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Armeni e Roma fra XVI e XVII sec., un aspetto della mediazione diplomatica fra Iran Safavide ed Europa cristiana
Porto integralmente la presentazione del Dr. G. Terribili; 31-05- 2012 nell' incontro dell'istituto Austriaco di Roma Intitolata - VERSO IL TRONO DEL PAVONE - Austria , Italia e Iran : diplomazia e scambi cult urali un omaggio a Joseph von Hammer-Purgstall (1774-1856), fondatore dell’Accademia Austriaca delle Scienze Organizzato da: Istituto Storico Austriaco a Roma, Istituto di Iranistica dell’Accademia Austriaca delle Scienze in collaborazione con: Don Juan Archiv Wien, Forum Austriaco di Cultura a Roma, Istituto Storico Fraknói presso l’Accademia d’Ungheria a Roma, Sapienza Università di Roma - Dipartimento di Scienze dell’antichità
Gianfilippo Terribili, Università di Roma “Sapienza”

A differenza di altre città italiane come Venezia, Genova o Livorno, dove l’insediamento della comunità armena era caratterizzato da motivazioni economiche e commerciali, la presenza a Roma e’ stata sempre contraddistinta dalla ricerca di instaurare un dialogo a livello sia religioso che politico fra questo popolo di antica fede cristiana e la sede degli Apostoli Pietro e Paolo. Nel corso dei secoli che vanno dalla caduta dell’impero romano d’occidente fino ai giorni nostri si può riscontrare un’ininterrotta presenza armena nell’Urbe che non ha mai fatto mancare, sia pure con fasi alterne, i presupposti per un dialogo incentrato sul confronto teologico da una parte e su delicate questioni diplomatiche dall’altra; tali rapporti interculturali seguirono sempre l’andamento delle complesse vicende del popolo armeno nella sua terra d’origine, così come la politica che la Chiesa di Roma attuò in Oriente.
Per tutto questo lungo periodo Roma, i suoi luoghi di culto meta di pellegrinaggio e la figura del successore di Pietro sono stati un riferimento importante per quelle genti; essi infatti, con il loro ruolo simbolico, hanno nutrito ma anche deluso le speranze degli armeni per la libertà della loro patria, dando ascolto al loro appello e cercando di patrocinare questa causa presso i più potenti regni dell’Europa cristiana. Se per tutto il corso del medioevo l’afflusso a Roma di pellegrini e monaci armeni fu costante ed ebbe il merito di instaurare profondi legami interculturali, l’inizio di rapporti più strettamente diplomatici è datato all’epoca delle crociate, quando il regno armeno di Cilicia era un importante alleato dei cristiani e dialogava direttamente con la Santa Sede. Più tardi la scomparsa del regno di Cilicia a causa dei Mamelucchi e la progressiva espansione ottomana ebbero pesanti ripercussioni su tali rapporti ed il dialogo, almeno a livello politico conobbe un momento di arresto. Quando, nella seconda metà del XVI sec. la situazione politica favorì la ripresa del dialogo le regioni storiche dell’Armenia erano oramai spartite sotto il rigido controllo di due grandi imperi orientali, quello degli Ottomani e quello dei Safavidi in Persia; tutta la regione armena divenne un territorio a più riprese conteso nelle dispute fra le due grandi dinastie ed il suo territorio fu più volte percorso da eserciti invasori. Questa delicata situazione storica favorì un graduale impoverimento della regione con uno sfaldamento del tessuto sociale e istituzionale, determinando un rapido esodo verso luoghi più sicuri.
In tale condizione la Chiesa armena, rimasta l’unico punto di riferimento legittimo per una popolazione vessata, cercò nuovamente l’appoggio dell’Europa cristiana e considerò la Chiesa di Roma come la massima autorità morale1, l’unica potenzialmente capace di coinvolgere e trascinare i regnanti europei nella strenua lotta contro la potenza turca. La condivisione di comuni interessi politici, come la difesa della cristianità dall’avanzata turca e la liberazione dal giogo ottomano, contribuì a rinsaldare i legami diplomatici fra le due Chiese e ad intessere una fitta rete di proposte e accordi spesso condotti in gran segretezza.
A questo turbinio di ambascerie e missioni, spesso condotte in incognito, fa da sfondo la proverbiale inimicizia fra la casata degli Osmanli e la dinastia Safavide spesso risoltasi in lunghe campagne militari interrotte da instabili trattati di pace2. In questo scenario le potenze europee coinvolte nella lotta all’espansione turca elaborano continuamente, grazie anche alla mediazione degli armeni, piani e alleanze militari con i Safavidi con l’obiettivo di stringere in una morsa l’impero ottomano. La prima missione ufficiale che inaugurò questa nuova epoca di contatti fu condotta in maniera significativa dallo stesso Catholicos Stepannos V Salmastetsi tra il 1548 e il 1551; si trattò della prima volta in cui il massimo vertice della Chiesa armena si sia recato in Europa. Per non destare i sospetti del sultano turco e onde evitare possibili ritorsioni sui suoi connazionali, la visita del Patriarca armeno fu condotta in maniera discreta, adottando anche tragitti insoliti e fuorvianti; si cercò quindi di agire nell’ombra, senza dar risalto agli importanti incontri che questi ebbe con Papa Paolo III, il doge di Venezia, Carlo V e re Sigismondo II di Polonia, ossia gli acerrimi nemici della Sublime Porta3. Alla presenza del Pontefice il Catholicos conferma la volontà di unione con la comunità cattolica, tematica su cui la Curia romana ha sempre insistito, e pone la questione di un possibile intervento dei regni cristiani in Oriente. Questa missione darà il via ad un periodo fecondo per le relazioni fra le due Chiese, che vedrà una fitta rete di rapporti e che resterà armonico fino alla prima metà del XVII sec. quando la Chiesa di Roma muterà la sua politica in Oriente. In particolare, nel 1564-1565, un’ambasciata a Roma e a Venezia guidata dal nobile armeno Abgar Tokhatesi come delegato del Catholicos Mikayel I Sebastatsi, determinò effetti assai duraturi. Invero, dopo aver appreso in Italia la nuova arte editoriale della stampa, lo stesso Abgar aprì a Costantinopoli una tipografia già nel 1567, sicchè gli alti prelati armeni, intuendo immediatamente la portata di questa invenzione, iniziarono ad inviare chierici ed eruditi in Europa per apprenderne l’arte. In un primo momento costoro furono indirizzati proprio verso Roma in cui prosperava l’editoria di contenuto religioso e dove si sarebbe potuto curare al meglio l’edizione di
1 Kévorkian 1999, p. 312.
2 Una situazione più stabile si configurò solo nel 1639 con la pace di Qa.r-i Shirin; Faroqhi 2007, pp. 49-50.
3 Kévorkian 1999, p. 312.
testi sacri4. A dimostrazione dei buoni rapporti intrecciati il legato armeno lasciò a Roma suo figlio SultanShah, poi noto come Bartolomeo Abgaro, al fine di perfezionare i suoi studi e la sua educazione.
