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2 pubblicazione del libro Zabel Yessayan, una delle piu importanti scrittrici armene del Novecento- II Giardini di Silihdar ed Pequod -
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yessayan.html
E' uscito il secondo libro di Zabel Yessayan Igiardini di Silihdar Ed Pequod
Zabel Yessayan
Zabel Yessayan, una delle più importanti scrittrici armene del Novecento, nasce a Costantinopoli nel 1878. Grazie a un borsa di studio frequenta la Sorbona e viene accolta con entusiasmo negli ambienti letterari parigini. Rientrata nella capitale ottomana, si dedica all’insegnamento. In seguito ai massacri di Adana del 1909 fa parte della delegazione armena inviata sul posto; trasforma questa amara esperienza nel romanzo Nelle rovine, che sarà pubblicato nel 1910. Dopo la guerra scrive per giornali armeni e francesi, fa la spola tra la Francia e l’Armenia diventata sovietica, finché si persuade che la diaspora è il cimitero dello scrittore e si trasferisce definitivamente in Armenia. Il romanzo autobiografico I giardini di Silihdar, altro capolavoro della letteratura armena, viene pubblicato nel 1935. Nel 1937 la Yessayan viene accusata di spionaggio a favore dei servizi segreti francesi. Muore in Siberia probabilmente nel 1943.
Yessayan Zabel - I giardini di Silihdar
Zoom della copertina Titolo I giardini di Silihdar
Autore Yessayan Zebal
Prezzo € 18,00
Dati 2010, 203 p., brossura
Traduttore Manoukian H.
Editore Pequod (collana Pequod)
Bisogna aspettare "I giardini di Silibdar," edito nel 1935, per conoscere non solo le storie di principi e combattenti, di santi e religiosi armeni, ma anche quelle del popolo armeno e della sua vita quotidiana. Zabel Yessayan, attraverso i ricordi d'infanzia, coglie l'anima della sua città, Costantinopoli, ci racconta la vita del popolo armeno del tempo - ma ci sono anche i turchi e i greci - attraverso una galleria di personaggi, con la tessitura dei loro giorni e l'intreccio dei loro drammi. Spicca tra tutti la figura della nonna, Dudu, la sua difficile e rischiosa fanciullezza sotto il dominio assoluto dei giannizzeri, la sua vergogna della più piccola effusione: separata dal figlio (zio Khacig, che ha l'ardire di disprezzare i doveri della tradizione prendendo per moglie la ragazza amata) a causa di pregiudizi secolari, tormentata da una nostalgia reciproca, quando finalmente lo incontra si scambiano solo poche parole, nonostante la voglia di buttarsi l'una nelle braccia dell'altro. Zio Artin amudja, armeno fino al midollo, i pescatori e i barcaioli dei quartieri poveri, l'eterna diatriba tra ricchi e poveri, l'egoismo degli eredi degli amira, che sopravvivono odiando tutto e tutti, la vanità predominante nella classe dei ricchi, insomma l'insofferenza reciproca degli armeni, la schiavitù, la soggezione allo straniero, la delazione.
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e il primo libro uscito nel 2008
Zabel Yessayan, Nelle rovine, trad. it. e postfazione di H. Manoukian, peQuod, Ancona 2008, pp. 237.
Nelle rovine di Zabel Yessayan (1878-1943) svolge un ruolo testimoniale di evidente valore storico e letterario, con spunti di estrema attualità. Pubblicato a Costantinopoli nel 1911, ricostruisce le condizioni in cui versavano i sopravvissuti armeni della provincia di Adana, incontrati in quei luoghi, immediatamente dopo le atroci carneficine, dalla giovane autrice, già scrittrice affermata e in quell’occasione membro della commissione inviata dal Patriarcato di Costantinopoli.
