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Ankara si allontana dall'Europa e guarda a Teheran
-----Argentina:premier Erdogan annulla visita
----L’analisi L’Europa non può permettersi di perdere Ankara
-----Che fine sta facendo la Turchia
-----Ankara si allontana dall'Europa e guarda a Teheran
-----Blitz israeliano contro nave aiuti: su facebook spunta il gruppo “Flottiglia di aiuti per i curdi e armeni
-----CENTENARIO DELLA SOCIETA' OPERAIA DI MUTUO SOCCORSO, Ospite Antonia Arslan
Argentina:premier Erdogan annulla visita
Dopo proteste armene contro inaugurazione statua Ataturk
30 maggio, 16:05
) - ANKARA, 30 MAG - Il primo ministro turco Tayyip Erdogan - in visita ufficiale in America Latina - ha annullato una tappa in Argentina. La decisione dopo che la municipalita' di Buenos Aires ha revocato il permesso di inaugurare una statua ad Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, in seguito a pressioni della comunita' armena, ostile al governo di Ankara. Armenia e Turchia sono in contrasto da un secolo per il genocidio di armeni ai tempi dell'impero ottomano.
da UNIONE SARDA
Argentina: Erdogan in visita a Buenos Aires
Il primo ministro turco Tayyip Erdogan - attualmente in visita ufficiale in America Latina - ha annullato all'ultimo momento una tappa in Argentina dopo che la municipalità di Buenos Aires ha revocato il permesso di inaugurare una statua ad Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, in seguito a pressioni della locale comunità armena. Lo riferisce l'agenzia turca Anadolu citando un comunicato del ministero degli Esteri turco. Erdogan aveva in programma la visita in Argentina oggi e domani e nel corso della sua permanenza era prevista l'inaugurazione di un busto di Ataturk collocato nel parco Jorge Newbury di Buenos Aires. Nonostante l'autorizzazione ad inaugurare la statua fosse già stata concessa dal ministero dell'ambiente del distretto federale autonomo di Buenos Aires, in un secondo tempo è stata revocata dietro forti insistenze della comunità armena ostile al governo di Ankara. Armenia e Turchia sono in contrasto da circa un secolo per la questione dei massacri di armeni avvenuti ai tempi dell'impero ottomano che gli armeni ritengono un genocidio. Definizione sempre respinta da Ankara secondo cui quei morti furono vittime di una cruenta guerra civile. La presidente argentina Cristina Fernandez Kirchner ha telefonato ad Erdogan ed ha affermato che la Turchia ha fatto bene a reagire ma aggiunto pure che la Costituzione del suo paese non le consente di annullare la decisione adottata dall'amministrazione autonoma di Buenos Aires. Nonostante ciò, Erdogan ha deciso di annullare la visita in Argentina affermando che tale atteggiamento è inaccettabile. "Mi aspetto che le autorità argentine adottino le necessarie iniziative per rimuovere quest'ombra gettata sui rapporti tra i due paesi dopo la decisione sbagliata presa dall'amministrazione di Buenos Aires", ha detto Erdogan


L’analisi L’Europa non può permettersi di perdere Ankara
di Redazione
da IL GIORNALE.it

