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parla il vescovo di Smirne- "Su Padovese vogliamo tutta la verità"
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da IL GIORNALE DEL POPOLO
Intervista a Ruggero Franceschini
Dopo aver partecipato al funerale di mons. Padovese a Smirne, mons.
Franceschini è venuto in Italia per partecipare ai funerali solenni del vescovo ucciso che si terranno nel Duomo di Milano il prossimo 14 giugno alle 10.30.
Ecco l’intervista che ha rilasciato ad Asianews.
Eccellenza, dopo il martirio di mons. Luigi Padovese come sta la Chiesa in Turchia?
È senz’altro prostrata, addolorata, ma unita. Al funerale di mons. Padovese, tenutosi nella cattedrale di Iskenderun il 7 giugno scorso, erano presenti diversi vescovi. Vicino a me vi era il vescovo coadiutore degli armeni. Non siamo riusciti a fargli dire nemmeno una parola: era distrutto. È una reazione dovuta allo shock per la morte. Il vicario dei caldei non è venuto, anche se vi erano molti sacerdoti caldei. Vi era pure un vescovo dei siro-ortodossi. Tutti erano prostrati e distrutti. Sul volto di questo armeno si leggeva: “La storia continua”, forse pensando a quanto è avvenuto agli armeni col genocidio del ‘900.
Anche noi latini non eravamo baldanzosi. Con tutto ciò, abbiamo vissuto un bel momento di unità. E non ci arrendiamo e cerchiamo di tenere in rotta questa barca della Chiesa. Al funerale sono venuti anche tutte le autorità civili della provincia.
Come vede questo assassinio del Vicario dell’Anatolia?
Sull’uccisione di mons. Padovese quello che noi cerchiamo è anzitutto la verità. Il giorno prima del funerale sono giunti a Iskenderun il ministro della giustizia insieme al giudice delegato al processo per questo assassinio. Il giudice non ha detto una parola. Hanno chiesto di vedermi in una saletta
riservata e lì ho detto loro: “Noi vogliamo tutta la verità, ma solo la verità.
Non vogliamo altre menzogne: che erano in tanti, che erano in pochi, che era un delitto passionale. Non dobbiamo nascondere nulla”.
Io credo che per questo assassinio, che ha un elemento così esplicitamente religioso, islamico, siamo di fronte a qualcosa che va al di là del governo; va oltre, verso gruppi nostalgici, forse anarchici, che vogliono destabilizzare lo stesso governo.
La stessa modalità con cui è avvenuta l’uccisione serve a manipolare l’opinione pubblica. Dopo avere ucciso il vescovo, il giovane Murat Altun ha gridato “Ho ucciso il grande satana. Allah Akbar”. Ma questo è davvero strano. Murat non aveva mai detto queste frasi violente. Io lo conoscevo da almeno 10 anni. Sono io che l’ho assunto al lavoro per la Chiesa. E non si era mai espresso in questo modo. Non era un musulmano praticante. Era un giovane che aveva una cultura cristiana, senza essere cristiano. Né lui, né suo padre erano delle persone nostre nemiche. A mio avviso, sono stati uno strumento nelle mani di altri.
L’uso del rituale islamico serve per deviare le interpretazioni: è come suggerire che la pista è religiosa e non politica. Inoltre, spingendo all’interpretazione religiosa, di un conflitto fra islam e cristiani, si riesce ad infiammare l’opinione pubblica in un ambito in cui noi siamo debolmente
creduti e non abbiamo alcuna forza. Del resto, anche il primo ministro Erdogan, ha gli appoggi più forti non nell’islam radicale, ma in quello moderato. E temo che ormai non abbia più nemmeno quello.
Murat Altun ha anche parlato di omosessualità del vescovo e si è detto “depresso e instabile”…
L’assassino ha “confessato” anche la pista sessuale, dicendo che mons. Padovese lo pagava per dei “servizi”. Ma anche questa è un pista che serve a confondere.
E non crediamo nemmeno alla solita e frettolosa pia bugia che Murat era malato di mente e un fanatico. Non era né l’uno, né l’altro. Giorni prima ha cercato di farsi passare per pazzo, ma i medici gli han detto di non farsi vedere più perché lui è sano di mente.