I fatti, ai quali si fa riferimento, sono le conseguenze degli eventi scatenatisi dal 14 aprile (secondo il calendario gregoriano) 1909 nella regione della Cilicia, in concomitanza con la cosiddetta contro-rivoluzione tentata nella capitale dal sultano, poi deposto, Abdül Hamid e dai suoi seguaci, allo scopo di abbattere il regime del Partito Ittihad ve Terraki (Unione e Progresso) che si era instaurato l’anno prima.
I massacri a danno della popolazione armena residente (circa 100.000 persone su un totale di 400.000, di cui circa 25.000 furono le vittime), nonostante il tentativo reazionario fosse stato stroncato nel giro di una decina di giorni dall’armata di stanza a Salonicco, continuarono in modo rovinoso fino all’inizio del mese di maggio, con il concorso dell’esercito.
Va ricordato che i Giovani Turchi, pur fregiandosi di costituzionalismo, nell’episodio di Adana agirono in sostanziale continuità con le pratiche anche recenti del sultanato, alimentando un clima di repressione che inasprì ulteriormente i conflitti interni tra il governo centrale e le minoranze etniche, nella convinzione radicata che solo con i mezzi militari si potesse risolvere in particolare il contrasto tra armeni e turchi. Nel procedere in questo modo, essi confermarono, come osserva lo storico Vahakn Dadrian, la “propensione turco-ottomana a risolvere gli aspri conflitti con le loro nazionalità sottomesse ricorrendo esclusivamente al massacro come forma più efficace di violenza”: una posizione, questa, destinata a radicalizzarsi durante il Congresso mondiale della Ittihad, che si svolgerà a Salonicco nel 1910, quando emergerà in particolare il ruolo guida del ministro degli Interni Talât Pasha, pronto a meglio definire il progetto di “ottomanismo”.
Il pogrom di Adana si inseriva in una autentica escalation dei massacri che porteranno poi agli avvenimenti del 1915; anzi, per dirla con Yves Ternon, “questo crimine ne rappresenta l’anello di congiunzione”. Durante il regno di Abdül Hamid, infatti, negli anni 1894-96 la Cilicia era stata scossa da una potente “campagna di massacri intrapresa per ordine del sultano” (Kinross, Bérard), iniziata con la rivolta di Sasun; solo la provincia di Adana (a eccezione dei distretti di Payas e Dört Yol) era sfuggita, per ragioni strategiche, alle azioni criminose. Per di più, gli armeni di questa città vivevano in condizioni piuttosto prosperelle azioni criminose. nte rivolta di Sasunmeni di i di Payas e Dortyol) che in quel momento continuavano a nutrire nel millet armeno la perniciosa illusione di svolta costituzionalista dell’Impero), preparando così il terreno alle reazioni locali della popolazione turca costituita sia da lealisti del vecchio regime sia da fedeli burocrati che mordevano il freno di fronte alle novità della capitale.
Tutti gli episodi di sterminio degli armeni verranno poi declassati a disordini occasionali e spontanei, genericamente popolari; un elemento che dimostra l’estrema vulnerabilità interna ed esterna di questa minoranza cristiana nell’epoca in questione.
Lo straordinario réportage di Zabel Yessayan inizia ad Adana, raggiunta dal mare attraverso il suo porto, Mersin - che l’autrice avverte subito come la “soglia della casa di un defunto” -, e ad Adana si conclude. Tra questi due momenti sta l’esplorazione della città e dei suoi dintorni fino a Dört Yol a nord di Alessandretta, strada dopo strada, villaggio dopo villaggio, alla ricerca di sopravvissuti, cui portare conforto in denaro, vesti, cure, alla ricerca di testimonianze.
La donna trova già a Smirne i primi orfani, accolti nell’orfanotrofio tedesco. Accuditi da suore in una grande sala, i bambini sono storditi e muti, in un silenzio pesante che si rompe improvvisamente in una “incontenibile crisi di angoscia” e di urla e di singhiozzi. Con i loro corpi, leggeri e disperati, si attorcigliano sui banchi, non reggono all’idea che Zabel stia per andare ad Adana, la loro città.