aiuto
I morti ammazzati sulla nave turca che guidava la flottiglia verso Gaza non sono morti per portare aiuti umanitari ai palestinesi, ma per le aspirazioni della Turchia al ruolo di potenza regionale nell'area, capace di sfidare Israele, in competizione con l'Iran. L'organizzazione umanitaria islamista turca che ha organizzato la spedizione navale è formalmente non governativa, ma di fatto vicina al governo, che nei giorni scorsi aveva premuto su Israele perché desse via libera. E se la Turchia si è messa su questa linea è anche perché l'Europa le ha sbattuto la porta in faccia, al tempo stesso premendo perché facesse riforme interne di carattere costituzionale per portarsi a standard europei in vista dell'accesso all'Unione. Così, il ruolo delle forze armate, alle quali secondo il dettato di Ataturk spettava di vigilare sul carattere laico dello Stato, è stato svuotato dal partito islamista del premier Erdogan, al potere dal 2003, che coprendosi le spalle con i requisiti richiesti da Bruxelles, le ha messe fuori gioco facendo avanzare ad ogni livello organismi ed esponenti di una fantomatica società civile appoggiata alla moschea e al minareto.
Fino ad allora, le spinte in questo senso erano state controllate dai militari, che avevano con le spicce mandato a casa governi di tinta islamista, predisponendo elezioni da cui uscissero maggioranze laiche e di sostegno alla Nato, a conferma che Ankara legava i suoi destini non al Medio Oriente, ma all'Atlantico fino alla Norvegia, anch'essa membro dell'Alleanza.
Non è più così. Erdogan, attenuate in superficie le spinte religiose del suo partito, ha perseguito l'ingresso in Europa come i suoi predecessori, ma di fatto, salvo l'appoggio dell'Italia, si è visto chiudere le porte, in una fase in cui tutto cambiava negli scenari internazionali, e mentre in più Paesi si metteva sotto accusa la Turchia odierna per eventi di un secolo fa: non strage degli armeni, ma "genocidio" per i cultori della semantica applicata alla storia; i curdi, non minoranza, certo degna di tutela, ma nazione degna di piena indipendenza. Ne ha approfittato su due fronti. All'interno, prove di forza coi militari facendosi scudo delle richieste europee, arrivando di recente a mettere agli arresti decine di generali con accuse di tentare colpi di Stato. All'esterno, favorito dalla posizione geostrategica, rapporti con la Russia per i gasdotti, e con l'Iran in un gioco di buone relazioni e competizione sulla regione, allungando l'ombra su Siria e Irak. La Turchia tornava a essere la Sublime Porta dell'impero ottomano che fino al 1918 si estendeva sull'intera regione. E così, mentre l'Europa perdeva Ankara, Israele perdeva il suo unico alleato nell'area, per di più musulmano: per anni le forze israeliane si sono addestrate in Turchia. Nessuna delle due parti ha perso occasione per far accumular tensione, dal plateale scontro Erdogan-Peres a Davos l'anno scorso su Gaza, al recente accordo di Turchia e Brasile con l'Iran sul nucleare, dismesso da Stati Uniti, Israele e le altre potenze. La flottiglia è solo la più tragica delle sfide ultime: formalmente non è governativa, ma Ankara ha fatto il possibile perché cercasse di superare il blocco navale di Israele. Dopo la lunga alleanza, la flottiglia umanitaria che umiliasse Israele era il miglior strumento per reclamare il primato di difensore dei palestinesi di Gaza: in concorrenza con l'Iran. Come sempre, in tanti a preoccuparsi dei palestinesi: ognuno per i propri interessi.






da LA STAMPA
enzo Betticza


2/6/2010 La Turchia più lontana dall'Europa ENZO BETTIZA Non v’è dubbio che la flottiglia che puntava su Gaza era qualcosa di più d’una semplice spedizione destinata a portare soccorso umanitario ai civili palestinesi che vivono, in condizioni spesso disperate, nella soffocante striscia invasa e colpita dagli israeliani nel 2008. I pacifisti erano in realtà attivisti filopalestinesi, legati per tanti fili all’organizzazione terroristica di Hamas. Lo scopo vero della loro traversata era dichiaratamente provocatorio: forzare l’embargo e il severo blocco marittimo imposto da Israele lungo la striscia per ostacolare l’arrivo clandestino di armi e materiali balistici ai guerriglieri locali, sostenuti soprattutto dalla Siria e dall’Iran.

Non v’è dubbio, altresì, che la reazione delle forze navali israeliane è stata eccessiva, nevrastenica, mal guidata e mal controllata. La frettolosità tecnica con cui l’hanno eseguita ha provocato un eccidio di grave danno per l’immagine di Gerusalemme già logorata nel mondo.

In sostanza, le forze speciali d’Israele hanno risposto maldestramente alla provocazione, causando un disastro di proporzioni umane e politiche che daranno facile gioco propagandistico ai pacifici alleati di Teheran, di Hamas, di Hezbollah. Al tutto si aggiunge l’isolamento del governo di Netanyahu dall’amministrazione Obama e dai Paesi dell’Unione europea, in particola-re mediterranei, lambiti dal caos alle porte di casa.