Questo nuovo e durevole rapporto diplomatico e culturale inciderà notevolmente sull’importanza e la crescita della comunità armena romana: Nel 1579 per volontà di Papa Gregorio XIII sarà infatti inaugurato un nuovo monastero donato dalla Santa Sede alla nazione armena la cui direzione fu affidata allo stesso Bartolomeo Abgaro. Da questa data sino alla fine del XIX sec. sarà il complesso di S. Maria Egiziaca5 a rappresentare il centro della comunità armena a Roma e a divenire la sede storica in cui hanno dimorato tutte le ambasciate in transito per la città, dove hanno trovato rifugio alti prelati esuli dalla madrepatria e hanno soggiornato dotti ed eruditi di quel popolo.
A differenza del monastero presso S. Pietro, sede medievale della comunità religiosa armena, parte dell’antica chiesa di S. Maria Egiziaca è ancor oggi visibile, essendo essa sopravvissuta al riassetto urbano che coinvolse l’intero complesso e l’area circostante nei primi decenni del novecento. Il fondaco è molto antico e la chiesa, che inizialmente ebbe nome di S. Maria in Secundicerio, insiste sulla struttura di un tempio romano, dedicato probabilmente al dio Portunno o alla Fortuna virile, di cui ancora oggi sono ben visibili timpano e colonnato. Una volta donato agli Armeni il complesso venne a comprendere oltre alla chiesa anche un ospizio e un adiacente cimitero recintato; successivamente, all’inizio del XVIII sec., Papa Clemente XI elargì i fondi necessari per il restauro e l’abbellimento della chiesa e delle altre strutture. L’Armellini ci dà notizia che ogni anno l’8 aprile i monaci armeni vi officiavano, secondo il loro costume, la festività della Santa e che sulla piazza antistante il complesso, oggi scomparsa, vi si leggevano alcune epigrafi, “framenti di memorie poste da alcuni personaggi di quella nazione6”. La permanenza degli Armeni in questa sede storica durò più di tre secoli, finché, a fine ottocento monastero ed ospizio vennero trasferiti presso la Chiesa di S. Biagio della Pagnotta in via Giulia. Un viaggiatore armeno dell’epoca, Simeon Lehatsi, fra i resoconti dei suoi viaggi ci ha lasciato una descrizione del complesso di S. Maria Egiziaca, di cui ne ammira la struttura in pietra e la grandezza. L’istituto, allora sotto la protezione del potente cardinal Borghese, nipote di Papa Paolo V Borghese, aveva camere per ospitare i pellegrini armeni e alloggi più confortevoli dove accogliere alti prelati e le
4 Uluhogian 2009, pp. 168-69.
5 Sulla originaria dedicazione della chiesa a questa Santa orientale vi è incertezza, l’Armellini considera che siano stati gli Armeni ad intitolarla così, ma successivamente l’Hülsen riporta nel suo studio la menzione di quel nome già in un catalogo del 1555, Armellini, 1891, p. 751, Hüelsen 1927, p. 84, n. 134. Per tutto il periodo medievale la sede storica della nazione armena era stata il monastero ubicato nei pressi della Basilica di S.Pietro, celebri furono il suo scrittorio, che produsse numerosi manoscritti, e il suo ospizio, che permetteva un facile accesso alla tomba dell’apostolo. Il complesso fu demolito durante i lavori di ampliamento della Basilica e dello spazio circostante intrapresi da Papa Paolo IV; Casnati 1990, pp. 30-2.
6 Armellini 1891, p. 752.
ambasciate, proprio in queste stanze il letterato armeno incontrò il messo del Catholicos di Echmiadzin partecipando all’udienza col Papa della delegazione armena7.
Più o meno contemporaneamente alla donazione di S. Maria Egiziaca i buoni rapporti fra Roma e Armeni si tradussero nell’istituzione per decreto pontificio del primo Collegio per la Nazione armena nell’anno 1584. Fu il Breve apostolico di Gregorio XIII, intitolato “Romana Ecclesia” a sancire la nascita dell’Istituto al quale questo Pontefice donò fondo e rendite. In questo testo viene citata ed elogiata l’antichità della conversione del popolo armeno alla fede cristiana, le terribili prove da questo subite ad opera degli infedeli e l’aiuto prestato al tempo delle crociate per la riconquista dei luoghi santi; infine viene solennemente proclamata sul collegio la protezione di S. Pietro Apostolo e della Santa Sede che si sarebbe fatta carico della sua gestione8. Tale istituzione si inquadra nella cornice più ampia della politica intrapresa sulla scia della Controriforma da Papa Gregorio XIII il quale fondò o sussidiò circa 23 collegi, seminari e scuole pontificie appartenenti a diverse nazioni, con lo scopo di formare un clero ecumenico in possesso di una solida istruzione9 e fornire le basi per un intervento attivo della Chiesa sul territorio, arginando l’espansione delle chiese riformate, evangelizzando nuove popolazioni, riavvicinando le antiche comunità orientali. Da un carteggio epistolare10 si evince che la scelta relativa alla sede dell’istituto cadde sull’edificio conosciuto come «Casa di Griffi» o «Acciaioli» situato di fronte a S. Silvestro a Monte Cavallo, ossia al Quirinale. Questo primo collegio armeno ebbe però vita breve; morto infatti Gregorio XIII a pochi mesi dalla sua fondazione, il successore al soglio pontificio, Papa Sisto V, preferì convogliare le risorse economiche dello Stato pontificio in altre direzioni e non rinnovò quindi l’elargizione di fondi. Ben presto dunque l’istituto rimase privo di una fonte di sostentamento e gli studenti furono costretti a ritornare nella loro terra d’origine; si dovranno aspettare altri trecento anni prima che venga istituito un secondo e più duraturo collegio pontificio per questa Nazione, ossia l’ancora attivo Pontificio Collegio Armeno in Roma che ha oggi sede presso il complesso di S. Nicola da Tolentino. Nonostante la breve durata del collegio, la favorevole politica di Gregorio XIII ebbe il merito di rinsaldare i rapporti fra Roma e nazione armena, e di ciò è testimonianza una lettera del Catholicos di Sis, Patriarca della Chiesa armena di Cilicia, nella quale si ringrazia esplicitamente il Pontefice per aver donato un luogo di culto, un ostello, una scuola ed una tipografia per l’edizione di libri in armeno11.