Il resoconto di questo fatto è, pur nella sua rapidità, la cifra con la quale la Yessayan vive e ricorda i numerosi e diversi incontri di tutto il viaggio: gli sguardi smarriti, il mutismo ostinato alternato a parole di follia e/o di dolore incontenibile nelle vittime innocenti. Tutto questo fronteggia inutilmente l’urgenza di portare autentico conforto a queste anime ferite, quando è già insuperabile l’impotenza di fronte ai loro corpi devastati.
La nudità dei sopravvissuti, assieme alle loro mutilazioni o ferite per armi da fuoco e da taglio, per gli effetti degli incendi ecc., è uno degli elementi più rimarcati – una nudità quasi totale o appena schermata da stracci maleodoranti e spesso insanguinati. La perduta integrità fisica e psichica, che tocca episodi davvero agghiaccianti, presenta delle svolte sorprendenti, come nel V capitolo – intitolato Una giornata di soccorso – in cui si racconta delle donne che, nonostante siano sfinite dai giorni di privazione, arrivano a rifiutare in modo anche violento la distribuzione di vestiti variopinti, protestando al grido di “dateci il nero, siamo in lutto. Solamente il nero, scrivete a Istanbul!” perché la sentono come un’offesa evidente alla loro tragedia.
La violenza subìta tronca la relazione tra fratelli e sorelle, che magari hanno la ventura di incontrarsi nuovamente ma non osano avvicinarsi l’un l’altro – “quasi fossero separati dal ricordo terribile del cadavere trucidato di una madre o di un padre” -; o ancora quella tra figli e madri, che spinte dalla nostalgia cercano “con frenesia e angoscia i propri figli nel gruppo degli orfani, ma restano poi immobili come sassi senza osare abbracciarli”. Sono consapevoli per il bene delle loro creature di dover rinunciare a instaurare nuovi legami e finiscono travolte da questo sacrificio. Il rapporto con i figli piccolissimi, magari lattanti, è ancora più difficile e straziante: da molto tempo le madri non hanno latte per nutrirli al seno e i bimbi, “ridotti ad un pugno di materia incolore, con dita lunghe e contratte come un ragno sul petto”, le graffiano e mostrano un rancore sordo.
Un’umanissima femminile pietà guida tutte le pagine dedicate a queste vittime così indifese: l’autrice chiama esplicitamente ad una nuova maternità dolorosa le donne armene, in quanto esse hanno sì perso i propri figli, ma nel medesimo tempo da altre madri, ora scomparse, hanno ricevuto il fardello dei loro orfani sopravvissuti. Si tratta anche di una speranza di consolazione, che sembra realizzarsi nelle ultime pagine del testo, nelle quali Yessayan racconta in maniera toccante come qualche tempo dopo, di nuovo ad Adana e sotto i suoi occhi, si raccogliessero intorno ad una donna partoriente molte vedove e come tutte “curavano e viziavano il neonato: portavano avanti una maternità collettiva e si consolavano nella percezione creata da loro stesse”.
Gli orfanotrofi sono spesso improvvisati, senza alcuna possibilità di registrazione: nelle chiese, negli ospedali (posti sotto la sorveglianza anche di autorità straniere), nelle tende ai margini della città.
Al vestire gli ignudi si accompagna il seppellire i morti. Le sale di accoglienza agli occhi di Yessayan erano sembrate “tristi come i cimiteri profanati”, ma quando lei arriva alle porte della città e trova le tombe scavate poco profonde dalle mani delle madri, vicinissime all’accampamento, la visione si accende di qualcosa di devastante, poiché dalla superficie si alzano in continuazione nugoli di “mosche con la testa rossa e la pancia verde, spinte dalle esalazioni sottostanti”, brandelli di cadaveri affioranti qua e là ammorbano l’acqua e il fetore si estende dovunque su “quell’infanzia seppellita frettolosamente spegnendo qualsiasi disposizione vitale” nei testimoni.
