. Viene in effetti ad essere compromessa la dottrina strategica, affermata a partire dalla fine del 1993, secondo la quale Mosca rivendica funzioni di peacekeeping e mantenimento della stabilità nel territorio dell’intera CSI e la formazione di una fascia di “buon vicinato” lungo i confini russi. La presenza americana in Georgia, in una regione di vitale importanza strategica per la Russia, costituisce inoltre un fattore che inquieta larga parte dell’opinione pubblica russa, nonché i vertici militari67. Da parte russa si sospetta infatti in primo luogo che questi istruttori possano addestrare le truppe georgiane in vista di una riconquista di Abkhazia e Ossetia meridionale, prospettiva assai poco gradita a Mosca68. Più in generale, la Russia teme che – nonostante le smentite ufficiali di Washington – l’operazione Train and Equip abbia costituito un primo passo per l’insediamento stabile di truppe statunitensi nella regione.
Nel corso del 2002 e del 2003 i rapporti tra la Georgia e la Russia hanno conosciuto fasi alterne. Alcuni segnali positivi si sono avuti nella sfera economica, ma in quella politica i rapporti russo-georgiani sono sempre tesissimi. Mosca ha mantenuto il regime di visto obbligatorio con la Georgia, emettendo al tempo stesso passaporti russi in Abkhazia e Ossetia. Ma è soprattutto la presenza di guerriglieri ceceni nella valle di Pankisi ad aver avvelenato i rapporti tra Mosca e Tbilisi. Dopo un misterioso bombardamento aereo di questa località il 23 agosto 2002, attribuito dalle autorità georgiane alla Russia (che ha ufficialmente smentito), il presidente Putin è giunto a minacciare un’azione militare russa, provocando una forte preoccupazione a Tbilisi, che – nonostante i gravi problemi di budget – incrementò immediatamente le sue spese militari69. Un incontro tra Putin e Shevarnadze avvenuto a Chisinau (Moldavia) il 6 ottobre dello stesso anno sembrò aver in parte migliorato la situazione. I presidenti dei due paesi raggiunsero un accordo sul controllo congiunto della valle di Pankisi per controllare lo sconfinamento in Russia di guerriglieri ceceni e Shevarnadze si spinse a definire la Russia uno dei due principali partner strategici del suo paese,
67 I. TORBAKOV, Putin Faces Domestic Criticism over Russia’s Central Asia Policy, in «Eurasia Insight», 2 December 2002, .
68 J. SILVERMAN, Russian Manoeuvring in Kodori Exposes Tangle of Georgian Interests, in «Eurasia Insight», 17 April 2002, .
69 I. ARESHIDZE - I. CHKHENKELY, Georgian Diplomats, Blaming Russia, Invite Important Questions, in «Eurasia Insight», 27 November 2002, .
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ovviamente insieme agli Stati Uniti70. Tale dichiarazione, peraltro, suscitò immediatamente le reazioni negative degli oppositori del presidente, che vi lessero un pericoloso cedimento alle pressioni russe71. La politica di equilibrio tra Russia e Occidente condotta da Shevarnadze risultava ormai insoddisfacente sia verso l’interno che verso l’esterno. Mentre in Russia la sempre più stretta cooperazione militare di Tbilisi con gli Stati Uniti (e la Turchia)72 suscitava una crescente irritazione, così come l’esplicito appoggio alla guerra in Irak, per altri aspetti la posizione di Shevarnadze appariva a Washington eccessivamente succube a Mosca, come nelle questioni energetiche.
