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29 Ap 2010 - Sonya Orfalian e Antonino Raitano scrivono; .
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Analisi di un altro sterminio: quello delle popolazioni “zingare”.
Rom, sinti e kalè: lente d’ingrandimento su provenienza e cultura. Al di là delle leggende.
L’occasione della memoria, il Giorno della Memoria (lo scorso 27 gennaio), ha fatto tra l’altro riemergere, come da un abisso (ma è assurdo, bisogna ricordare sempre), magari per “frammentazioni”, fatti anche crudi (tanti) come l’Olocausto.
Allora, “…I fiumi di inchiostro, di leggi e propaganda fecero sgorgare il mare del sangue delle vittime “colpevoli di esistere” (ebrei, rom e sinti) o “di essere non conformi” ai dettami del dittatore al potere (politici, dal 1933,
religiosi testimoni di Geova, dal 1933 al 1935, intellettuali, omosessuali, dal 1934)”. Un totale di 11 milioni di morti (6 milioni di ebrei), compresi partigani, portatori di handicap, preti ecc. Questo nostro moderno ritornare per occasioni, non è purtroppo corretto (dicevo che occorre ricordare invece sempre, fin che la memoria regge, s’intende). Perché dimenticare è facile. La memoria va infatti intesa come “consapevolezza delle responsabilità e scudo contro il ripetersi di genocidi”, evitando “la banalizzazione del ricordo”). Lui e la sua gente non hanno oggi bisogno di ricordare la Shoah, ogni giorno – ormai è fatto connaturato - vivono direttamente memoria, angoscia, incubo di ripetizione (purtroppo esistono ancora negazionismo e minacce reiterate di distruzione – vedi Iran e Yemen). Oltre agli ebrei, abbiamo detto di altre genti che patirono (a 65 anni dalla liberazione di Auschwitz) il chiaro delirio nazista. Nel rispetto di tutte indistintamente le vittime, accenno qui agli zingari, i più spesso dimenticati nella tragedia. Gente che diceva e dice ancora: “Ci piace camminare sotto le stelle,…si dice che leggiamo l’avvenire nelle stelle e che possediamo il filtro d’amore,… ci basta avere per tutto il cielo…”.
Come ci fu uno sterminio di ebrei, ci fu anche uno sterminio di zingari, obbligati ad un raduno forzato da tutta Europa e finiti poi nei campi di concentramento (forse un milione e mezzo di persone, compresi bambini e vecchi), per essere uccisi infine nelle camere a gas. Gli zingari è termine di ampio respiro, che comprende varie genti sparse sul pianeta (ca. 15 milioni), tra nomadi, semi-nomadi e sedentari (oggi in aumento). Comprendono fondamentalmente rom, sinti e kalè. Ma in origine (anche seguendone le leggende per mille anni) furono egiziani (egiptianos, da cui egitanos e gitani), saraceni, boemi (da cui bohèmien), indiani (l’origine indiana è oggi ammessa da tutti gli studiosi, gli zinganologi), iraniani (ne fanno riferimento i testi più antichi). Molte provenienze, per una popolazione certo assortita, con varie esperienze e tradizioni, ma sostanzialmente con in comune il nomadismo. Nello specifico, gli studiosi hanno individuato, ad esempio, alcuni grandi gruppi di zingari (pur in maniera non esaustiva): rom: europei e non, provenienti da Armenia, est europeo, Balcani, Turchia, Russia, Paesi Baltici, Spagna e Portogallo (gitani), Persia, Siria ecc. Manus (significa uomo, dal sanscrito), detti manouche in Francia e quivi occidentalizzati (bohèmien significa zingaro). Kalè, si ritrovano in Spagna (e di qui andarono anche nelle Americhe ed in Africa), ma anche in Inghilterra (gipsy) e Finlandia. Sinti (da siginni, citati da Omero), si trovano nei paesi di lingua tedesca (Germania, Austria), nella ex-Jugoslavia, nella ex-Cecoslovacchia, in Polonia, nell’Italia settentrionale e centrale; oggi sono considerati uno dei principali gruppi di zingari in Europa.