Ma al centro della situazione, estremamente complessa dopo la catastrofe, non si trovano soltanto le mosse difensive intemperanti e sbagliate di un combattivo governo di destra israeliano. Al centro direi storico, più che contingentemente politico, si trova la Turchia, il più cospicuo e potente Paese islamico del Medio Oriente. La flottiglia degli attivisti era salpata in gran parte dalle coste turche e da Cipro. Era stata progettata e finanziata principalmente dall’Ong turca «Ihh», organizzazione radicale islamica fondata nel 1992 e legata al network dei Fratelli musulmani. La nave ammiraglia della spedizione, Mavi Marmara, batteva bandiera turca, erano turchi molte centinaia di attivisti, infine erano turche tutte o quasi le nove vittime uccise dalle truppe speciali israeliane.

Si è quindi detto che è scoppiato un esordio di guerra tra Israele e la Turchia dopo circa sessant’anni d’alleanza sul piano economico, politico e perfino militare. Ma, in realtà, non è stato un esordio. E’ stato piuttosto il culmine più visibile e più clamoroso, ancorché indiretto, di una parabola da tempo negativa nei rapporti generali di Ankara, non solo col vicino Stato israeliano, ma con l’Occidente nel suo complesso. Dallo scontro letale nelle acque internazionali intorno a Gaza s’è visto emergere e prendere quasi corpo uno spostamento massiccio, un rivolgimento geopolitico, un novum pericoloso perché dilagante in uno degli scacchieri più infiammabili del globo. In definitiva stiamo assistendo al distacco dal mondo atlantico di un Paese forte e vitale di 80 milioni che costituì, per decenni, il baluardo orientale della Nato con un esercito ritenuto secondo soltanto a quello americano.

La lenta metamorfosi e il ritorno all’islam della nazione turca, tecnicamente europeizzata e laicizzata da Kemal Ataturk dopo la Grande Guerra, sono iniziati nel 1989 con il crollo del comunismo e la fine della guerra fredda. Lo scioglimento dei blocchi contrapposti hanno dato inattese e insieme ancestrali prospettive alla penetrazione egemonica di Ankara nel Caucaso, nell’Azerbaigian, nelle ex repubbliche islamiche dell’Urss. Il riavvicinamento alla Siria e i legami prima cauti, quindi palesi con l’Iran, hanno poi completato questa specie di anabasi psicologica, politica e religiosa dall’europeizzazione incompiuta alle ataviche radici dell’Asia. Il gioco si è fatto più stretto, anche se cauto e sommerso, con l’arrivo al potere nel 2002 del partito islamico moderato Akp (targato «Giustizia e Sviluppo») guidato dall’abile e arrogante Recep Tayyip Erdogan e dal suo sodale Abdullah Gül, rispettivamente capi in carica del governo e dello Stato.

Erdogan ha subito avviato una lunga e difficile trattativa per l’ingresso della Turchia nell’Unione europea che gli americani, più di tanti europei, vedevano di buon occhio e favorivano come vincolo di continuità con la Nato. Ma qui iniziava un baratto quasi contabile e assai ambiguo fra il dare e l’avere. Non si capiva bene dove Erdogan e il suo partito volessero portare la Turchia pseudomoderna. Mentre le masse anatoliche, spesso fanatizzate, davano ascolto alle sirene anche fondamentaliste, il machiavellico Erdogan concedeva a Bruxelles alcuni punti e molte promesse sulle questioni dei diritti civili in contrasto con la tradizione nazionale e nazionalista: abolizione della pena di morte, sospensione del reato d’adulterio, mano ammorbidita nei confronti dei curdi, mano tesa ai cristiani armeni memori del genocidio.