Nel 2003 la popolarità di Shevarnadze era ormai molto bassa, soprattutto alla luce di una situazione economica sempre difficilissima. A partire dalle elezioni locali, che si svolsero il 2 giugno in un’atmosfera di disordine e violenza, il potere dell’anziano presidente iniziò a sgretolarsi rapidamente. Gli Stati Uniti cominciarono ad appoggiare direttamente e indirettamente i suoi oppositori (soprattutto con i finanziamenti di George Soros a movimenti giovanili e reti televisive)73. La “rivoluzione di velluto” è stata guidata principalmente da persone di netto orientamento filo-occidentale, come Nino Burjanadze, Zurab Zhvania e soprattutto Mikhail Saakashvili, impostosi come la figura dominante dell’opposizione. Dopo i clamorosi brogli elettorali nelle elezioni parlamentari del 2 novembre, che avevano visto la contestatissima vittoria delle forze filo-presidenziali, la situazione è sfuggita di mano a Shevarnadze, costretto alle dimissioni il 23 novembre del 2003. Dimissioni in qualche modo concordate con la Russia, il cui ministro degli esteri – Igor’ Ivanov – era in quei giorni a Tbilisi per seguire l’evolvere della situazione. Dopo una presidenza pro-tempore di Nino Burjanadaze, le elezioni del 4 gennaio 2004 hanno visto il trionfo di Mikhail Saakashvili, che ha ottenuto il 97,5% dei voti.
Questa evoluzione politica della Georgia è avvenuta indubbiamente con il favore ed il sostegno degli Stati Uniti. Washington è intenzionata a fare della Georgia il paese chiave del suo ridispiegamento strategico e militare nella regione caucasica, più di quanto – per differenti ragioni – possano divenirlo l’Armenia e l’Azerbaigian. Non a caso il ministro della difesa Donald Rumsfeld visitò Tbilisi già nel dicembre 2003, invitando tra l’altro la Russia a chiudere le sue basi militari in questo paese. A Mosca è diffuso il timore che le truppe russe possano essere sostituite da quelle statunitensi, magari all’interno delle stesse basi tanto a
70 Georgian President revises Foreign Policy concept, in «Caucasus Report», 24 October 2002, .
71 G. KANDELAKI, Shevarnadze’s Chisinau Concessions Shatter Georgia’ Political Unity, in «Eurasia Insight», 10 September 2002, .
72 I. TORBAKOV, Expanding Turkish-Georgian Strategic Ties Rankle Russia, in «Eurasia Insight», 25 April 2003, .
73 P. SINATTI, La Georgia tra Mosca e Washington, in «Limes. Rivista di geopolitica», 2004, 1, p. 292.
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lungo contestate. Nonostante le smentite di Washington, non vi è dubbio che proprio la Georgia sia il punto di partenza del processo di transizione egemonica che sta avvenendo nella Transcaucasia ed alla quale Mosca si oppone peraltro strenuamente74.
Si tratta comunque di un processo non esente da rischi. Il più immediato può provenire dalla tentazione, oggi forte a Tbilisi, di sfruttare l’appoggio statunitense per riprendere la politica micro-imperiale di Gamsakhurdia e porre fine in maniera violenta alla virtuale indipendenza delle repubbliche secessioniste. Questo potrebbe determinare una ripresa dei conflitti inter-etnici, raffreddatasi ormai da dieci anni ma sostanzialmente irrisolti. Lo slogan “Riprendiamoci la Georgia” utilizzato dal blocco elettorale guidato da Saakashvili, Movimento Nazionale, risulta non poco inquietante per abkhazi e osseti. Soprattutto dopo quel che è avvenuto in Agiaria. Il presidente di questa repubblica, Abashidze, che da oppositore di Shevarnadze era divenuto suo alleato nel corso del 2003, aveva assunto una posizione decisamente ostile alla nuova dirigenza di Tbilisi, facendo affidamento sulla base militare russa dislocata a Batumi. Nel maggio 2004, però, è stato costretto alla resa, rifugiandosi in Russia. L’Agiaria è quindi ritornata sotto il controllo di Tbilisi, segnando l’inizio della riconquista del territorio nazionale che faceva parte del programma elettorale di Saakashvili. Va però tenuto presente che, per quanto prevalentemente musulmani, gli abitanti dell’Agiaria sono georgiani e non hanno nei confronti di Tbilisi la forte ostilità di abkhazi e osseti. La partita per riprendere il controllo dei territori abitati da queste popolazioni potrebbe quindi risultare più difficile e foriero di gravi complicazioni internazionali. Tuttavia la determinazione di Saakashvili di proseguire in questa direzione è fuori questione. Poco dopo aver vinto la partita in Agiaria, il presidente georgiano ha iniziato quella in Ossetia meridionale, per mezzo di una campagna consistente tanto in dimostrazioni di buona volontà (donazioni di fertilizzanti, offerte di pagare le pensioni agli abitanti della regione, tentativi di organizzare incontri culturali e sportivi, trasmissioni televisive in lingua osseta), quanto in esibizioni di forza militare. Nell’estate del 2004 la tensione in questa regione aumentò sensibilmente, con tutta una serie di incidenti frontalieri, scaramucce ed accuse reciproche tra le parti. La situazione è ancora oggi estremamente delicata e non è escluso che in nell’immediato futuro possa precipitare verso un vero e proprio scenario di guerra75.