7 Chobanian 1999, p. 254.
8 Petrowicz 1984, p. 84.
9 Petrowicz 1984, p. 83. Tale politica si inquadra anche nell’insieme di riforme intraprese dalla Chiesa romana dopo il concilio di Trento e sull’onda della controriforma.
10 Appartenente al Cardinale Giulio A. Santoro, nominato da Papa Gregorio XIII «protectores ac defensores» del collegio armeno. Petrowicz 1984, p. 85.
11 Chobanian 1999, p. 253.
Grazie anche all’influente presenza di una figura quale quella di Bartolomeo Abgaro si delineò quindi un periodo particolarmente felice per il dialogo fra le due nazioni; la piccola comunità armena residente a Roma godette di una profonda considerazione e parimenti si inaugurò un canale privilegiato di corrispondenza fra le più alte autorità della Chiesa armena come il Catholicos della Grande Casa di Cilicia, residente a Sis, o il Catholicos d’Armenia, la cui sede era ora Echmiadzin, con Roma, il Vaticano ed il monastero di S. Maria Egiziaca.
In questi anni numerosi delegati armeni raggiungono prima Roma incontrando il Pontefice per ricevere quel consenso e quell’appoggio politico la cui autorevolezza era ancora sentita fondamentale, poi ripartivano alla volta di altre capitali del cattolicesimo come Vienna, Varsavia, Venezia o Parigi, nella speranza di riuscire a coinvolgere i sovrani europei e i loro eserciti nelle questioni orientali. Seppur ben disposte ad ascoltare i piani di intervento proposti dagli armeni, le potenze cattoliche erano ben lungi dal poter sferrare un attacco al potente nemico ed erano piuttosto preoccupate a difendersi dal suo temutissimo esercito.
Nonostante questa impossibilità dell’Europa di mobilitarsi in soccorso degli armeni il dialogo fra papato e Chiesa armena rimase fitto anche all’alba del XVII secolo12 e interessò anche questioni dottrinarie e di politica ecclesiastica. Quest’ultimo aspetto ebbe ripercussioni sulla vita della Chiesa armena nella sua terra d’origine. Infatti già al tempo dei primi contatti avvenuti al tempo del regno di Cilicia, si delinearono all’interno del clero armeno diverse posizioni che diedero vita a vere e proprie fazioni pro o contro l’unione con la Chiesa romana; spesso la disputa assunse toni aspri e in più casi portò alla nascita di movimenti separatisti. In quest’epoca di Controriforma la questione era più viva che mai e l’intransigenza del Papato sulle proprie posizioni dottrinarie contribuì alla radicalizzazione delle diverse linee; di certo la mancanza di un’autorevole mediazione, quale avrebbe potuto essere quella del successore di Pietro, accelerò il processo di frammentazione della comunità religiosa armena, già messa a dura prova dagli accadimenti storici, dalla conseguente diaspora e dalla latitanza di un potere politico autonomo.
Nel corso del XVII secolo la Chiesa romana intensificò l’opera missionaria promossa da organi appositi quali la congregazione De Propaganda Fide e l’ordine dei gesuiti, che con il loro intervento diretto nei territori orientali provocarono un’ulteriore divisione delle coscienze. Analizzando la questione dalla prospettiva orientale si possono distinguere diverse tendenze dei religiosi armeni nei confronti della Chiesa romana13, questi furono atteggiamenti spesso radicalmente opposti, che vanno dalla fedele difesa della più totale indipendenza della chiesa
12 Le fonti ci mostrano una fitta corrispondenza epistolare durante i pontificati di Pio V, Gregorio XV e Urbano VIII, alla quale fece sovente seguito l’invio di delegati, cfr. Kévorkian 1999, p. 312.
13 Zekiyan 2000, pp. 251 e sg.
autocefala, a quella corrente che auspicò una totale comunione sia rituale che gerarchica con la Chiesa latina, passando per coloro che furono a favore dell’unione con Roma pur mantenendo caratteristiche identitarie ben definite nel rito e nella disciplina ecclesiastica. Le correnti più vicine alla Chiesa di Roma portarono alla realizzazione del fenomeno dei Frattres Unitores; essendo questa confraternita collegata all’ordine Domenicano, molti dei suoi membri vennero a perfezionare gli studi a Roma presso il famoso convento di S. Maria sopra Minerva prima di ritornare a operare in madrepatria, in particolare nella regione orientale del Nakhchivan14, centro di irradiazione della loro predicazione. Più tardi la volontà di una parte del clero proveniente dalla Piccola Armenia portò alla creazione del Patriarcato Cattolico Armeno. Nel 1742, infatti, il vescovo Abraham Arciwian si recò a Roma, dove alloggiò nell’ospizio di S. Maria Egiziaca15, per incontrare Papa Benedetto XIV da cui, con solenne concistoro, ricevette il pallio divenendo, col nome di Abrahm-Petros I16, il primo patriarca dei cattolici armeni17.
Un nuovo polo nella rete di diplomazia: gli armeni di Nuova Giulfa e la corte Safavide
Le relazioni più propriamente politiche vennero incrementate nel preciso momento storico in cui, con l’ascesa al trono di Persia di Abbas I, si profilò una seria minaccia al dominio degli ottomani in oriente. Lo Shah di Persia riformò profondamente il suo regno e ne consolidò la posizione, la sua politica determinò anche un netto cambiamento qualitativo nei rapporti diplomatici fra Europa e Persia, egli infatti cooperò a rendere più stabili ed efficienti i contatti con i sovrani cristiani.