L’impressione era che Erdogan e Gül, che esibivano in pubblico le loro mogli rigorosamente velate, più che desiderare l’avvicinamento all’Europa usassero l’Europa per stroncare, mediante clausole ed esigenze europee, l’incombenza dello storico potere parallelo kemalista presente fin dagli Anni Venti nelle istituzioni e nella società turche. Commissari e deputati di Bruxelles, spesso strabici esportatori di eccessivo democratismo moralistico, erano portati a scorgere soltanto una casta di golpisti nei militari e nei magistrati che nel 1960, 1971, 1980 avevano interrotto con colpi di Stato confuse e insidiose derive parlamentari istituendo governi militari di durata sempre breve e transeunte. Per Erdogan era indispensabile colpire e dimezzare con pugno di ferro il loro ruolo di garanti e custodi del lascito laico di Kemal per capovolgere e riasiatizzare, in parte, una Turchia ricollocata magari in prima fila tra i Paesi islamici della regione. Egli ha usato sovente con astuzia le regole europee per emasculare l’europeismo dalla giunta secolare. Non a caso ha fatto arrestare il 22 febbraio oltre 40 esponenti militari, fra cui 14 di altissimo rango.

A questo punto Erdogan non ha potuto che schierarsi dalla parte degli attivisti imbarcati sull’ammiraglia pacifista che esibiva soltanto due bandiere, la turca e la palestinese, condannando duramente l’attacco israeliano come «atto di pirateria» e come «terrorismo di Stato». Sarà Ankara a ricorrere per prima al Consiglio di sicurezza dell’Onu per mettere una volta di più al bando dell’ordine internazionale le azioni di Israele. Ma il vero dramma della storia in atto va ben al di là della fine del tradizionale rapporto d’amicizia tra Ankara e Gerusalemme. La verità è che siamo in presenza della più profonda crisi nelle relazioni, un tempo solide e proficue, della Turchia con l’Occidente in quanto tale. Una Turchia riallineata con forza, e perfino con pulsioni egemoniche panislamiche, ai più militanti Paesi musulmani arabi e non arabi.




da IL RIFOMISTA
Che fine sta facendo la Turchia
di Anna Mazzone
Ahmet Davutoglu. Il ministro degli Esteri volge il suo sguardo a est per costruire nuove alleanze, basate sulla solidarietà tra “fratelli musulmani”. Bruxelles ha commesso degli errori, ma per il popolo di Erdogan l'Europa è un concetto lontano e indifferente. Meglio stringere la mano a Siria e Iran.





Se la Turchia fosse in Europa, Recep Tayyip Erdogan avrebbe ugualmente usato toni così bellicosi contro Israele («un sanguinoso massacro», che deve essere «assolutamente punito»)? O, ancora, se la Turchia fosse membro della Ue, oggi Erdogan sarebbe premier? La risposta a entrambe le domande è “sì”. Bruxelles ha commesso i suoi errori, ma è pur vero che dal 2002 la Turchia ha preso un'altra strada.

Il 2002 è l'anno in cui il partito Giustizia e Sviluppo (Akp) guidato da Recep Tayyip Erdogan vince per la prima volta le elezioni, dopo anni di avvicendamenti di governi a guida kemalista (la formazione repubblicana “Chp” fu fondata da Kemal Ataturk nel 1923). L'Akp è un partito islamico e moderato, e sin da subito questa sua caratterizzazione ha animato le preoccupazioni dei vicini europei e degli alleati della Nato, americani in testa. Sono proprio gli Stati Uniti che premono affinché l'Europa apra le porte ad Ankara. Una piccola potenza regionale islamica che non sia integrata alla Ue (e quindi poco controllabile) può sempre volgere il suo sguardo ad est, e la Turchia confina con l'Iran, la Siria e l'Iraq. Una posizione geograficamente cruciale e politicamente “scottante”.

Erdogan si premura immediatamente di rassicurare la Nato e i Ventisette: il suo partito, dice, è profondamente europeista e attuerà tutte le riforme necessarie per avere diritto a un seggio nel Parlamento di Strasburgo. E sono tante, a cominciare da una riscrittura del codice penale, cancellando gli accenni nazionalistici contro le minoranze in favore della cosiddetta «turchità» e la pena di morte. Ma la diplomazia di Ankara ha sempre spiccato per il bizantinismo delle sue dichiarazioni e l'ambiguità nei fatti concreti. I negoziati per l'adesione alla Ue partono ufficialmente nel 2005 e si basano su 35 capitoli. Finora ne sono stati affrontati otto e il processo è in stallo dopo il “niet” dell'asse franco-tedesco. Angela Merkel e Nicolas Sarkozy non sono favorevoli all'ingresso della Repubblica turca in Europa e finché ci saranno loro tutto resterà bloccato.