L’intensificazione delle rivendicazioni georgiane su queste regioni dopo la “rivoluzione delle rose” ha infatti ravvivato la prospettiva di un loro
74 A questo riguardo si veda A. FERRARI, La Georgia tra Federazione Russa e Stati Uniti: un modello di transizione egemonica?, in A. COLOMBO (a cura di), La sfida americana. Europa, Medio Oriente e Asia Orientale di fronte all’egemonia globale degli Stati Uniti, Milano, 2005, pp. 56-78.
75 I. TORBAKOV, South-Ossetia Crisis Stokes Tension between Russia and Georgia, in «Eurasia Insight», 25 August 2004, ; S. SMITH, South Ossetia Conflict Heats up, in «Caucasus Reporting Service» 12 August 2004, 246, .
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incorporamento nella Federazione Russa. Più volte sollecitata dai dirigenti di Abkhazia e Ossetia meridionale, questa sorta di annessione di territori giuridicamente appartenenti alla Georgia sembra peraltro scarsamente praticabile, soprattutto alla luce delle forti ripercussioni interne ed internazionali che un’operazione del genere potrebbe avere. Si pensi solo al caso della Cecenia. Non vi è dubbio, tuttavia, che Mosca appaia ancora intenzionata a sostenere l’ufficiosa indipendenza di queste repubbliche da Tbilisi. Tra l’altro, la possibilità di un mutamento di status del Kosovo viene interpretato dalle autorità russe anche alla luce di una analoga prospettiva riguardante la regioni secessioniste di Abkhazia e Ossetia meridionale76.
L’invito alla prudenza rivolto da uno specialista statunitense dell’area alla nuova leadership georgiana, ma anche ai policy-makers di Washington, appare pertanto del tutto condivisibile: The United States should now help Georgia’s new leadership think creatively about basic questions of sovereignty, territorial control, and institutional design. The central government must recognize the multiethnic and multireligious reality of the country. It must accept a decade of state-building in the secessionist regions and allow local government to be empowered. If these efforts succeed, Georgia could well become the positive example for Eastern Europe and Eurasia that observers have long hoped for 77.
In effetti la situazione in Georgia rischierebbe di diventare estremamente pericolosa se si acutizzasse la rivalità tra la Russia e gli Stati Uniti per il controllo di questo paese, soprattutto sfruttandone le tensioni interne. Un ulteriore dispiegamento militare statunitense, magari con l’obbiettivo di difendere il nuovo oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, confermerebbe i timori russi sulla volontà di Washington di insediarsi stabilmente nel Caucaso ed inasprirebbe senza dubbio la situazione. Tuttavia il rapporto tra Mosca e Tbilisi continua ad essere estremamente teso, con segnali di schiarita rapidamente seguiti da momenti di irrigidimento. L’annuncio, avvenuto il 30 maggio 2005, della chiusura delle ultimi basi russe in Georgia entro il 2008 ha senz’altro contribuito a distendere i rapporti tra i due paesi. Tuttavia l’aumento del prezzo del gas imposto da Mosca alla fine dell’anno e gli attentati, non chiariti, che il 22 gennaio del 2006 hanno provocato l’interruzione per alcuni giorni del rifornimento energetico alla repubblica caucasica hanno di nuovo portato ad un peggioramento della situazione. Il successivo blocco da parte di Mosca di prodotti agricoli georgiani (in particolare vino e acqua minerale), ha mostrato ancora una volta quanto difficile sia il
76 I. TORBAKOV, Russia Plays up Kosovo Precedent for Potential Application in the Caucasus, in «Eurasia Insight», 12 April 2006, .
