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_Ani: quel cane mi riempiva la vita_
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"Ani: quel cane mi riempiva la vita"
Anì, La padrona dell'husky morto sotto i ferri lotta da 7 anni: "Voglio riconosciuto il mio danno" esistenziale
SARA RICOTTA VOZA
MILANO
Piante, arbusti, vasi, sedie da giardino, vecchi giochi, rintocchi di campane (vere) in lontananza. Un pezzo di campagna sospesa nel cielo di Milano, un grande terrazzo al quinto piano nel quartiere di Porta Venezia. Qui abitava Maja, il cane husky morto di malasanità veterinaria al centro di un processo simile a quelli degli umani, con tanto di sentenza che fa discutere su tivù e giornali.
Maja ha lasciato questo terrazzo un pomeriggio del 2003, tutta contenta perché pensava di andare a fare un giro fuori. È tornata la sera sanguinante, e alle dieci era già morta. Per 7 anni la sua padrona ha lottato per dimostrare che in questa storia un animale ha subito un’ingiustizia, e un umano - lei - un danno alla sua vita (tecnicamente, «danno esistenziale»). Pochi giorni fa un giudice ha riconosciuto il torto fatto al cane, ma non ha potuto far lo stesso per l’uomo. Un pronunciamento della Cassazione dice infatti che ci sono cose «risibili» per cui la gente chiede di esser risarcita: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, il mancato godimento di una partita di calcio a causa di un black out... E, appunto, la morte di un animale di affezione.
La signora Anì è contenta che almeno Maja abbia avuto giustizia. Ora dovrebbe riuscire a dimostrare lei che la morte ingiusta di un animale di affezione non è «risibile» per il suo padrone, che può cambiargli la vita e compromettergli il lavoro. Specie se di lavoro fa l’artista.
E che l’arte di Anì e la vita con Maja fossero intrecciate a filo doppio si vede a colpo d’occhio entrando in questa casa. Sul mobile in salotto è tutto un alternarsi di spartiti e di fotografie di cani. Andrea Chénier, Turandot, Cavalleria Rusticana; Anì, Maja e Sayat (il fratello gemello di Maja) di notte in piazza Duomo, ai giardini pubblici, sul terrazzo. Il pianoforte e sopra le tazze da tè, ancora con l’immagine di Maja e Sayat; sul divano il libro della pianista Helène Grimaud «Variazioni selvagge» fra i cuscini con la foto dei due Husky.
Anì è cantante lirica e dopo la disgrazia non ha quasi più parlato, non riusciva più a cantare, per due anni non se l’è sentita più di uscire in scena. «Studiavo Turandot», ricorda, «è una delle più difficili e il fisico non ce la faceva a sostener quei terribili acuti. Ma con quale fattura di psicologo puoi quantificare tutto questo?». Anì si accorge che osserviamo certi addobbi natalizi. «Questa è una casa senza tempo» dice. Già, qui il tempo sembra essersi fermato molto tempo fa. Quel che manca da quel triste giorno è quell’armonia fra arte e vita che ogni artista cerca e a volte, miracolosamente, trova. «Io l’avevo trovata» spiega Anì, «in un equilibrio straordinario tra la natura di questi cani e l’arte del mio lavoro, uno stato di grazia distrutto così, in un pomeriggio».
Maja era nata in casa del fratello di Anì, che ha fatto accoppiare la sua husky con un bel campione. Nascono 9 cuccioli. «Eran così belli, uno spettacolo della natura, un segno che il Creatore esiste». Anì è credente? «Credo di sì». Ne sceglie due, Maja con gli occhi azzurri e Sayat occhi marroni. Caratteri diversi e i primi tempi son dolori. «Sayat era capobranco, Maja una femmina alfa, all’inizio hanno litigato per la leadership, poi si sono accordati». Tenerli al guinzaglio era un’impresa. «Son mezzi selvaggi e bisogna saperli controllare, con la neve impazziscono». Così, per non incontrare altri cani, uscivano di notte. «Facevamo grandi passeggiate, andavano fino al Duomo e in San Babila dove dovevo trattenerli dal fare il bagno in fontana». A volte poi, nel mezzo della notte, sul terrazzo, nel buio si mettevano a ululare. «Affascinanti», dice Anì. E i vicini? «Ne erano meno affascinati», sorride.
La mattina si alzavan tutti tardi. «Facevano i miei orari, a letto tardi la sera, sveglia tardi la mattina» racconta Anì, che mentre studiava la sua parte doveva stare attenta a che non rubassero in cucina. «Per istinto mangiano tutto quello che trovano così una volta che c’era dello zenzero per due giorni son rimasti sotto il tavolo…».
Quando la madre di Anì muore sono loro, però, a saperle dire le «non-parole» giuste. «Tutti mi dicevano "cose che succedono”, “la vita va avanti”, frasi standard che invece di rasserenarti ti fanno irritare. Maja e Sayat se mi vedevan piangere mi mettevano la zampa in grembo e io stavo meglio».
Una sera giocavano in terrazzo e Maja, pancia in su, si faceva coccolare. Anì si accorge di una piccola protuberanza. Chiama i suoi veterinari ma era tardi, non c’erano. «Chiamo allora un conoscente che viene e dice che è un nodulo, può essere pericoloso e aver metastasi. Lo stesso chiama subito un collega, gli dice che l’operazione è urgente, ma quello gli dà appuntamento solo una settimana dopo. Nel frattempo io faccio fare analisi al cane e metastasi non ce ne sono. Ma decido lo stesso di operarla, mi fido del veterinario che mi dicono ha 30 anni di esperienza e un ambulatorio modernissimo». Invece. «Non le fanno analisi, e già mi sembra strano. Per farla breve me la riconsegnano addormentata e sanguinante. Mi dicono solo di tamponare con ghiaccio che si fermerà. Il conoscente mi riaccompagna a casa e mi lascia dicendo che va a parcheggiare, invece non si farà più vivo. Io tampono con ghiaccio e tovaglioli di carta ma il sangue non si ferma, la morte arriva e io non posso fare niente».
v Anì denuncia all’Ordine dei veterinari, poi fa causa: 7 anni a consumarsi nel processo. Ottiene giustizia per Maja, resta quella per sé e altri «padroni». «Non cerco soldi. È che si tratta di ingiustizia, io sono armena e so cos’è. Ma spesso in Italia la ricerca della giustizia viene scambiata per vendetta e il perdono diventa impunità».
G.C
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