Al di là di verità e leggende (molte) che da almeno quattro-cinque secoli si raccontano sugli zingari, a proposito della loro attività (in origine furono calderai, stagnini, ramai, allevatori di cavalli, cartomanti – specie le donne, riconosciute fin dall’antichità - come “sapienti nell’arte d’indovinare “, erboristi primitivi ecc.), sono ancora praticanti la mendicità, il furto, i rapimenti, una varia criminalità,e questo non depone a loro favore. Inoltre il loro innato nomadismo non facilita certo un loro inserimento nella società moderna che vuole regole e sicurezza. Restano abili nella musica (ne furono ammirati Liszt, Puccini ed altri grandi) e nella danza. La musica gitana spagnola è un classico esempio che trae origine dalla tradizione degli zingari. Un gran numero di nostre canzoni di anni passati sono ancora dette, non a caso, zingaresche. In letteratura abbiamo molti esempi che si rifanno alle tradizioni di questa gente fantasiosa.
Citiamo, solo ad esempio, Shakespeare (Giulietta e Romeo), von Arnim (Isabella d’Egitto), Goethe (nel suo primo dramma), Wordsworth (Poemi d’immaginazione), Hugo (Notre-Dame de Paris). Per chiudere, figure di zingare sono anche nella pittura classica. Per tutti, Caravaggio (La buona ventura) e Manet (Gitana con sigaretta, Lola di Valenza). A sottolineare, comunque, un fascino eterno.
Antonino Raitano.
Il 24 aprile 1915 venne ordinato il massacro degli armeni residenti a Istanbul.
ll ricordo del Grande Male”.
Domani ricorre il Metz Yeghern: memorie da un genocidio.
Il Monte Ararat visto da Yerevan, capitale dell’Armenia, tra Turchia e Iran Sonya Orfalian è una figlia della diaspora armena, è nata cinquant’anni fa in Libia. Artista,scrittrice e traduttrice, ha dedicato una grande parte del suo impegno e della sua ricerca al ricchissimo patrimonio culturale e alle tradizioni antiche della sua gente Attualmente vive e lavora a Roma, incrementando negli ultimi anni il suo interesse per la scrittura, oltre che per le installazioni d’arte. Recentemente ha pubblicato, con grande successo di pubblico, presso l’editore Ponte alle grazie, il volume La cucina d’Armenia. Viaggio nella cultura culinaria di un popolo (272 pagine,euro 18,60): l’opera non riguarda soltanto la gastronomia, pure interessante, ma tutta la cultura di un popolo. Scrive Sonya Orfalian nel suo libro: “Considerando la posizione geografica dell’Armenia, è facile comprendere come la sua cucina abbia subito influssi sia da oriente che da occidente.
L’avvicendarsi delle dominazioni persiana e bizantina, due culture di grande ricchezza, ha indubbiamente impreziosito anche l’arte culinaria autoctona. Grano e riso vi regnano sovrani. Attraverseremo dunque la cucina armena in un viaggio ideale tra profumi di aglio e di cipolla che soffriggono, di carni arrostite, tra i rumori delle stoviglie. Il mio pensiero va al suono del mortaio di casa quando ancora l’uso del mixer non era iffusissimo e mia madre doveva preparare delle pietanze speciali: nessun altro strumento come il mortaio di legno col suo pestello può schiacciare a dovere l’aglio riducendolo in poltiglia. Da bambina era quello il mio compito in cucina e mi piaceva tanto guardare gli spicchi d’aglio gnifica che quando tutto si conclude - in questo caso la mattanza degli innocenti - nessuno può rivendicare nulla. Significa non considerare i morti come persone uccise in un conflitto. Significa non aver concesso ai soldati l’onore di combattere la loro guerra, non aver dato l’opportunità alle donne di piangere la partenza dei propri uomini. Significa non dare nessuna speranza di ritorno. Nella nostra strana guerra i maschi (i padri, i fratelli, i mariti, i nonni) venivano uccisi il più delle volte davanti alle loro mogli, sorelle, figlie e madri, nelle proprie case, nella propria città e non in un fronte lontano. Non dichiarare la guerra è servito anche a non concluderla mai, questa guerra. La negazione del genocidio significa voler mantenere aperto il
fronte, significa che quella guerra è ancora in atto, una guerra che continua. Hrant Dink, il giornalista e scrittore armeno di Turchia assassinato a Istanbul nel 2007 davanti alla sede del suo giornale Agos, è a tutti gli effetti vittima di quella guerra non conclusa che lascia ancora una volta le donne e i bambini (questa volta i suoi) da soli davanti allo sgomento di una perdita violenta, improvvisa, immotivata.