77 C. KING, A Rose Among Thorns. Georgia Makes Good, in «Foreign Affairs», 2004, 2, pp. 13-18.
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cammino verso l’instaurazioni di stabili rapporti di collaborazione tra Georgia e Russia78.
Le relazioni della Russia con l’Armenia sono completamente diverse. Da un punto di vista economico questa repubblica è in netto miglioramento, con tassi di sviluppo intorno al 10% nel 2001-2002. L’evoluzione della situazione internazionale dopo l’11 settembre 2001 ha però posto l’Armenia in una situazione estremamente complessa. I tradizionali rapporti positivi con l’Iran – uno dei paesi del cosiddetto “asse del male” – hanno creato alcune difficoltà con Washington79. Inoltre, il dislocamento di militari statunitensi nella vicina repubblica georgiana è stato osservato a Erevan con una certa inquietudine80, in quanto potrebbe preludere ad una completa esclusione dalla Transcaucasia della Russia, che dell’Armenia resta il sostegno principale contro l’Azerbaigian e soprattutto la Turchia. E’ vero peraltro che negli ultimi anni vi sono stati alcuni importanti segnali di distensione tra l’Armenia e la Turchia. Il 15 maggio 2002 i ministri degli esteri dei due paesi (e dell’Azerbaigian) si sono incontrati ai margini del summit della Nato di Reykjavik e altri colloqui hanno avuto luogo a giugno a Istanbul, in occasione di una conferenza della Comunità economica del Mar Nero. Un ulteriore elemento positivo è costituito dalla vittoria alle elezioni turche del 2002 del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, meno legato all’eredità kemalista e quindi – almeno in teoria – alla tradizionale posizione negazionista riguardante il genocidio armeno del 1915. Anche se una svolta in questo senso appare al momento ancora remota, l’eventuale soluzione del complesso contenzioso turco-armeno modificherebbe in effetti radicalmente le prospettive geopolitiche del Caucaso. Anche nella mutata situazione internazionale il principale alleato dell’Armenia rimane tuttavia la Russia. Nella sfera militare la stretta alleanza con Mosca è stata riconfermata da una serie di nuovi accordi firmati nel novembre 2003 tra i ministri della difesa dei due paesi81. La specificità storica e geopolitica dell’Armenia continua dunque a farne un fedele alleato di Mosca ed ha sinora impedito una penetrazione strategica degli Stati Uniti in questo paese. Ciononostante anche qui la situazione potrebbe conoscere un’evoluzione poco gradita a Mosca. Va comunque segnalato come a livello di opinione pubblica anche l’Armenia sembri indirizzarsi più chiaramente che in passato verso Occidente piuttosto che verso la Russia. In un sondaggio condotto nel dicembre
78 Sul significato, non solo economico, che questa misura ha per la Georgia si veda l’articolo di M. CORSO, To Georgia, Wine War with Russia: A Question of National Security, in «Eurasia Insight», 13 April 2006, .