Ma è sbagliato vederla solo dal punto di vista di Bruxelles. La prospettiva turca, infatti, offre tutto un altro scenario. Recep Tayyip Erdogan non ha vinto le elezioni perché i suoi elettori chiedevano a gran voce l'Europa, ma perché volevano uno Stato diverso da quello dove hanno vissuto fino al 2002; con militari meno “invadenti” nella vita pubblica, un laicismo “più morbido” e la lotta alla corruzione dilagante. Erdogan è riuscito a realizzare quanto promesso? Per i suoi elettori in parte sì. Nel 2008 la Turchia è diventata la sesta economica europea, riducendo il suo debito pubblico dal 74% al 39%. Nello stesso anno, i dati del Transatlantic Trends (che analizza gli orientamenti dell'opinione pubblica in America e in Europa), parlavano chiaro: il 55% della popolazione turca non si sentiva parte dell'Occidente.

Oggi quella percentuale è ancora più ampia e l'Europa è sempre più lontana. Non solo a causa del gran rifiuto di Bruxelles, ma anche e soprattutto in seguito ai cambiamenti della società turca negli ultimi dieci anni. Cambiamenti interni che hanno un riverbero sulle questioni internazionali.

L'uomo che ha ridisegnato lo scacchiere degli equilibri politici nella regione, tra Balcani, Caucaso e Oriente è Ahmet Davutoglu. Fino al 2009 l'accademico e ambasciatore è stato il consigliere-ombra di Recep Tayyip Erdogan e ha tratteggiato una nuova «visione» della politica estera turca, il cosiddetto “neo-ottomanismo”.
Dallo scorso anno il professore, spesso criticato per l'ostentazione della sua fede islamica, è a capo della diplomazia di Ankara e non nasconde il suo progetto di dare una nuova architettura all'intera regione, nella quale la Turchia vuole svolgere un ruolo di primo piano. Davutoglu è l'uomo che ha ricucito il dialogo con la Siria, che ha fatto ripartire quello con l'Armenia (anche se la normalizzazione dei rapporti è ancora in stallo) e che ha rafforzato le relazioni con Teheran. È una sorta di Kissinger alla turca, profondamente convinto che l'approccio del Paese debba essere multilaterale e in grado di progettare strategie future con gli altri attori della regione e non solo tamponare le crisi quando accadono, come la Turchia ha fatto fino all'avvento dell'Akp di Erdogan. Ciò significa, concretamente, rafforzare i rapporti con i “fratelli musulmani” dei paesi vicini. La durezza nei confronti di Israele ha assicurato alla Turchia un ampio margine di manovra nel mondo musulmano. Ankara ha teso la mano all'Afghanistan e al Pakistan, alla Cina e al Montenegro. In occasione della guerra in Iraq il premier ha raffreddato per la prima volta i rapporti con Washington e nel 2009 a Davos, con Shimon Peres, ha espresso la sua netta condanna per l'operato israeliano a Gaza chiedendo «one minute», un minuto, per “litigare” con il presidente dello Stato ebraico.

E proprio “One minute” è stato lo slogan ieri dei giovani dell'Akp che hanno chiesto “giustizia” per i morti del blitz israeliano sulla nave turca della flottiglia del Free Gaza Movement. Un'ondata di rigurgiti anti-israeliani che affondano le loro radici nella riscoperta di un'appartenenza (e comunanza) religiosa, quella islamica. È questo che è cambiato negli ultimi dieci anni in Turchia. Il nazionalismo kemalista ha ceduto il passo alla forza di valori religiosi che fino ad allora erano stati compressi. Il governo di Erdogan ha dato la stura alla nascita e alla crescita di una nuova borghesia, rigorosamente musulmana. Oggi in Turchia gli affari e i soldi li fanno gli islamici e le loro donne con il capo coperto dal velo comprano a peso d'oro costosi articoli griffati nei negozi più lussuosi. Questa nuova borghesia musulmana vede in Erdogan il suo padre putativo e nell'Europa una cosa lontana, complicata, distaccata dalla realtà turca e, sostanzialmente, indifferente.

