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Il Silenzio d'Europa e recente dicchiarazioni del Premier Turco Erdogan;
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da Le soir
Il silenzio con cui l'Europa ha accolto le recenti dichiarazioni del premier turco sull'espulsione dei clandestini armeni testimonia ancora una volta l'ambiguità dell'atteggiamento dei ventisette nei confronti della Turchia: non abbastanza "europea" per entrare nell'Unione, ma troppo importante per perderla.
Immaginate che Angela Merkel minacci di espellere tutti i turchi senza documenti solo perché non ha apprezzato una dichiarazione di Ankara sull'Olocausto.
Un atto del genere susciterebbe una protesta generale, perché tutti si aspettano che la Germania si assuma la responsabilità per il capitolo più oscuro della sua storia e rispetti il diritto internazionale, che esclude categoricamente le punizioni collettive. Nessun paese europeo ha invece reagito quando il primo ministro turco, infastidito dalle critiche internazionali sul genocidio degli armeni, ha minacciato di espellere “i 100mila profughi armeni che vivono clandestinamente in Turchia”.
Il silenzio che ha fatto seguito a questa “uscita” di Recep Tayyip Erdogan è sorprendente. L'Unione europea, fino ad oggi, ha taciuto in tutte le sue lingue ufficiali. Perché? Non siamo autorizzati a pensare che le autorità europee si siano rassegnate a considerare la Turchia – anche se candidata all'adesione – come un paese a parte, e che per questo non sia giudicata secondo le norme e i valori ai quali l'Unione dice di ispirarsi. No, piuttosto l'Europa agisce come se avesse paura di “perdere la Turchia”, la diciassettesima potenza industriale al mondo, un perno dell'approvvigionamento energetico europeo, una “pedina strategica dell'occidente” e “un ponte tra la cultura giudeo-cristiana e quella musulmana”.
Ankara è stanca di aspettare
In privato, i responsabili europei riconoscono che nonostante i suoi progressi la Turchia è ancora lontana dal rispondere ai criteri essenziali di una democrazia europea. La sua costituzione (di cui il 22 marzo è stato presentato in parlamento un progetto di revisione) e il suo codice penale contengono articoli incompatibili con il corpo giuridico europeo. L'esercito, anche se prevalentemente difensivo, resta troppo potente. Sulla questione curda restano parecchie ombre. Il riconoscimento del genocidio armeno è ancora un tabù, nonostante le migliaia di firme raccolte dall'appello “Chiediamo scusa”, lanciato da un gruppo di intellettuali progressisti turchi. E anche se l'Akp, il partito conservatore musulmano al potere, si definisce moderato, la sua ascesa coincide con un lento rafforzamento delle componenti islamiche della società e delle istituzioni.
Di fronte ai loro stessi dubbi, anche i sostenitori europei dell'adesione non sanno come presentare Ankara come una nuova capitale dell'Unione a un'opinione pubblica europea reticente. Ma hanno un timore ancora più immediato: l'irritazione della Turchia per il tergiversare dell'Europa è palpabile.
I dirigenti turchi ripetono ai quatto venti che vogliono entrare nell'Unione, ma ricordano anche che non è questa l'unica alternativa a disposizione.
Consapevole dei suoi vantaggi demografici, economici, culturali, geo-politici e religiosi, la Turchia non si sente più uno stato ai confini dell'Europa, incaricato di difendere gli interessi occidentali in una delle regioni più tormentate del mondo. Si concepisce piuttosto come “un paese centrale”, al punto da definire autonomamente la propria visione e i propri interessi. L'ha già fatto con l'Iraq, con Israele e con l'Iran, sganciandosi dall'approccio statunitense ed europeo.
Questioni non negoziabili
Dopo aver accettato alcune delle “esigenze di Bruxelles”, la Turchia sembra ora meno disposta a fare delle “concessioni”. Nel corso dei negoziati, la Turchia si è resa conto delle reali implicazioni dell'adesione – e in particolare della perdita di sovranità che rimette in discussione elementi fondamentali del sistema statale e della cultura politica turca. In altre parole, se la Turchia diventasse un membro dell'Ue preservando però quelle caratteristiche che una parte significativa dei suoi dirigenti e della sua opinione pubblica considerano escluse dalle trattative (il nazionalismo, la supremazia dell'Islam sunnita, il forte senso di appartenenza alla cultura turca), questa adesione stravolgerebbe la natura della costituzione democratica europea. In effetti, la “questione turca” non si può risolvere con la formula dell'opt-out (esenzione) all'inglese o alla danese, perché comprometterebbe il modello politico post-nazionalista e pluralista che ispira la costruzione europea.
In Turchia solo l'elite “laico-liberale” e quella musulmana progressista l'hanno compreso davvero. Turchia e Unione Europea sono quindi spalle al muro.
Tutte e due devono definire chiaramente quali sono i valori ai quali non possono rinunciare. Siamo lontani dai calcoli strategici e dagli uomini d'affari. Siamo al cuore delle grandi questioni sul disegno e il destino delle nostre società. E in questo momento cruciale, la Turchia non è la sola a stare sui carboni ardenti. (nv)
G.C
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