79 E. DANIELYAN, U.S. Sanctions Expose Unease over Warm Ties between Yerevan and Tehran, in «Eurasia», 18 May 2002, .
80 J-C. PEUCH, Possible US Military Buildup in Georgia Raises Armenian Concerns, in «Eurasia Insight», 14 March 2002, .
81 S. BLAGOV, Armenia and Russia Reassert Bonds amid Georgia’s Crisis, in «Eurasia Insight», 17 November 2003, .
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2004 dall’Armenian Center for National and International Studies (Acnis) su un campione di duemila persone, due terzi degli intervistati si sono detti favorevoli all’ingresso nell’Unione Europea e solo il 12% contrari. Tutti i cento politici e specialisti di politica internazionale contattati dall’Acnis hanno dato la stesa risposta. Esito analogo ha dato un altro sondaggio, organizzato dall’agenzia “Vox populi”, secondo il quale il 72% della popolazione di Erevan preferirebbe far parte dell’Unione Europea anziché della CSI82. In una repubblica tradizionalmente filo-russa si tratta di un dato rilevante, che risente certo degli avvenimenti georgiani. La percezione del diminuito peso della Russia nella regione sembra aver parzialmente influenzato anche l’orientamento dei vertici politici armeni, che negli ultimi anni hanno rafforzato i legami con Nato, Stati Uniti e Unione Europea.
In Azerbaigian il cambiamento delle prospettive geopolitiche dopo l’11 settembre ha avuto conseguenze relativamente limitate. La leadership autoritaria e clanica di Heydar Aliyev aveva stabilito rapporti preferenziali con gli Stati Uniti e la Turchia senza però pregiudicare le relazioni con l’Iran e la Russia. Il presidente Putin ha cercato sin dall’inizio del 2001 di migliorare le relazioni della Russia con l’Azerbaigian, acconsentendo, sia pure in maniera ambigua, alla costruzione del tanto contestato oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan. Per la Russia è in effetti di particolare importanza economica la soluzione dei problemi di divisione del Mar Caspio, dove è di gran lunga la maggior potenza militare (come mostrano le ripetute, e a volte imponenti, manovre militari)83. Da parte di Baku la volontà di migliorare i rapporti con Mosca deriva anche dal fatto che numerosi azeri lavorano in Russia, contribuendo non poco con le loro rimesse all’economia dl paese. Il miglioramento delle relazioni russo-azere ha in qualche modo limitato la penetrazione statunitense, che pure è indubbiamente aumentata. In particolare si è rafforzata la cooperazione militare, soprattutto per migliorare la flotta, principalmente in funzione anti-iraniana84. Ciononostante, nel corso della guerra in Iraq del 2003 l’atteggiamento dell’Azerbaigian è stato alquanto prudente, in quanto Aliyev, la cui salute era ormai minata, non voleva sacrificare all’alleanza con gli Stati Uniti il sentimento di solidarietà per l’Iraq ampiamente diffuso in un paese musulmano come l’Azerbaigian. Benché la possibilità di accogliere basi statunitensi non sia esclusa dalla dirigenza azera85, si ha in effetti l’impressione
82 E. DANIELYAN, Polls Show Pro-Western Shift in Armenian Public Opinion, in «Eurasia Insight», 11 January 2005, .
83 P. BAEV, Russia’s Policy in North and South Caucasus, cit., pp. 46-47.
84 S. BLANK, U.S. Military in Azerbaijan, to Counter Iranian Threat, in «Central Asia-Caucasus Analyst», 10 April 2002, .
85 F. ISMAILZADE, Heightened Geopolitical Competition over the Caucasus?, in «Central Asia- Caucasus Analyst», 17 December 2003, .
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che Baku abbia ceduto definitivamente alla Georgia la chance di divenire il paese-chiave della penetrazione statunitense nella regione.
La discutibile operazione politica che ha visto la trasmissione ereditaria del potere da Heydar Aliyev – morto alla fine del 2003 – a suo figlio Ilham, è stata bene accolta sia dalla Russia che dagli Stati Uniti. Mosca spera evidentemente che Ilham Aliyev, il quale per rafforzare la sua ancora debole posizione ha un forte bisogno dell’appoggio del grande vicino settentrionale, abbia ereditato l’equilibrio politico del padre. Per quel che riguarda Washington, gli interessi connessi al transito petrolifero ed al controllo del radicalismo islamico sono troppo grandi perché si guardi eccessivamente alle incerte credenziali democratiche del nuovo presidente.