Immagino che abbia avuto dei buoni avvocati come consiglieri per preparare questi alibi e far sì che se condannato, potrebbe cavarsela solo con una condanna di qualche anno.
Qualcuno pensa che date queste violenze, la Turchia non dovrebbe mai entrare in Europa…
Di certo nel movente di questo assassinio, così ben studiato, c’è il desiderio di qualche settore della società turca che non vuole entrare a far parte dell’Europa, e non vuole nessuna novità.
Speriamo che questa uccisione, invece di allontanarci, ci avvicini di più all’Europa. Anzi, noi speriamo che la nostra amicizia si allarghi ad altri Paesi europei, per collaborare per il nostro benessere e per il vostro, dato che ormai la Turchia è divenuta un grande Paese.
Come vive la piccola Chiesa in Turchia?
La Chiesa di Turchia non è piccola, ma è molto variegata nelle diverse
confessioni, anche se in questi ultimi tempi abbiamo imparato a volerci bene.
Ai funerali di mons. Padovese vi erano tutti: latini, armeni, cattolici, ortodossi, siro-ortodossi, caldei. Ogni confessione ha fatto una preghiera attorno al feretro.
Avremmo bisogno di sentirci ancora più uniti a Roma. Questo lo dicono anche gli ortodossi, che ormai sempre di più guardano a Roma. Abbiamo bisogno di sentire di più che il cuore della cattolicità pulsa anche per noi. Ci sentiamo un poco abbandonati. Vero è che adesso ci sarà il Sinodo per le Chiese del Medio oriente, che dovrebbe servire anche a far maturare la solidarietà fra noi e la Chiesa universale. Speriamo che sia così; speriamo che il documento del Sinodo non sia solo un documento culturale, che lascia poi il tempo che trova. Deve cambiare qualcosa.
Se qui in Turchia non ci fossimo noi cappuccini, qualche domenicano, e qualche altro ordine religioso, non vi sarebbero preti. A Smirne vi è solo un sacerdote locale, che ho ordinato io. Gli altri preferiscono andare a vivere all’estero, dove sono più liberi. Non hanno una mentalità di servizio e missione.
Cosa chiede alla Chiesa universale?
Prima di tutto la preghiera, ma una preghiera consapevole della posta in gioco, su cui non vogliamo rinunciare malgrado le difficoltà: qui è nata la comunità cristiana e qui sono avvenuti i primi concili e non possiamo abbandonare questi luoghi. Occorre una solidarietà non solo proclamata, ma attiva. Ogni anno abbiamo bisogno di aiuti per riparare qualche chiesa, e non sappiamo come fare.
Poi occorre comprare un appartamento per far risiedere il prete, uno per farci vivere con noi.
Purtroppo, soprattutto gli istituti femminili, quando vedono che venendo in Turchia non possono aprire una casa per accogliere vocazioni, decidono di non venire più. Ma anche se vi sono difficoltà per la libertà religiosa, il lavoro è tanto. In Turchia non c’è libertà a proclamare il Vangelo nelle piazze, non c’è libertà di aprire seminari, o di costruire nuove chiese, ma possiamo lavorare nelle nostre parrocchie già fondate, incontrare persone, trasformare i nostri saloni in chiese…
Quali sono i bisogni più urgenti?
Quello di sostenere le nostre scuole. In Turchia abbiamo ancora qualche scuola, aperta grazie a titoli antichi, quelli ancora prima di Ataturk. Una volta queste scuole erano le migliori della Turchia, ora sopravvivono a malapena. Ma cerchiamo comunque di valorizzarle per salvare i nostri giovani, che nelle scuole statali sono molto maltrattati.
Purtroppo, i Fratelli delle scuole cristiane si sono ritirati. In campo educativo sono rimaste solo le Suore di Ivrea, ma sono molto anziane. Occorrono insegnanti, volontari per due o tre anni, e istituti religiosi femminili che vengano qui a sostenere queste scuole. Dovrebbero venire anche se non possono aprire una casa per raccogliere vocazioni. È importante andare in Turchia per donare, non per accumulare. Occorre imparare a donare qualcosa a Gesù, oltre a chiedere.
G.C
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