A partire dal XVII secolo i Safavidi sfruttarono in maniera sistematica le abilità degli armeni nel dialogo diplomatico e nella cura di interessi finanziari, ricorrendo a loro come mediatori con l’Occidente, in questa nuova rete diplomatica un ruolo centrale fu giocato dalla comunità armena di Nuova Giulfa, il cui potere economico, grazie al controllo di redditizi scambi commerciali fra Persia, estremo oriente ed Europa, aumentò considerevolmente il suo peso politico presso le diverse corti, contribuendo nel contempo allo sviluppo di un’idea di emancipazione nazionale. Il ceto mercantile fu dunque in questo periodo il protagonista di un vivace risveglio ideologico e si impegnò concretamente a sostenere le attività dei diplomatici armeni. Particolarmente attive furono le grandi famiglie di Nuova Giulfa, sobborgo armeno di Isfahan, appositamente creato da Abbas I per farvi convergere traffici commerciali e attività artigianali; queste oltre a fornire un supporto
14 Uluhogian 2009, p. 191-92.
15 Uluhogian 2009, p. 103.
16 Tutti i successori adottarono l’usanza di aggiungere il nome di Pietro al loro proprio, cfr. Zekiyan 2000, p. 258.
17 Zekiyan 2000, p. 258.
materiale ed economico ai diplomatici in missione, spesso essi stessi membri di questa elitaria “borghesia” mercantile, seppero sfruttare al meglio la loro rete commerciale e di contatti internazionali così profondamente radicata in tre diversi continenti.
I fattori che contribuirono a rendere gli armeni di Nuova Giulfa validi e credibili intermediari diplomatici sono diversi e non possono ridursi al fatto che essi in quanto cristiani avessero una maggiore facilità a relazionarsi col mondo occidentale. Comunità, chiese, fondaci e ospizi armeni sono ben attestati, specie in Italia, sin dal primo medio evo, e ciò rese la loro presenza ben radicata nella storia e nello sviluppo di importanti città europee e costituendo valida base di sostegno alle missioni diplomatiche. Parimenti, il dialogo politico e religioso con il Papato poteva contare su una tradizione ben consolidata che aveva proposto gli Armeni come interlocutori principali nelle questioni orientali18. La fortuna stessa dei contatti e delle imprese commerciali degli armeni di Nuova Giulfa si può ricondurre a ben prima della deportazione attuata da Abbas I; in effetti il vecchio insediamento di Giulfa, sulla sponda sinistra del fiume Arasse, aveva già conosciuto a partire dalla metà del XVI un rapido sviluppo economico grazie all’attività di intraprendenti mercanti armeni che avevano qui la base dei loro traffici; tale prosperità era legata al commercio della seta dalle sue zone di produzione sulle sponde meridionali del Caspio verso i mercati europei che in quegli anni incrementarono notevolmente la richiesta di questo bene di lusso. La stessa regione dove l’insediamento era ubicato, il Nakhchivan, era posizionata a cavallo di importanti rotte di comunicazione in stretta relazione con la Chiesa di Roma sin dal 1350 quando vi fu insediata una sede episcopale, poi arcidiocesi, che ebbe un ruolo importante fino a metà XVIII sec. nella diffusione di missioni cattoliche in Persia19. Fonti occidentali dimostrano come già i mercanti della vecchia Giulfa fossero i maggiori agenti di questo traffico redditizio20 ed è facile ricostruire il loro rapporto privilegiato sia con le autorità locali che ad un livello superiore con l’élites safavide e quella ottomana. I rapporti privilegiati con le élites imperiali li aiutò a passare indenni i numerosi momenti di crisi politica fra i due regni rivali e con la ricorrente chiusura delle frontiere ai delegati ufficiali ai mercanti giulfini, più liberi di muoversi, furono affidati incarichi ufficiosi21. Invero quando Abbas I costrinse l’intera comunità nei pressi della sua corte a Isfahan (1604-5), il sovrano era perfettamente consapevole di mettere le mani su una rete commerciale e di relazioni già collaudata, e la sua intenzione era guidata da un progetto di accentramento di risorse che permettesse una riforma dello stato e la sua emancipazione dall’influenza esercitata da quei poteri tradizionalmente vicini alla corte safavide. A tal fine instaurò un legame diretto con la
18 Bozoyan 1999, pp. 135-36; Ferrari 2003, pp. 32-33.
19 Lockhart 1986, p. 374.
20 Herzig 1996, p. 308.
21 Herzig 1996, pp. 313-14; Zekiyan 1978, p. 371.
potente classe mercantile capace di curare anche oltre i confini del regno gli interessi politici ed economici della dinastia. La rete di colonie commerciali già realizzata dai mercanti della vecchia Giulfa servì come trampolino di lancio per le imprese di Nuova Giulfa appoggiate dalla politica dello Shah e i cui pricipali terminali erano gli empori di Aleppo, Bursa, e Izmir. Qui, in territorio ottomano, i mercanti giulfini scambiavano direttamente con quelli europei la ricercatissima seta iraniana con i lingotti di argento delle Americhe. L’argento era alla base del sistema economico dei regni dell’epoca e i sovrani orientali erano sempre alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento per finanziare la loro politica; visto che questo metallo prezioso scarseggiava fra le risorse dei propri territori, incrementarne le importazioni dall’esterno era un obiettivo vitale. Per questo motivo il prestigio dei mercanti Giulfini presso la corte safavide crebbe di pari passo col volume del proprio commercio e nel periodo di Abbas I si nota una comunione di interessi ed un’armonia di intenti fra monarca e imprenditori armeni che porta ad una stretta collaborazione sia all’interno del regno che fuori. Il sovrano era uno dei principali fornitori di materia prima e tutto il processo di produzione della seta era sotto il controllo della corona; egli quindi garantì concessioni, agevolazioni finanziarie e cura degli interessi economici all’estero ai mercanti di Nuova Giulfa. Al loro ritorno dai mercati occidentali gli armeni lasciavano una cospicua parte dei loro ricavati in lingotti d’argento presso zecche statali posizionate ai confini del regno, a metà strada fra i centri di produzione della seta e le rotte verso gli empori in cui veniva smerciata, come Erevan, Tabriz e Tiflis, o in quella centrale di Isfahan, dove la materia prima veniva tramutata in valuta corrente a sostegno dell’economia interna22; parte del ricavato veniva reinvestito sul mercato indiano dove l’argento aveva un valore ancora maggiore e dove si potevano acquistare materie prime e rare pietre preziose, raddoppiando in questo modo il profitto iniziale23.