Mentre la Georgia è ormai apertamente proiettata verso gli Stati Uniti e l’Armenia rimane in larga misura sotto il controllo di Mosca perché obbligata dalle sue particolari questioni geopolitiche, l’Azerbaigian sembra quindi poter costituire una sorta di modello delle nuove relazioni internazionali, in cui la superpotenza statunitense agisce in parziale accordo con quella locale, in questo caso la Russia86.
Conclusione
La recente politica della Russia post-sovietica nei confronti del Caucaso si sviluppa dunque secondo due linee differenti. Nel Caucaso settentrionale, Mosca ha dimostrato anche sotto la presidenza di Putin di non saper concepire una vera alternativa alla politica di repressione in Cecenia (sia pure affidata ad una fazione locale filo-russa), né di portare avanti un effettivo sviluppo economico dell’intera regione. Da questo punto di vista il Caucaso continua a costituire davvero il punto debole della Russia putiniana, anche se non si deve sottovalutare l’importanza che a livello di politica interna continua ad avere la manifestazione di “fermezza” manifestata verso questa regione. Nella Transcaucasia, invece, rispetto al decennio di El’cin, all’uso spregiudicato delle rivalità interetniche ed al mantenimento di basi militari nella regione ovunque possibile la Russia ha iniziato ad aggiungere lo sfruttamento sempre più intenso delle leve economiche, in particolare per quel che riguarda l’energia. Questa strategia, legata alla nuova concezione di un “impero liberale” che sembra stare prendendo piede a Mosca, non è tuttavia servita ad impedire che in seguito alla cosiddetta “rivoluzioni delle rose” la Georgia si allontanasse ulteriormente dall’orbita russa, avvicinandosi ancor più agli Stati Uniti ed all’Unione Europea. Nella stessa Armenia, tradizionalmente l’alleato più fedele nella regione, si hanno crescenti segnali di un desiderio di disimpegno dallo stretto e pur strategicamente indispensabile legame
86 I. TORBAKOV, Russia Backs Dynastic Political Succession Scenario in Azerbaijan, in «Eurasia Insight», 7 August 2003, . 29
con la Russia. Il paese in cui tale politica sembra aver dato frutti migliori è forse l’Azerbaigian, che nonostante il completamento dell’oleodotto Baku-Ceyhan, ha oggi migliorato i suoi rapporti con Mosca.
Nel complesso sembra possibile affermare che la politica russa nel Caucaso appare rivolta essenzialmente al mantenimento dello status quo, per molti aspetti favorevole a Mosca grazie all’eredità imperiale e sovietica, ma senza la capacità di adattarsi realmente alla mutata situazione internazionale, in primo luogo all’indipendenza delle tre repubbliche transcaucasiche. In particolare la Russia sembra ancora soggetta ad una tentazione cripto-imperiale, che tende a ricondurre sotto il suo controllo questi paesi che tendono invece, con particolare forza nel caso della Georgia, a proiettarsi vero l’Europa e l’Occidente. In effetti, tanto sotto la guida di El’cin quanto sotto quella di Putin la Russia non ha saputo dimostrarsi un valido polo di attrazione per queste repubbliche (se non per l’Armenia, costretta dalla sua particolare situazione geopolitica a mantenersi stretta a Mosca). In particolare, la politica brutale in Cecenia e l’incapacità di realizzare un adeguato sviluppo socio-economico del Caucaso settentrionale costituiscono un biglietto da visita assai poco gradevole nei confronti dei paesi transcaucasici. Questo ha reso con ogni probabilità irreversibile il distacco di Georgia e Azerbaigian dall’orbita politica diretta della Russia.
Sia per la crescente penetrazione degli Stati Uniti sia per l’accresciuto interesse dell’Unione Europea, la situazione politica e strategica del Caucaso meridionale sta rapidamente cambiando. E qui, forse più che in ogni altra regione dell’ex-Urss, Mosca deve trovare un difficile equilibrio tra la difesa dei suoi consistenti interessi strategici e la nuova realtà politica internazionale.
v.v.
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