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Turandot Ťamplificatať con l'armena Maria Guleghina Verona
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LA PRIMA
La rivoluzione dell’Opera
Turandot «amplificata» con l'armena Maria Guleghina
Verona, sorpresa al debutto del Festival lirico in Arena. La svolta era stata più volte richiesta da Zeffirelli La Turandot ha aperto la stagione lirica dell'Arena di Verona (Fotoland)
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VERONA
—È lo spettacolo che potrebbe aver cambiato per sempre l’Opera in Arena. Perchè, dopo settimane di depistaggi e smentite, ieri, nel giorno della Prima, quello più importante dell’intera stagione, per la prima volta è stata sperimentata l’«amplificazione» tanto desiderata da Zeffirelli. «È un sostegno della voce», si affretta a precisare il sovrintendente Girondini. «È un sistema sofisticatissimo - assicura - che si affianca a quello già utilizzato negli anni scorsi per l’orchestra: cattura il suono ambientale, voci comprese, e lo restituisce al pubblico rafforzato. Nei giorni scorsi abbiamo fatto ascoltare il risultato a importanti critici musicali ed esperti del suono, che sono rimasti entusiasti».
Soddisfatto anche il maestro Giuliano Carella
: «Stasera vedremo come andrà - spiegava a poche ore dall’inizio dello spettacolo - e se l’effetto sarà quello che ci aspettiamo, sarà una rivoluzione storica per la lirica in Arena». Lo spettacolo ha goduto dell’impronta, fortissima, di Franco Zeffirelli. «Alla fine voglio che sia Liù, bontà, dolcezza e poesia, ad essere messa in luce», preannunciava. Il regista fiorentino ha avuto tra le mani l’ultima ed enigmatica opera di Giacomo Puccini, quella Turandot che lo stesso compositore lasciava incompiuta nonostante ci lavorasse da quattro anni. I versi del libretto erano pronti, ma le note non arrivano. Alla sua morte nel 1924 restarono solo decine di pagine con schizzi tormentati, senza nulla di definitivo. Completarla fu la scomoda eredità di Franco Alfano, un incarico difficile che avrebbe scontentato in ogni caso. Nella «Turandotte», commedia settecentesca di Carlo Gozzi alla quale si ispirarono i due librettisti Giuseppe Adami e Renato Simoni, Liù non esisteva. Fu Puccini a dilatare quel ruolo minore fino a donargli un peso da deuteragonista: il simbolo della dedizione assoluta musicalmente dipinto con un mansueto intervallo di quarta giusta contrapposto alla spietatezza del tritono, quel diabolus in musica che accompagna la crudeltà della protagonista. Liù si sacrifica per amore, così come prima di lei avevano fatto Mimì, Butterfly, Manon e Suor Angelica.
Uno dei «pannelli» che rilanciano i suoni (voce e musica) amplificandoli (Fotoland)
Con questa figura di donna che perde e commuove Franco Zeffirelli
recupera l’autentica sensibilità pucciniana nella nuova Turandot che ha inaugurato il Festival Lirico all’Arena di Verona. «È il suo canto del cigno», hanno scritto. «Un lascito immortale» corregge lui. Quella che abbiamo visto, è una messis summa dell’arte zeffirelliana, un’opera sontuosa, una grande liturgia in cui il regista ha superato se stesso. L’allestimento è reso ancora più maestoso dai costumi della giapponese Emi Wada, tripudio di colori che ben rievocano la ricchezza cromatica dei templi orientali e quella Pekino al tempo delle favole dove Puccini immaginava di ambietare l’opera. Una Turandot delle «prime», e non solo per l’amplificazione. È stata la prima opera della stagione areniana innanzitutto. La prima nuova mise en scène dell’era Girondini, e la prima volta da direttore artistico di Umberto Fanni. La prima volta che un teatro omaggia Zeffirelli con la firma di tutto il cartellone, la prima volta in cui il desiderio del regista di modificare il finale viene esaudito. La squadra messa in campo da Fondazione Arena funziona, con Giuliano Carella che dal podio dosa a dovere e supporta quanto avviene sul proscenio. L’orchestra dell’Arena di Verona è tuttavia penalizzata dall’ulteriore abbassamento della buca che evidenzia uno sbilanciamento tra fiati e archi, con questi ultimi che si sentono meno. Con l’amplificazione, le voci migliorano e il nuovo sistema riesce da dare il senso della direzionalità. In Maria Guleghina scorre sangue armeno e come Turandot non dimentica le ferite dei suoi avi: tutto questo abita il suo fraseggio e l’alto temperamento drammatico della sua voce. Marco Berti, Calaf, possiede un acuto possente ma difetta in sensibilità per i colori espressivi. Meno incisiva ma scenicamente in linea con l’allestimento, la Liù della georgiana Tamar Iveri.
Anna Barina
G.C
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