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Zatik
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Vanadur Nel vivo della Memoria
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di Viana Conti
L’opera pittorica, prevalentemente a olio su tela, del centenario Vanadur (nato in Asia Minore il 5 maggio del 1911) racconta, per immagini, il dignitoso silenzio di un armeno, segnato dalla dolorosa perdita dei suoi cari, dall’attraversamento di un deserto reale e metaforico. Le ferite traumatiche si sono disciolte nelle luci e nelle ombre, nelle stesure e nelle pieghe della rappresentazione, i ricordi si sono trascritti in gesti e pulsioni emozionali, i sussulti ed i trasalimenti si sono tradotti nei contrasti delle tache verde scuro e vivido arancio, delle ocre dorate e bruciate. La vita artistica del quattordicenne Yervant der Mossighian, in arte Vanadur, il musicale nome di un re armeno, inizia nel 1926 nell’incanto dei riflessi verde laguna e degli specchi del Collegio degli Armeni a Venezia, città in cui gli si apre l’orizzonte della pittura: l’orizzonte della sua intera vita. Si sarebbe iscritto, incoraggiato dai maestri, all’Accademia di Belle Arti, ma la sua situazione non glielo consentiva. Quella mitica Accademia, fondata dal Senato veneto nel 1750, che tanto fascino esercitava sul giovane artista esordiente, aveva avuto, tra gli insegnanti, artisti come Piazzetta, Tiepolo, Hayez, Nono, Ettore Tito, Arturo Martini, Alberto Viani, Carlo Scarpa, Afro, Santomaso, Emilio Vedova. In gioventù il colorismo veneto di Tiziano, Giorgione, Veronese, Tintoretto,Tiepolo, deve averlo permeato profondamente, se la sua pittura è costruita con sapienza sulle relazioni, con il fondo, delle masse cromatiche che delineano i soggetti. Vanadur, talvolta, dipinge come se scolpisse il legno: tra una pennellata e l’altra si percepiscono, in alcuni lavori, spigoli vivi. La tavolozza, prevalentemente tonale, si accende talvolta di contrasti timbrici, di accenti fauve, non lontani da un certo Derain. Il costante confronto dei colori caldi con i freddi fa cantare e vibrare la superficie pittorica, pastosa, materica. Le grandi lezioni di Van Gogh, Gauguin, Cézanne in particolare, lo accompagnano nel suo iter artistico fino ad oggi e anche i loro volti, magistralmente ritratti, figurano tra le sue opere come referenti emozionali, come omaggi. Le opere di Picasso del periodo blu e del periodo rosa lo ispirano e commuovono. È vero, Vanadur esercita per un certo periodo, con dedizione, la professione di medico a Porto Ceresio e Milano, ma la passione che lo anima è fatta, da sempre, di creatività, forme, colori. Le sue piazze di paese ritraggono astanti e passanti assorti nei loro pensieri: sono figure di luce contornate d’ombra, vicine e lontane al tempo stesso, in compagnia e in solitudine. Le sue nature morte escono dall’impasto pittorico come oggetti d’affezione, investiti di spiritualità e silenzio. I suoi autoritratti testimoniano di un uomo che si è visto incanutire davanti allo specchio, nell’esercizio quotidiano della sua passione pittorica. Le vere protagoniste, tuttavia, dell’impegno di questo artista, felicemente centenario, sono le donne: la madre, le sorelle perdute durante la deportazione, le ragazze, in posa nell’atelier o in pausa, assorte o pensierose, anche nella loro composta nudità, ritratte nei vari atteggiamenti della Lettura, del Sogno, delle Confidenze, o ancora riprese alla finestra mentre, con il capo reclinato, sembrano intente nel richiamare i ricordi. Talvolta, come in un omaggio a Rothko, la sua composizione si scandisce su fasce geometriche monocrome, sormontate da figure in costume armeno. Il suo linguaggio espressionista a livello formale, trova ascendenze in pratiche coloristiche impressioniste. Come ha immediatamente percepito l’architetto e gallerista Bruna Solinas, tutta l’ininterrotta poetica pittorica di Vanadur detiene, accanto al valore della ricerca e degli esiti delle sue soluzioni estetiche, quello inestimabile della testimonianza di un uomo che, nella dignità più alta, ha trovato gli accenti vibranti del suo messaggio d’artista.
G.C
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