I governanti turchi di oggi - ciechi, muti e sordi come tutti i loro predecessori - continuano a negare ai figli dei sopravvissuti un diritto civile elementare, il diritto alla verità: è questo che noi armeni chiediamo, nella speranza di vedere un giorno le lancette dell’orologio della storia segnare una sola ora, quella giusta.
Sonya Orfalian
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Sonya Orfalian è una figlia della diaspora armena, è nata cinquant’anni fa in Libia. Artista, scrittrice e raduttrice, ha dedicato una grande parte del suo impegno e della sua ricerca al ricchissimo patrimonio culturale e alle tradizioni antiche della sua gente.
Attualmente vive e lavora a Roma, incrementando negli ultimi anni il suo interesse per la scrittura, oltre che per le installazioni d’arte. Recentemente ha pubblicato, con grande successo di pubblico, presso l’editore Ponte alle
grazie, il volume La cucina d’Armenia.
Viaggio nella cultura culinaria di un popolo (272 pagine, euro 18,60): l’opera non riguarda soltanto la gastronomia, pure interessante, ma tutta la cultura di Monte Ararat visto da Yerevan, capitale dell’Armenia, tra Turchia e Iran Sonya Orfalian è una figlia della diaspora armena, è nata cinquant’anni fa in Libia. Artista, scrittrice e traduttrice, ha dedicato una grande parte del suo impegno e della sua ricerca al ricchissimo patrimonio culturale e alle tradizioni antiche della sua gente. Attualmente vive e lavora a Roma, incrementando negli ultimi anni il suo interesse per la scrittura, oltre che per le installazioni d’arte. Recentemente ha pubblicato, con grande successo di pubblico, presso l’editore Ponte alle grazie, il volume La cucina d’Armenia.
Viaggio nella cultura culinaria di un popolo (272 pagine, euro 18,60): l’opera non riguarda soltanto la gastronomia, pure interessante, ma tutta la cultura di un popolo. Scrive Sonya Orfalian nel suo libro: “Considerando la posizione geografica dell’Armenia, è facile comprendere come la sua cucina abbia subito influssi sia da oriente che da occidente.
L’avvicendarsi delle dominazioni persiana e bizantina, due culture di grande ricchezza, ha indubbiamente impreziosito anche l’arte culinaria autoctona. Grano e riso vi regnano sovrani. Attraverseremo dunque la cucina armena in un viaggio ideale tra profumi di aglio e di cipolla che soffriggono, di carni arrostite, tra i rumori delle stoviglie. Il mio pensiero va al suono del mortaio di casa quando ancora l’uso del mixer non era diffusissimo e mia madre doveva preparare delle pietanze speciali: nessun altro strumento come il mortaio di legno col suo pestello può schiacciare a dovere l’aglio riducendolo in poltiglia. Da bambina era quello il mio compito in cucina e mi piaceva tanto guardare gli spicchi d’aglio gnifica che quando tutto si conclude - in questo caso la mattanza degli innocenti - nessuno può rivendicare nulla. Significa non considerare i morti come persone uccise in un conflitto. Significa non aver concesso ai soldati l’onore di combattere la loro guerra, non aver dato l’opportunità alle donne di piangere la partenza dei propri uomini. Significa non dare nessuna speranza di ritorno. Nella nostra strana guerra i maschi (i padri, i fratelli, i mariti, i nonni) venivano uccisi il più delle volte davanti alle loro mogli, sorelle, figlie e madri, nelle proprie case, nella propria città e non in un fronte lontano. Non dichiarare la guerra è servito anche a non concluderla mai, questa guerra.
La negazione del genocidio significa voler mantenere aperto il fronte, significa che quella guerra è ancora in atto, una guerra che continua. Hrant Dink, il giornalista e scrittore armeno di Turchia assassinato a Istanbul
nel 2007 davanti alla sede del suo giornale Agos, è a tutti gli effetti vittima di quella guerra non conclusa che lascia ancora una volta le donne e i bambini (questa volta i suoi) da soli davanti allo sgomento di una perdita
violenta, improvvisa, immotivata.