“La regione in cui si verificano questi massacri si estende da Tarso a Kessab, a metà strada tra i porti di Alessandretta e Latakia. E’ la regione pianeggiante, fertile e boscosa della Cilicia, una pianura alluvionale bagnata da fiumi dai nomi illustri. Il suolo è molto ricco: la vite, il cotone, gli aranci, il gelso, il grano e l’orzo crescono in abbondanza. L’industria è in pieno sviluppo, la ferrovia di Bagdad deve attraversare la provincia”. Così la descrivono gli storici. In questo territorio Zabel Yessayan, a bordo di un carro, viaggia per giorni in una ricognizione senza precedenti del teatro delle stragi. Il paesaggio alterna ad aree di “sterilità desertica” zone verdeggianti arricchite di favolosi aranceti profumati, villaggi turchi con i loro minareti a chiese rovinate con evidenti depositi di ceneri e i muri imbrattati: “macchie di sangue, che costituivano l’impronta di mani, e anche tracce di sangue, schizzato fuori come uno zampillo, dalle aperture delle vene scoppiate”, testimonia l’autrice. Chi si era riparato nelle chiese, infatti, aveva trovato morte sicura. Ad Adana peraltro sopravvissero solo coloro che si erano rifugiati nel collegio francese, in un’officina greca e in una fabbrica tedesca (Ternon).
Abdoghlu, Sheik Murat, Misis, Osmane (Osmaniye), Sis, Hadjën, Erzin, Ghars-Pazar, Dört Yol, Hamadie… In ognuno di questi villaggi la Yessayan raccoglie impressionanti testimonianze dai sopravvissuti: nel pogrom di Abdoghlu, ad esempio, mentre i giovani sono disposti a combattere e raccolgono le poche armi accessibili, il capo villaggio, in nome della nota impotenza cristiana di fronte all’islam, si impone su tutti: “alzò la bandiera bianca e dichiarò la resa del villaggio. Il düshman venne, raccolse le nostre armi e ci massacrò all’istante; di 265 contadini ne sono rimasti alcuni, per la maggior parte donne”. Le comunità che tentano, invece, una qualche forma di resistenza armata riescono in parte a salvarsi. “Figli di schiavi e nipoti di schiavi, l’uomo che non sa morire non merita di vivere”, così conclude un anziano; in effetti su molte di queste persone grava spesso il rimorso di non aver fatto alcuna resistenza, credendo con la resa totale di poter essere risparmiati dai turchi: “ingannati come ragazzini, fummo ammazzati con le pallottole preparate da noi stessi”. A Sheik Murat l’opposizione avviene con pochissime armi e molta astuzia che permette a tutto il villaggio di fuggire sotto il naso degli assedianti; a Dört Yol, decimato dalla sete per nove giorni, la resistenza tocca forme e vertici di eroismo davvero esemplari: persino le giovani donne imbracciano le armi, mentre le anziane incoraggiano i giovani valorosi, aiutano i combattenti facendo arrivare viveri e munizioni, cullano con illusioni i disperati e i sofferenti.
Le vecchiette erano eccezionali, non avevo incontrato in nessun posto simili creature: giudiziose e autorevoli, parlavano con serietà, pesavano ogni singola parola - annota la scrittrice - tutte indossavano il loro vestito antico: una veste larga con fitte pieghe e una fascia stretta formavano tutto il loro abbigliamento. Avevano il capo coperto con un laciag rosso, che rimaneva alto sulla fronte grazie ad una forcina, ricoperta di una bordatura di chicchi d’oro.
In questo villaggio avviene l’adozione incondizionata di 5000 vittime, senza l’aiuto di nessuno, e la richiesta principale riguarda il sostentamento delle scuole, alle quali per nessuna ragione si vuole rinunciare.
Solo nei villaggi, dunque, è possibile trovare conforto, soprattutto per quella forma di condivisione totale dei momenti di coraggio e di sacrificio di cui si è dato prova straordinaria. “Eravamo come un solo corpo e una sola anima”, ricorda un giovane.