Le riforme di Abbas I tesero ad un accentramento di potere a e alla creazione di un apparato burocratico e militare “statale” che fosse estraneo ai tradizionali poteri locali o ai legami di sangue tribali. Questo nuovo ceto formato dai cosiddetti ghulam, ossia prigionieri, mercenari o schiavi, al soldo del sovrano e ad esso direttamente legati da un rapporto di lealtà venne sovvenzionato in gran parte dai proventi derivanti dal commercio della seta; i mercanti armeni divennero così una sorta di promotori finanziari della profonda riforma attuata dallo Shah e ciò permise loro di entrare in stretto contatto con le più alte sfere di potere. La comunità armena di Nuova Giulfa quindi non si configurò unicamente come una borghesia urbana dedita al commercio ma altrimenti passiva sul piano politico, al contrario essa entrò attivamente nei processi politici del regno safavide24. Anche da un punto di vista amministrativo il sobborgo di Nuova Giulfa godeva di diversi privilegi come una
22 Babaie 2004, p. 60.
23 Per un’esaustiva trattazione del commercio di seta e argento fra Europa ed Asia, ved. Baghdiantz Mc Cabe 1999.
24 Babaie 2004, pp. 50-52.
propria e dipendente giunta amministrativa sotto la guida di un kalantar locale ed era sotto la protezione dalla Regina Madre il cui ufficio raccoglieva le tasse annuali dei suoi abitanti25. Fino al regno di Abbas II e alla metà del XVII sec. gli interessi di mercanti armeni e corte safavide furono convergenti tanto che un attento osservatore dell’epoca, il viaggiatore italiano Pietro della Valle, descrivendo il regno di Persia comparò la loro relazione con lo Shah a quella vigente fra la corona spagnola e i potenti banchieri genovesi26.
Quest’insieme di fattori rese naturale l’impiego di armeni giulfini tra le fila dei legati diplomatici dello Shah di Persia e, solo due anni dopo il loro trasferimento forzato a Isfahan, il primo di questi incaricati ufficiali di cui abbiamo notizia appare in un registro veneziano del 160727.
La Chiesa cattolica e la questione orientale
La tollerante politica religiosa di Shah Abbas I e la sua apertura nei confronti di un dialogo interculturale diede una nuova occasione al mondo cristiano di proporsi in maniera attiva in uno scenario politico che ora appariva assai più vasto rispetto ai modesti e limitati orizzonti delle epoche passate. La Chiesa romana intravide quindi la possibilità di affermarsi stabilmente fra gli interlocutori occidentali dello Shah e tentò di cogliere questa opportunità organizzando in maniera sistematica missioni che fossero in grado di insediarsi sul territorio. In questo periodo assistiamo ad una crescita non solo quantitativa ma piuttosto qualitativa di tale attività favorita dalle riforme attuate dalla Chiesa post-tridentina nel campo della formazione sacerdotale e nella costituzione di nuovi ordini specializzati nell’evangelizzazione dei popoli. L’opera missionaria veniva ora affidata a sacerdoti e chierici specificatamente istruiti nelle lingue, nella culture e nelle tradizioni religiose dei popoli orientali. Sebbene nel lungo termine questa attività evangelizzatrice avesse portato scarsi risultati riguardo al numero di conversioni ottenute, essa ebbe il merito di stabilire il dialogo ed una fitta rete di relazioni con le istituzioni locali radicate sul territorio e con l’élite politica dei diversi regni orientali. Grazie a questo tessuto capillare ben presto a Roma giunse una messe di informazioni di prima mano relative alle regioni orientali, alle loro condizioni politiche ed economiche; questo diede al papato uno strumento di conoscenza pari, se non superiore, a quello delle grandi potenze mercantili europee, e permise al Pontefice di adattare repentinamente la propria politica a seconda delle contingenze attuatesi su scala planetaria.
25 Babaie 2004, p. 52.
26 Herzig 1996, p. 313.
27 Babaie 2004, p. 55.
Sorsero così nella nuova capitale safavide, Isfahan, conventi dei principali ordini missionari, Agostiniani, Carmelitani, Cappuccini, Domenicani, Gesuiti, ognuno dei quali ebbe sin dall’inizio il duplice indirizzo di curare gli interessi non solo della Chiesa cattolica, ma soprattutto quelli della corona europea alla quale erano più strettamente legati. Ben presto quindi Isfahan e la sua corte furono teatro non solo di una contesa diplomatica per aggiudicarsi le grazie dello Shah ma anche di intrighi fra le case regnanti europee e la Chiesa di Roma che cercò sempre di richiamare a sè la fedeltà dei missionari e di supervisionare il loro operato. Il primo ordine a ricevere la concessione dello Shah di fondare un proprio convento nella capitale persiana fu quello degli Agostiniani, nel 1602; questo istituto ebbe carattere meno missionario che diplomatico, infatti, il suo priore era anche il rappresentante della corona portoghese28 e stabilì la prima rappresentanza europea permanente nella Persia safavide. Altri sovrani europei seguirono l’esempio e oltre alle delegazioni diplomatiche composte da nobili di alto lignaggio ed inviate per singole missioni, affidarono la cura dei propri interessi agli ordini ecclesiastici al fine di mantenere una presenza più stabile sul territorio e di stabilire un dialogo più serrato con le autorità safavidi. Così i Carmelitani, in prevalenza spagnoli o italiani dei territori sotto la corona ispanica, avevano un rapporto privilegiato col regno iberico, mentre il superiore del convento dei frati Cappuccini di Isfahan era la longa manus del re di Francia29. I monarchi occidentali figurano anche come i maggiori finanziatori delle missioni religiose appropriandosi a loro proprio vantaggio di questo strumento di propaganda e informazione. La fondazione di missioni di ordini cattolici nella capitale safavide riflette la necessità dei regni cristiani di avere interlocutori permanenti e rispecchia la politica sostenuta da Papa Clemente VIII e dai suoi successori tesa a stabilire nuove alleanze contro la minaccia ottomana. Nella prima metà del XVII secolo i rapporti fra le congregazioni cattoliche e la Chiesa armena fu pacifico, i tentativi di convertire membri della comunità armena fu blando e la convergenza di interessi favoriva un dialogo che aveva come scopo trovare una mediazione per un’unione equilibrata fra le due Chiese Apostoliche piuttosto che imporre un assorbimento incondizionato. La situazione cambiò, divenendo più tesa, quando la politica dei Pontefici in Oriente divenne più aggressiva, a causa degli sviluppi interni e della nuova strategia attuata dalla Chiesa romana. Tale cambiamento d’atteggiamento fu determinato dalla volontà di ottenere un controllo esclusivo sugli ordini missionari, di limitare l’influenza dei sovrani europei su questi, di imporre una linea dottrinaria univoca ed inflessibile, e di trovare nuove forme di finanziamento che rendesse autonome le missioni religiose. Sotto quest’ultimo aspetto economico si comprende l’esasperata mira alla conversione, con campagne di duro proselitismo che altrimenti apparirebbe