I governanti turchi di oggi - ciechi, muti e sordi come tutti i loro predecessori - continuano a negare ai figli dei sopravvissuti un diritto civile elementare, il diritto alla verità: è questo che noi armeni chiediamo, nella speranza di vedere un giorno le lancette dell’orologio della storia segnare una sola ora, quella giusta.
Sonya Orfalian
Fu il principio di una strage terribile, di una subdola e silenziosa guerra mai dichiarata Tra il 1915 e il 1923 provocò un milione e mezzo di morti e la distruzione di un intero popolo innocente Analisi di un altro sterminio: quello delle popolazioni “zingare” Rom, sinti e kalè: lente d’ingrandimento su provenienza e cultura. Al di là delle leggende L’occasione della memoria, il Giorno della Memoria (lo scorso 27 gennaio), ha fatto tra l’altro riemergere, come da un abisso (ma è assurdo, bisogna ricordare sempre), magari per “frammentazioni”, fatti anche crudi (tanti) come l’Olocausto.
Allora, “…I fiumi di inchiostro, di leggi e propaganda fecero sgorgare il mare del sangue delle vittime “colpevoli di esistere” (ebrei, rom e sinti) o “di essere non conformi” ai dettami del dittatore al potere (politici, dal 1933,
religiosi testimoni di Geova, dal 1933 al 1935, intellettuali, omosessuali, dal 1934)”. Un totale di 11 milioni di morti (6 milioni di ebrei), compresi partigiani, portatori di handicap, preti ecc. Questo nostro moderno ritornare per occasioni, non è purtroppo corretto (dicevo che occorre ricordare invece sempre, fin che la memoria regge, s’intende). Perché dimenticare è facile. La memoria va infatti intesa come “consapevolezza delle responsabilità e scudo contro il ripetersi di genocidi”, evitando “la banalizzazione del ricordo”). Lui e la sua gente non hanno oggi bisogno di ricordare la Shoah, ogni giorno – ormai è fatto connaturato - vivono direttamente memoria, ngoscia, incubo di ripetizione (purtroppo esistono ancora negazionismo e minacce reiterate di distruzione – vedi Iran e Yemen). Oltre agli ebrei, abbiamo detto di altre genti che patirono (a 65 anni dalla liberazione di Auschwitz) il chiaro delirio nazista. Nel rispetto di tutte indistintamente le vittime, accenno qui agli zingari, i più spesso dimenticati nella tragedia. Gente che diceva e dice ancora: “Ci piace camminare sotto le stelle,…si dice che leggiamo l’avvenire nelle stelle e che possediamo il filtro d’amore,… ci basta avere per tutto il cielo…”.
Come ci fu uno sterminio di ebrei, ci fu anche uno sterminio di zingari, obbligati ad un raduno forzato da tutta Europa e finiti poi nei campi di concentramento (forse un milione e mezzo di persone, compresi bambini e vecchi), per essere uccisi infine nelle camere a gas. Gli zingari è termine di ampio respiro, che comprende varie genti sparse sul pianeta (ca. 15 milioni), tra nomadi, semi-nomadi e sedentari (oggi in aumento). Comprendono fondamentalmente rom, sinti e kalè. Ma in origine (anche seguendone le leggende per mille anni) furono egiziani (egiptianos, da cui egitanos e gitani), saraceni, boemi (da cui bohèmien), indiani (l’origine indiana è oggi ammessa da tutti gli studiosi, gli zinganologi), iraniani (ne fanno riferimento i testi più antichi).
Molte provenienze, per una popolazione certo assortita, con varie esperienze e tradizioni, ma sostanzialmente con in comune il nomadismo. Nello specifico, gli studiosi hanno individuato, ad esempio, alcuni grandi gruppi di zingari (pur in maniera non esaustiva): rom: europei e non, provenienti da Armenia, est europeo, Balcani, Turchia, Russia, Paesi Baltici, Spagna e Portogallo (gitani), Persia, Siria ecc. Manus (significa uomo, dal sanscrito), detti manouche in Francia e quivi occidentalizzati (bohèmien significa zingaro). Kalè, si ritrovano
in Spagna (e di qui andarono anche nelle Americhe ed in Africa), ma anche in Inghilterra (gipsy) e Finlandia. Sinti (da siginni, citati da Omero), si trovanonei paesi di lingua tedesca (Germania, Austria), nella ex-Jugoslavia, nella ex-Cecoslovacchia, in Polonia, nell’Italia settentrionale e centrale; oggi sono considerati uno dei principali gruppi di zingari in Europa.