Mentre in quasi tutte le situazioni pubbliche Zabel Yessayan e i suoi compagni di viaggio sono costretti ad usare il turco, con evidenti complicazioni e frustrazioni nei sopravvissuti, come accade ad esempio nella prigione di Erzin, nelle campagne, talvolta, e in particolare a Dört Yol questo non avviene; in una dimensione quasi liturgica si può parlare l’armeno “sebbene la lingua comune fosse il turco”, quando donne e uomini nella sala di ricevimento testimoniano tutti i fatti salienti, si commuovono e piangono, si consolano apertamente a vicenda, si interessano delle sorti di tutto il loro popolo, persino dei detenuti del Caucaso “sebbene i loro fratelli e figli fossero ancora in carcere a Erzin e col futuro incerto”. Tutti “avevano sete della lingua materna e la parlavano con vanto”.
Nelle prime pagine, concentrate sulle rovine di Adana, la scrittrice così aveva annotato:
In effetti, non è possibile capire e provare l’orripilante realtà del massacro in una sola volta, poiché essa oltrepassa il limite dell’immaginazione umana; coloro che l’hanno vissuta non riescono a raccontarla in modo compiuto, tutti balbettano, sospirano, piangono e descrivono solo episodi sconclusionati. La disperazione e il terrore erano stati talmente forti che le madri non riconoscevano i figli, donne anziane, paralitiche e cieche venivano dimenticate nelle case incendiate; le persone, prima di morire, impazzivano sentendo le sghignazzate indemoniate di una plebaglia selvaggia e assetata di sangue. Membra mozzate, corpi giovani, ancora palpitanti di dolore e di vita, venivano schiacciati sotto i piedi; i ragazzi, le donne e i feriti, rifugiati nelle scuole e nelle chiese, impazziti sotto il tiro di fucili da un lato e di incendi dall’altro, morivano carbonizzati abbracciati gli uni gli altri.
Ora, nella ricognizione delle realtà limitrofe, lei, e al termine di tutta la vicenda, nell’auspicio e nell’atto di “scrivere senza riserbo” in quanto “libera cittadina, una figlia legittima del paese, dotata di uguali diritti e gravata d’identici doveri,” considera “essenziale che tutti noi conoscessimo l’immagine veritiera della nostra terra insanguinata, che potessimo guardarla direttamente e con coraggio”.
Zabel, che era nata Hovhanissian nel 1878 a Scutari, il sobborgo asiatico di Costantinopoli, fu una delle prime donne armene a formarsi all’estero compiendo gli studi letterari alla Sorbona e inserendosi attivamente nella vita culturale della capitale; rientrata a Costantinopoli (moglie del pittore Dikran Yessayan e già madre di due figli, Sophie e Hrant) continuò il suo lavoro saggistico, su tematiche letterarie e sociali, svolgendo anche attività di insegnamento. La sua formazione occidentale contribuisce a fornire chiavi di lettura delle condizioni in cui giacciono gli armeni: ai suoi occhi appaiono evidenti i segnali di un rapporto compromesso, talvolta assai deteriorato, tra turchi e gävur. Gli episodi di sterminio molto di frequente si sono accompagnati, in maniera irrimediabile, alla pratica di islamizzazione forzata a cui, nonostante le resistenze, hanno ceduto nella furia della carneficina le donne armene, almeno per salvare le giovanissime figlie; la comunità turca in questi casi è subdola e incalzante, minacciosa e carica di messaggi di morte e di annientamento certo della razza infedele. A questo si aggiungono le responsabilità delle potenze straniere, che si ostinano militarmente a rimanere sullo sfondo; la vanità della giustizia cercata dai sopravvissuti presso i tribunali ottomani (con episodi sconcertanti per coraggio degli uni e vigliaccheria degli altri); talvolta la passiva estraneità degli stessi armeni di altre regioni.