È questo l'humus politico, culturale e sociale che ha fatto da fertilizzante alla concezione neo-ottomana delle relazioni internazionali plasmata dal ministro degli Esteri Davutoglu. Ed è forte di questa «nuova visione» della centralità turca che il capo della Diplomazia di Ankara ieri ha incontrato Hillary Clinton, chiedendole formalmente «una condanna chiara» per il raid israeliano.
Ankara si allontana dall'Europa e guarda a Teheran
di Vittorio Da Rold da IL SOLE 24 ore


Tra Turchia e Israele è la fine di una lunga relazione speciale consolidata da decenni di stretta alleanza militare e fitti rapporti commerciali. Un divorzio annunciato e iniziato due anni or sono nelle nevi svizzere del World economic forum di Davos con la clamorosa polemica tra il premier turco Recep Rayyip Erdogan e il presidente israeliano Simon Peres e poi passato all'annullamento di manovre militari congiunte in Anatolia fino all'assalto israeliano alla flottiglia, tra cui una nave battente bandiera della Mezzaluna turca, che ha provocato 19 morti tra cui diversi turchi.


Ankara ha duramente condannato l'assalto armato da parte della marina militare israeliana contro la flottiglia di attivisti filo-palestinesi che si recavano a Gaza con aiuti umanitari ed ha sottolineato che «questo sfortunato evento, avvenuto in mare aperto in violazione della legge internazionale, può condurre a irreparabili conseguenze nelle nostre relazioni bilaterali» con Israele. Parole dure che non presagiscono nulla di buono soprattutto ricordando che a Gaza comanda Hamas, alleato di Teheran. Che sta succedendo dunque ad Ankara? Quella di oggi è solo l'ultima di una serie di decisioni di avvicinamento a Oriente (e a Teheran) e molto inquietanti per l'Occidente che vede una fedele alleato e membro della Nato scivolare pericolosamente verso posizioni filoislamiche o di ricerca di una leadership del mondo arabo.

Dopo decadi di attenzione a Ovest Ankara sta tornando a guardare ai suo vicini a Est cercando di tornare sui vecchi passi della diplomazia ottomana e suscitando più di un timore tra i suoi alleati occidentali. L'ultima mossa diplomatica di questo nuovo interventismo è stata l'intesa tra Turchia, Brasile e Iran su uno scambio di uranio arricchito senza il coinvolgimento dell'Aiea, l'Agenzia atomica delle Nazioni Unite. A Washington non è piaciuto il tentativo turco-brasiliano di bypassare le Nazioni Unite senza contare che nell'intesa non c'era nessuna traccia della sospensione dell'arricchimento dell'uranio, il principale motivo di contrasto da dieci anni tra Occidente e Iran, sospettato di portare avanti un programma per produrre armi nucleari. Così il segretario di Stato americano Hillary Clinton ha bocciata sonoramente l'intesa e proseguito sulla strada delle sanzioni. Una «pessima intesa», l'ha definita Thomas Friedman sul New York Times mentre Robert Dreyfuss del Nation magazine l'ha difesa a spada tratta accusando Friedman di «arrogante imperialismo» e posizioni neoconservatori alla Robert Kagan che peraltro ha fatto notare come Obama ricalchi con le sanzioni all'Onu le posizioni di Bush.

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È il ritorno dei paesi non allineati sulla scena mondiale? «Il blocco dei paesi non allineati non è mai scomparso, anche se non ha mai funzionato. Ma non credo che vedremo un rilancio del vecchio movimento. Il nuovo Terzo Mondo è molto diverso, si tratta di un piccolo numero di paesi relativamente ricchi che non vedono ragione di seguire ciecamente gli Stati Uniti e l'Europa, ma cercano nuove politiche», dice Marina Ottaway direttore per il Medio Oriente del Carnegie Endowment. «Il rischio è che il rifiuto dell'Europa riguardo all'Unione Europea e il rifiuto soprattutto degli Stati Uniti nei confronti dell'attività diplomatica turca/brasiliana in Iran spingano la Turchia a prendere posizioni ostili all'Occidente, che per il momento non ci sono state», mette però in guardia Ottaway.
Ma Ankara è determinata a portare stabilità in un'area turbolenta evitando conflitti e nuove tensioni con i suoi vicini. L'architetto di questa nuova politica estera turca è il suo ministro degli Esteri Ahmet Davutoglu, che respinge la definizione di neo-ottomanismo preferendo lo slogan di «zero problemi con i vicini». Una politica che lo ha portato a tessere nuove relazioni con alterne fortune con la Siria, l'Iraq, l'Iran, l'Armenia e la Grecia. Una politica che sta facendo uscire la Turchia dall'ombra di Washington, suo tradizionale alleato. L'Iran è stato il primo test di alto profilo di questa nuova strategia turca terzomondista in alleanza con il Brasile di Luiz Inàcio Lula da Silva.