Al di là di verità e leggende (molte) che da almeno quattro-cinque secoli si raccontano sugli zingari, a proposito della loro attività (in origine furono calderai,stagnini, ramai, allevatori di cavalli, cartomanti – specie le donne, riconosciute fin dall’antichità - come “sapienti nell’arte d’indovinare “, erboristi primitivi ecc.), sono ancora praticanti la mendicità, il furto, i rapimenti, una varia criminalità,e questo non depone a loro favore. Inoltre il loro innato nomadismo non facilita certo un loro inserimento nella società moderna che vuole regole
e sicurezza. Restano abili nella musica (ne furono ammirati Liszt, Puccini ed altri grandi) e nella danza. La musica gitana spagnola è un classico esempio che trae origine dalla tradizione degli zingari. Un gran numero di nostre canzoni di anni passati sono ancora dette, non a caso, zingaresche. In letteratura abbiamo molti esempi che si rifanno alle tradizioni di questa gente fantasiosa.
Citiamo, solo ad esempio, Shakespeare (Giulietta e Romeo), von Arnim (Isabella d’Egitto), Goethe (nel suo primo dramma), Wordsworth (Poemi d’immaginazione), Hugo (Notre-Dame de Paris). Per chiudere, figure di zingare sono anche nella pittura classica. Per tutti, Caravaggio (La buona ventura) e Manet (Gitana con sigaretta, Lola di Valenza). A sottolineare, comunque, un fascino eterno.
Antonino Raitano
che via via si frantumavano; poi, dietro suggerimento di mia madre, aggiungevo un po’ di sale, e ancora pestavo e schiacciavo, schiacciavo e pestavo...” A questa grande conoscitrice del mondo armeno abbiamo chiesto un ricordo del ”Grande male”, come gli Armeni chiamano il genocidio che distrusse quasi completamente la loro gente, e che ancora rimane dimenticato o oscurato dalla volontà del potere politico.
(P.T) Era il 24 aprile del 1915 quando il governo dei Giovani Turchi diede ordine di arrestare tutti i circa duecentocinquanta intellettuali e notabili armeni di Istanbul, eliminando in tal modo i referenti civili e religiosi della grande comunità armena della città. Quello stesso giorno il governo ordinò il massacro di tutti gli armeni residenti in città:
l’ordine venne eseguito di lì a poco, e le vie di Istanbul ben presto si riempirono di cadaveri e di sangue. Questa data che ricorda l’inizio del primo genocidio del Novecento, viene ormai per tradizione assunta simbolicamente come giorno della memoria di quel crimine contro l’umanità. Ecco perchè il 24 aprile di ogni anno in tutte le comunità armene sparse nel mondo, così come anche nella Repubblica d’Armenia, si commemora quel Metz Yeghern (il ”Grande Male”: così gli armeni chiamano il loro genocidio) che ra il 1915 e il 1923 ha provocato un milione e mezzo di morti ammazzati, la distruzione di un intero popolo innocente. Novantacinque anni separano dunque questo 24 aprile 2010 dall’inizio di quei terribili fatti, e mentre gli armeni tutti ricorderanno la loro tragedia, contemporaneamente scatterà ancora una volta inesorabile il riflesso negazionista degli eredi di chi quel crimine commise: il governo turco di oggi, conformandosi all’atteggiamento di tutti i precedenti governi, negherà l’accaduto anche questa volta, secondo tradizione.
Come un orologio le cui lancette non riescano mai a sovrapporsi,il tempo passerà anche stavolta segnando due orari diversi.
Se cercate nei testi il termine ”genocidio” troverete diverse informazioni interessanti.