In quest’ opera, l’unica finora tradotta in Italia, spiccano però anche le pagine contro il dispotismo e gli appelli al superamento della storica diffidenza tra musulmani e cristiani, turchi e armeni: senza nulla tacere sull’estrema ingiustizia subita dal suo popolo, la scrittrice arriva a distinguere tra compatrioti (membri di una medesima etnia) e connazionali (membri della patria comune) invitandoli, tutti, ad abbandonare il disprezzo o il desiderio di vendetta; con grande libertà intellettuale scrive:
Voglio che il lettore sappia che le mie impressioni non si sono placate in seguito a determinate tendenze politiche, né sono state alterate da pregiudizi nazionali, da sentimenti di rivincita atavica, oppure da qualsiasi forma di odio razziale […] quand’anche la vista degli assassini mi incutesse vergogna, avvilimento e disgusto, quand’anche sentissi, accanto ai villaggi armeni rasi al suolo, l’arroganza dei quartieri turchi rimasti intatti, io li ho registrati fedelmente senza preoccuparmi di quelle formalità convenzionali, all’ombra delle quali, se continuiamo ancora a dissimulare a lungo i nostri veri sentimenti agli occhi dei connazionali musulmani, sono sicura che saremmo in perenne diffidenza reciproca.
In effetti, in questo suo racconto “non scritto su carta ma visto con gli occhi”, Zabel Yessayan registra fedelmente anche la storia del giovane turco di nome Boyraz Köse, abitante del villaggio di Bahdje, distante quattro ore da Ghars, difensore di gävur nonostante il padre e il nonno fossero stati uccisi dagli infedeli a Zéytun, che diede la vita ai centocinquanta armeni del suo villaggio; e anche la storia di Mehmed di Marasch, un giovane turco che ha assistito con tutti i suoi averi almeno duecento armeni di Erzin, assediati in un khan dalla marmaglia omicida, mentre altri turchi a loro volta “li difendono di persona contro la calca”.
Annota la scrittrice:
I nostri cuori erano colmi di sentimenti d’una nuova specie; mi richiamavo alla mente, con commozione, l’enigmatico sguardo, sereno e dolce, di Mehmed di Marasch. [E si chiede:] Che guizzo di luce scattava nella coscienza offuscata di quel nemico? Dov’era la sorgente di quella luce, che aveva spinto molti Mehmed a staccarsi dalla crudeltà compatta della calca e ergersi vittoriosi, da soli, contro la sua forza rovinosa e distruttiva?
Alla fine è l’umanità che lei vuole testimoniare – “vorrei persino che la nazionalità dell’autrice fosse dimenticata”, puntualizza nell’introduzione – e il dovere della partecipazione e della convivenza.
Zabel Yessayan nel 1909 prospettò un lungo cammino di comprensione, mentre la storia archivierà il Metz Yeghern del 1915, il trattato di Losanna del 1923, la legge del “non ritorno” (gayriavdet) del 1927…
Il giornalista armeno e cittadino turco Hrant Dink, in un articolo apparso su Agos il 16 giugno 2006, definiva la strada della convivenza come “l’unica possibile e democratica, richiesta dall’intelligenza e dalla coscienza”. Nel ricordare gli eventi del 1908 – la proclamazione del governo costituzionale, che inebriò i turchi e tutte le minoranze (assieme alla gente comune a festeggiare nelle strade c’era anche l’intellighènzia) “con canti ispirati ai principi di libertà, uguaglianza e giustizia” –, congiuntamente agli eventi del 1909 – la sperimentazione di “una delle più cruente carneficine dell’Impero ottomano e, con i fatti di Adana, gli armeni furono assassinati da persone dei quartieri vicini” –, lo scrittore concludeva che “convivere, tuttavia, non era una grazia che avrebbe concesso qualcuno dall’alto, era una civiltà che popoli che convivono devono produrre insieme”. Hrant Dink fu assassinato da un giovane fanatico turco il 19 gennaio 2007.
Ancora una volta, in effetti, “parlare di chi è rimasto è più difficile che parlare dei morti”.
Stefania Garna
G.c
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