Potenza regionale. «La Turchia aspira a diventare una potenza regionale con zero problemi con i suoi vicini. In questo quadro la Turchia preferisce l'impegno anche con paesi difficili. Ci sono però casi come la politica verso le ambizioni nucleari dell'Iran, dove la Turchia potrebbe essere costretta a fare scelte difficili tra zero problemi con i vicini e solidarietà con gli alleati», dice Ozgur Unluhisarcikli, direttore dell'ufficio di Ankara del German Marshall Fund degli Stati Uniti.
«Zero problemi con i vicini può essere un obiettivo politico e non una politica», spiega sempre Unluhisarcikli. La Turchia ha ancora seri problemi con i vicini e sta spendendo molto per risolverli. Questi sforzi a volte sono stati coronati da successi come nel caso siriano (eliminazione dei visti), Nord Iraq (il leader curdo Massoud Barzani visiterà Ankara il mese prossimo) e Iran (mediazione nucleare); altre da stallo nei negoziati come nel caso delll'Armenia (tutto fermo per il Nagorno-Karabakh) e dopo la storica visita di Erdogan in Grecia (molte buone intenzioni senza risultati concreti).
Ora arriva la grave crisi con Israele. Zero problemi con i vicini significa forse "molti problemi" con Israele? Uno strano corollario per chi dice di voler appianare i problemi e dare stabilità alla regione.

Attivismo turco e crisi europea. Il vero motivo di questo attivismo turco è la crisi dell'eurozona che spinge la Turchia verso nuovi mercati più promettenti. «Il commercio è un importante motivo di orientamento della Turchia verso Est. Le crisi dell'euro rende questo motivo ancora più importante poiché la Turchia ha bisogno di trovare nuovi mercati», afferma Unluhisarcikli. Sì, anche l'economia spinge a una politica estera più aggressiva e a 360 gradi. «La Turchia sa che non entrerà nell'Unione Europea, ma vuole continuare la procedura per l'ammissione perché pensa che sia nel suo interesse adeguare la sua legislazione a quella dell'Europa. Dal punto di vista economico, l'Europa resta il mercato più importante ma oggi la Turchia non guarda all'Est invece che all'Ovest, cerca piuttosto di guardare dalle due parti. La Turchia non cerca una posizione di leadership nel mondo arabo, sa bene che se cercasse di dominare il mondo arabo sarebbe subito accusata di cercare di ricreare l'impero ottomano. Ankara cerca mercati per la sua industria e sempre più anche la possibilità di trasferire nei paesi arabi più poveri, soprattutto l'Egitto, le sue industrie che richiedono una mano d'opera a buon mercato, soprattutto i tessili», dice Marina Ottaway. Il mondo è sempre più multilaterale e intereconnesso economicamente e la politica estera segue i capitali senza frontiere. O come disse Bill Clinton nella brillante campagna presidenziale del 1992 contro George Bush padre: «It's the economy, stupid». Ma Ankara non può dimenticare di essere terra di cerniera, se scivola a Oriente perde il senso della sua missione di raccordo tra due mondi. Una partita molto pericolosa anche dopo la fine della Guerra Fredda anche perché la Turchia resta zona di confine in quella fascia turbolenta del fondamentalismo islamico che va dall'Iran fino al Pakistan e Afghanistan.





Blitz israeliano contro nave aiuti: su facebook spunta il gruppo “Flottiglia di aiuti per i curdi e armeni

La nave di aiuti Mavi Marmara

Una flottiglia di pace israeliana con aiuti umanitari per il Kurdistan, “vittima della crudeltà turca”: è un’idea comparsa oggi su una pagina di Facebook.