28 Inizialmente del Re di Spagna fino alla separazione dei due regni; Lockhart 1986, p. 389.
29 Lockhart 1986, p. 389. I frati Cappuccini, sotto la protezione del re di Francia e del suo potente ambasciatore presso la Sublime Porta, operavano attivamente nell’impero ottomano fondando missioni a Costantinopoli, Smirne, Aleppo, ossia i più importanti terminali commerciali del grande impero; Kévorkian 1999, p. 314.
poco comprensibile. Il nuovo organo, appositamente creato, in mano al Pontefice fu la Sacra Congregatio de Propaganda Fide, istituita da Papa Gregorio XV con una Bolla datata giugno 1622. Questa organizzazione era stata concepita come un vero e proprio dicastero cardinalizio che sovraintendesse e coordinasse ogni aspetto dell’opera missionaria e di evangelizzazione, una sorta quindi di ministero degli affari esteri preposto al governo di tutte le missioni sparse nel mondo e alla gestione delle informazioni da esse fornite. Questa istituzione fu dotata fin dalla nascita di strumenti e poteri consoni all’importanza delle sue funzioni, prima fra tutte quello di essere l’organo ordinario ed esclusivo della Santa Sede nell’esercizio della sua giurisdizione su tutte le missioni dei diversi ordini. In quest’opera di accentramento di potere la sede romana della Congregazione ebbe un ruolo primario e fu dotata di organi estremamente efficaci e strutturata in maniera assai moderna per quei tempi. Intorno al palazzo direttivo quindi sorse immediatamente un collegio che formava giovani presbiteri all’attività missionaria e diplomatica nei diversi continenti30. Particolare attenzione veniva dedicata all’insegnamento delle lingue locali; molti studenti venivano reclutati tra le migliori famiglie che nei loro paesi d’origine avevano abbracciato il cattolicesimo, in modo che si creasse un legame ancora più stretto fra Roma, la società e la cultura di quei paesi. Molti dei mediatori dei regni cristiani in Oriente, armeni compresi, avevano compiuto il loro corso di studi proprio all’interno dei grandi collegi romani, quello Urbano di Propaganda Fide31, quello dei Gesuiti, quello dei Domenicani di S. Maria sopra Minerva. Per coloro che studiavano in questi collegi, spesso rampolli delle élites cristiano-orientali, non era tanto questione di abbandonare, tramite la conversione, la propria identità culturale, quanto di inserirsi in un sistema educativo internazionale; di conseguenza costoro erano integrati in una rete di contatti più ampia, pur mantenendo forti legami con la comunità di origine che li rese nel panorama dell’epoca fortemente competitivi32. Il cuore dell’intelligence della Congregazione risiedeva nella stupenda biblioteca barocca e negli archivi ad essa appartenenti dove fin dall’inizio venne raccolto ogni tipo di documento inviato dai nunzi, superiori generali degli ordini religiosi e dai singoli missionari, riguardante le missioni sparse per il mondo; ciò fece della Congregazione uno dei dicasteri meglio informati dell’epoca. Per dotare i missionari ad gentes di strumenti materiali efficaci, la Congregazione si affidò ad una nuova e rivoluzionaria tecnologia: la stampa. All’interno dell’Istituto prese infatti vita una tipografia poliglotta, istituita già nel 1626, nella quale venivano editi non solo testi dottrinari e liturgici nelle maggiori lingue di diffusione occidentali e orientali, ma anche opere di grammatica, diritto e controversie spirituali finalizzate alla predicazione in Oriente. La lotta sotterranea fra Papato e monarchi europei in merito alla sovranità su missioni e
30 Istituito da Urbano VIII nel 1624 ha avuto per trecento anni sede nello stesso palazzo direzionale della
31 Dal 1643, grazie ad un intervento di Papa Urbano VIII, i giovani armeni erano liberamente ammessi nei seminari Collegio romano di Propaganda Fide; Casnati 1990, p. 35.
32 Faroqhi 2007, p. 154.
ordini religiosi ed, indirettamente, anche il parziale successo della politica della Congregazione, sono testimoniati da una lettera che il re di Francia33 inviò al Priore dei Cappuccini nel 1644; in questo documento si esprime il divieto di accogliere autonomamente qualsiasi decreto della Sacra Congregazione, che come già ricordato secondo il diritto ecclesiastico godeva di giurisdizione assoluta sugli ordini religiosi, di sottoporlo al Consiglio della Conoscenza di Sua Maestà e alla relativa autorizzazione34.