Il dizionario etimologico ad esempio vi spiegherà che il vocabolo deriva dal greco génos (stirpe) e dal latino -caedere (tagliare a pezzi): due grandi culture mediterranee dunque contengono e danno forma a questa parola.
Altri testi ci ricorderanno che è stato un ebreo a inventare il termine, praticamente a tavolino:
Lemkin, questo il suo nome, scelse quello che gli sembrò più adatto a indicare la Shoah, e da quel momento il destino della parola ”genocidio” sarà segnato per sempre. Altri ancora racconteranno che il termine si deve allo
svizzero Zurlinden, che alla fine della Prima Guerra Mondiale parlerà per primo di Völkermord riferendosi proprio al genocidio degli armeni. Chiusi i libri, tuttavia, molte altre cose restano fuori. Non possiamo liquidare
con una semplice parola la sofferenza spesso inenarrabile di chi ha vissuto l’esperienza dei tanti massacri che, sommati l’uno all’altro, hanno dato luogo a questo genocidio; e poi lo sperdimento dei sopravvissuti, spesso bambini e donne sole e disperate.
Cancellare una razza programmando sistematicamente e nei minimi dettagli le modalità di procedimento, non è forse una tattica di combattimento in una guerra dichiarata unilateralmente?
Come si fa a fare una guerra senza dichiararla? In questo caso lo si fa nascondendosi dietro un’altra guerra: la
Prima Guerra Mondiale che vide la Turchia alleata della Germania.
Una guerra nella guerra,quindi, fatta di imboscate, usando soldati regolari accanto ad altri scovati nelle galere e liberati di proposito, e il cui compenso furono le terre, i beni e le donne armene coi loro piccoli. Cosa significa non dichiarare una guerra?
Significa non dover mai firmare una pace o una tregua. Si- un popolo. Scrive Sonya Orfalian nel suo libro: “Considerando la posizione geografica dell’Armenia, è facile comprendere come la sua cucina abbia subito influssi sia da oriente che da occidente. L’avvicendarsi delle dominazioni persiana e bizantina, due culture di grande ricchezza, ha indubbiamente impreziosito anche l’arte culinaria autoctona. Grano e riso vi regnano sovrani. Attraverseremo dunque la cucina armena in un viaggio ideale tra profumi di aglio e di cipolla che soffriggono, di carni arrostite, tra i rumori delle stoviglie. Il mio pensiero va al suono del mortaio di casa quando ancora l’uso del mixer non era diffusissimo e mia madre doveva preparare delle pietanze speciali: nessun altro strumento come il mortaio di legno col suo pestello può schiacciare a dovere l’aglio riducendolo in poltiglia. Da bambina era quello il mio compito in cucina e mi piaceva tanto guardare gli spicchi d’aglio gnifica che quando tutto si conclude - in questo caso la mattanza degli innocenti - nessuno può rivendicare nulla. Significa non considerare i morti come persone uccise in un conflitto. Significa non aver concesso ai soldati l’onore di combattere la loro guerra, non aver dato l’opportunità nelle donne di piangere la partenza dei propri uomini. Significa non dare nessuna speranza di ritorno. Nella nostra strana guerra i maschi (i padri, i fratelli, i mariti, i nonni) venivano uccisi il più delle volte davanti alle loro mogli, sorelle, figlie e madri, nelle proprie case, nella propria città e non in un fronte lontano. Non dichiarare la guerra è servito anche a non concluderla mai, questa guerra.
La negazione del genocidio significa voler mantenere aperto il fronte, significa che quella guerra è ancora in atto, una guerra che continua.
Hrant Dink, il giornalista e scrittore armeno di Turchia assassinato a Istanbul nel 2007 davanti alla sede del suo giornale Agos, è a tutti gli effetti vittima di quella guerra non conclusa che lascia ancora una volta le donne e i bambini (questa volta i suoi) da soli davanti allo sgomento di una perdita violenta, improvvisa, immotivata.
I governanti turchi di oggi - ciechi, muti e sordi come tutti i loro predecessori - continuano a negare ai figli dei sopravvissuti un diritto civile elementare, il diritto alla verità: è questo che noi armeni chiediamo, nella
speranza di vedere un giorno le lancette dell’orologio della storia segnare una sola ora, quella giusta.
Sonya Orfalian .
Vahè Vartanian
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