Molto irritati dalle critiche mosse dalla Turchia ad Israele, gli ideatori di questa iniziativa esprimono simpatia e solidarità al popolo armeno e al popolo curdo e assicurano che Tel Aviv è disposta a inoltrare loro aiuti umanitari “anche se i turchi non lo gradissero”.

Qualcuno scrive, con ironia, che “c’è fermento fra gli yacht lussuosi ancorati nella marina di Herzlya” e aggiunge che “non vedono l’ora di salpare”.

Qualcun altro, pure con toni sarcastici, aggiunge: “Anch’io sono animato da sinceri sentimenti di pace. Sto già preparando i bagagli: due magliette, un paio di pantaloni e quattro accette…”.

La pagina di Facebook è stata subito notata in Turchia. Per tutta la mattinata era coperta da una serie di scritte ingiuriose, in inglese, nei confronti del premier Benyamin Netanyahu.

In un secondo tempo, però, gli improperi sono stati cancellati per fare spazio alla fotografia di uno yacht, idealmente in partenza verso la popolazione curda.



CENTENARIO DELLA SOCIETA' OPERAIA DI MUTUO SOCCORSO, Ospite Antonia Arslan
Crocetta del Montello - Via S. Andrea, 11
Quando: Martedì 15 giugno 2010 ore 20.30
Dove: Crocetta del Montello - Via S. Andrea, 11
Prezzo biglietto: Ingresso libero
Info: Tiziano Biasi - 3470485240


La Società Operaia di Mutuo Soccorso di Crocetta del Montello ha scelto un personaggio d’indiscusso valore quale testimonial per dare inizio alle celebrazioni del suo centenario, Antonia Arslan.



La scrittrice, già docente di lettere moderne all’Università di Padova, sarà la protagonista di un incontro organizzato dalla S.O.M.S., presso la propria sede, e svelerà la “sua” memoria, la storia del popolo armeno. Attraverso il suo drammatico romanzo “La masseria delle allodole” è riuscita a far emergere la storia poco nota del genocidio perpetrato dal movimento dei Giovani Turchi ai danni delle popolazioni armene stanziate da sempre sul territorio che comprendeva la parte nord-orientale dell'attuale Turchia.



La Arslan racconta con pacata mestizia storie di sangue, di soprusi, di umiliazioni ma nella sua narrazione non vi è odio né desiderio di vendetta. C’è la determinazione di far affiorare una verità, di dare libero sfogo a quello che ognuno di noi si porta dentro. Nasce così la storia di una famiglia, di un grande amore, di una stagione bucolica interrotta bruscamente dalla malvagità di qualcuno. Con la morte tutti dobbiamo fare i conti, ma c’è una morte vissuta come momento culminante del transito generazionale, così come voleva la cultura contadina di un tempo, e una morte cruenta, tramite fatale di un destino del quale l’uomo avverte solo qualche infausto presagio e sembra non essere in grado di opporsi.



Nel suo romanzo c’è spazio per tutti, dalla solennità dei capi famiglia alle donne, protagoniste autentiche nel generare la vita e nel preservarla a tutti i costi, al mondo dei mendicanti, di biblica memoria, organizzati addirittura in confraternita e con un ruolo sociale di sicuro interesse. In un tale contesto mi si consenta una forzatura. Se il “Mutuo Soccorso” si è ispirato, fin dalle sue origini, e credetemi sono molto lontane, a diffondere idee di fratellanza e di aiuto reciproco, diversificato in tanti ambiti di intervento, ciò significa che, al suo interno, c’è una storia da far conoscere. Vorremmo cominciare da qui, almeno per Crocetta del Montello.



Appuntamento quindi con la scrittrice Antonia Arslan, alle 20.30 del 15 giugno presso la sede della S.O.M.S. di Crocetta del Montello. Con lei percorreremo la Strada di Smirne, il seguito del primo romanzo, allargando così gli orizzonti della nostra conoscenza e iniziando un percorso di memoria alla quale attingere per costruire un futuro più sereno. Non sarà mero esercizio di memoria.




Seta e Gregorio

 
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