Sotto questa nuova spinta il rapporto fra Chiesa di Roma e Chiesa armena mutò, la questione relativa all’unione fra le due confessioni si radicalizzò e si intensificò l’attività evangelizzatrice sia in terra armena che soprattutto a Nuova Giulfa35. In questa arena l’opera di proselitismo non era dunque animata unicamente da spirito evangelico ma aveva anche ragioni di carattere politico ed economico. L’obiettivo di convertire al cattolicesimo le grandi famiglie giulfine aveva il duplice scopo di acquisire un ruolo rilevante presso la corte safavide e di garantire alle missioni in loco le donazioni e la protezione della ricca borghesia mercantile. La lotta scatenatasi nel sobborgo di Isfahan fra religiosi cattolici e Chiesa armena si ripercuoteva fin negli ambienti di corte dove le due fazioni cercavano di ingraziarsi il favore del sovrano e del suo entourage; pertanto a discapito degli sforzi profusi si può asserire che l’opera di conversione fallì nel suo intento e la quasi totalità degli Armeni rimase legata alla propria tradizione e identità religiosa, anche se va ricordato che nonostante queste tensioni i rapporti fra comunità armena e Roma non furono mai spenti e la comunanza di interessi geopolitici così come la condivisione di sentimenti anti-ottomani rinvigorì l’asse di contatti Isfahan-Echmiadzin-Roma.
Più in generale la politica orientale della Chiesa di Roma tra XVI e XVII sec., mirava in più direzioni, una verso il proselitismo e la protezione delle comunità cristiane in Oriente, esigenza ancor più sentita dopo l’emorragia, sia di “anime” che di “entrate”, causata dalla Riforma, l’altra indirizzata all’attuazione di un progetto militare di aggressione all’impero ottomano e volto a proporre il Pontefice come autorità morale e guida ideologica della cristianità al di sopra dei singoli stati nazionali. Nel corso di questi due secoli diversi Pontefici cercarono di realizzare questo progetto e nonostante le palesi difficoltà evidenziate tutti si proposero come patrocinatori e guida ideale di tale iniziativa, gli unici in grado di rivestire un’autorità superiore in grado di redimere le discordie fra le potenze europee e di riunire le loro energie in uno sforzo comune. Questo primato
33 In realtà essendo Luigi XIV all’epoca solo un bambino il regno era sotto la reggenza di sua madre Anna d’Austria e del plenipotenziario Cardinal Mazarino.
34 Kévorkian 1999, p. 314.
35 Ciò si verifico anche in altri luoghi della diaspora armena, un esempio particolarmente aspro è testimoniato dalla disputa riguardante la comunità di Leopoli.
ideologico fu riconosciuto dagli stessi interlocutori orientali, come gli Shah di Persia e la Chiesa armena.
Il piano di un attacco concertato per accerchiare gli ottomani è un’idea già postulata all’indomani della presa di Costantinopoli, quando inviati veneziani cercarono più volte di convincere Uzun .asan, sovrano della federazione degli Aq Quyunlu36. Invero carteggi fra il primo sovrano safavide Shah Isma‘il e le corti europee mostrano come sin dall’esordio di questa nuova dinastia si cercasse una mediazione diplomatica per organizzare il complesso attacco militare. Incoraggiato dal successo ottenuto dalla lega cristiana nella battaglia navale di Lepanto (1571), Papa Pio V, scrisse prontamente a Shah Tahmasp invitandolo ad attaccare i turchi sul fronte orientale e a condividere i vantaggi derivati dalla storica vittoria37. Il sovrano persiano, impegnato in una lotta interna e ben conscio della potenza dell’esercito sultanale, adottò invece una politica cauta. Poco più tardi, nel 1583, Papa Gregorio XIII che cercava di far rivivere lo spirito delle crociate progettò un’alleanza con la Persia e inviò incaricati a questo scopo; proprio in quel periodo, che precedette l’ascesa di Abbas I, la Persia safavide viveva un momento di instabilità politica e furono gli ottomani ad adottare una politica aggressiva attaccandone i confini occidentali e conquistando ampi territori comprese le città di Tiflis, Erevan e Tabriz. Nonostante questi insuccessi e le manifeste difficoltà logistiche l’interesse destato dal piano militare anti-ottomano non si spense, anzi con la restaurazione del regno di Persia promossa da Shah Abbas trovò nuove spinte, e grazie anche alla volontà di spirito dei delegati armeni fu al centro del dibattito politico fino al crollo della dinastia Safavide.
Inviati armeni fra Isfahan e Roma: trattative anti-ottomane e piano di liberazione nazionale
Come già accennato gli stessi regni europei si affidarono spesso per le loro ambasciate presso i sovrani persiani a intermediari armeni, reclutati tra le fila dei mercanti o della corrente latinofila. Quando il confronto fra Europa e impero ottomano si infiamma nuovamente con la guerra per il possesso dell’isola di Candia notiamo la presenza di un numero cospicuo di delegati armeni inviati dal Catholicos di Echmiadzin o dallo Shah di Persia in missione nelle più importanti capitali europee38 così come per conto dei monarchi cristiani ad Isfahan. La frenetica attività degli ambasciatori armeni non si arrestò neanche con la fine della guerra per Candia poiché la Sublime Porta inaugurò una politica aggressiva nei Balcani che minacciò sia l’Europa Centrale e i
36 Lockhart 1986, p. 377; un delegato armeno consegnò a Venezia una lettera del sovrano orientale nel 1471, Zekiyan 1978, p. 370.
37 Lockhart 1986, p. 384.
38 Kévorkian 1999, p. 314.
possedimenti imperiali che quella Orientale e i regni di Polonia e Moscovia. Nel 1672 con l’aiuto del Khan tataro di Crimea, fedele al Sultano, venne lanciata con successo una campagna militare contro Polonia e Russia, e nei cinque anni successivi gli eserciti europei vennero ricacciati verso nord e l’avanzata turca conoscerà una battuta d’arresto solo col fallito assedio di Vienna del 1683. In questi anni il piano presentato dagli Armeni per accerchiare gli Ottomani si basava sulla combinazioni di attacchi simultanei dall’esterno e di sollevazioni delle popolazioni sottomesse all’interno dell’impero. Cardini del progetto erano l’attacco delle frontiere orientali da parte dei Safavidi e di quelle occidentali da parte delle maggiori potenze cristiane interessate, quali la Repubblica veneziana, il regno asburgico, il regno di Polonia e la cooperazione di quello di Moscovia per arginare i tatari di Crimea. Ma intorno a questi interventi imprescindibili, gravitava un concerto di azioni e di attori “minori” che avrebbero disorientato l’assetto difensivo ottomano come la rivolta dei principi vassalli di Moldavia, Valacchia, Transilvania, o la sollevazione dei cristiani dell’impero, greci, armeni, siriani, georgiani. Il complesso piano prevedeva anche un attacco dal sud che coinvolgeva il Gran Negus d’Etiopia39, nel regno africano gli Armeni potevano contare su una cospicua e facoltosa colonia, la cui influenza era particolarmente sentita nella capitale Gondar dove molti armeni rivestirono cariche ufficiali40. Per la promozione di questo piano l’alto clero armeno e la borghesia mercantile collaborano appoggiandosi sulle loro reti di contatti internazionali e giocando abilmente sullo scenario geopolitico dell’epoca.
Nel frattempo, l’esperienza di Nuova Giulfa, la forte identità condivisa dalle comunità della diaspora e la persistente lotta di salvaguardia culturale operata dalla Chiesa madre stimolò una nuova coscienza nazionale e il desiderio che venisse riconosciuta la libertà del proprio popolo. Un ruolo attivo nella costituzione del sentimento nazionale armeno fu giuocato anche dalla nobiltà armena della Transcaucasia e dai cosiddetti melik’, principi che controllavano le marche orientali dell’Armenia storica, la cui giurisdizione politica e militare era riconosciuto dai Safavidi41. Nonostante l’originaria terra armena fosse diventata un territorio desolato a cavallo tra due imperi nemici, nella seconda metà del XVII sec., periodo in cui si infranse l’idillio fra classe mercantile giulfina e corona safavide, si avvertì all’interno della Chiesa42 e della comunità armena il peso del giogo straniero e, di pari misura, crebbe il sentimento di identità e di liberazione nazionale; per raggiungere il sogno di una piena autonomia gli armeni cercarono ancora una volta l’appoggio dell’occidente cristiano ed in primo luogo della sua guida spirituale, il Santo Padre. Caso emblematico di questa risolutezza di intenti e di convinzione nel perorare la propria causa presso le
39 Kévorkian 1999, p. 313.
40 Uluhogian 2009, pp. 184-185.
41 Ferrari 2003, pp. 90-93.
42 In questo periodo i Catholicos Movses III, Pilippos I e Yakob IV, furono particolarmente energici nella loro attività politica; Ferrari 2003, p. 67.
corti occidentali è la figura di Petros Petik, chierico armeno formatosi a Roma nel Collegio Urbano di Propaganda Fide. Costui per tutta la seconda metà del XVII secolo sarà impegnato in una instancabile attività diplomatica presso le più influenti corti dell’epoca, così come impareggiabile fu la sua opera nel concertare dialogo e relazioni fra il catolicato di Echmiadzin e la Curia romana. Frequentando per tre anni la corte safavide ad Isfahan, Petik riesce ad introdursi nella ristretta cerchia dei più ricchi mercanti della città e ad entrare in contatto con le idee e l’organizzazione del movimento di liberazione armeno. Gli anni successivi lo vedono impegnato personalmente, in qualità di ambasciatore di Persia e di inviato del Catholicos, a promuovere un piano anti-ottomano che egli stesso illustrerà al cospetto dei più autorevoli sovrani europei, quali lo Zar di Moscovia, l’imperatore Leopoldo d’Asburgo, il re di Polonia Giovanni Sobieski, il re di Francia Luigi XIV, il doge di Venezia e ovviamente il Santo Pontefice43 che con il carisma di cui è investito viene visto dagli Armeni come mediatore e sostenitore ideale del loro progetto di indipendenza. In questi anni sul soglio papale siede Innocenzo XI, che, avvalendosi anche dello sforzo di Petros Petik nel cercare un riavvicinamento ufficiale della Chiesa armena a Roma44, lavora attivamente alla coalizione delle potenze cattoliche contro il nemico turco essendo ben disposto ad interpretare il ruolo di guida ideologica della lega cristiana. La costituzione della Lega Santa a difesa dell’Europa è il frutto tangibile della politica intrapresa da Innocenzo XI. Lo stesso Petik fu in quegli anni protagonista di un episodio significativo; nel 1677, il Catholicos armeno Yakob IV, già in contatto epistolare con Papa Alessandro VII e gli altri sovrani europei, indisse un incontro segreto al patriarcato di Echmiadzin al quale parteciparono alti membri del clero armeno e diversi melik’, rappresentanti nella nobiltà locale. Si giunse così alla conclusione che esprimendo una dichiarazione formale di ubbidienza al Pontefice di Roma, costui avrebbe supportato materialmente i piani di liberazione degli Armeni e avrebbe coinvolto gli altri regnanti cristiani d’Occidente ad intervenire militarmente. Questo primo progetto di liberazione nazionale si sviluppa in un momento storico ben preciso: il rapporto fra i potenti mercanti armeni e il monarca safavide si è da tempo incrinato e la sfera dei privilegi concessi ai giulfini si sta sempre più ridimensionando. Da quando sul trono di Persia siede Shah Sulaiman, sovrano indolente e poco interessato agli affari di stato, all’interno della compagine safavide si manifestano sempre più forti la corruzione dei ghulam di corte e dell’amministrazione che strangola le attività imprenditoriali e contemporaneamente si esprimono quelle spinte centrifughe che a poco a poco disgregheranno l’unità interna dello stato. In questo scenario i melik’ armeni acquisiscono una maggiore autonomia e sono in grado di mobilitare contingenti militari e al pari del clero e dei grandi mercanti giulfini intravedono il sogno di rendere la propria patria nuovamente indipendente. Petros Petik, dopo aver illustrato il piano anti-ottomano
43 Kévorkian 1999, p. 314.
44 Kévorkian 1999, p. 314.
presso le corti di Mosca, Varsavia e Vienna45, nel 1678 giunse a Roma, dove fu accolto con benevolenza dalla Curia, con lo scopo di predisporre il soggiorno ufficiale dello stesso Catholicos armeno e avviare i negoziati diplomatici. L’iniziativa subì però un brusco arresto quando nell’imminenza del suo viaggio verso Roma il Catholicos si ammalò gravemente morendo a Costantinopoli nel 1680 e la maggior parte della delegazione tornò in patria46.
Nonostante ciò l’azione diplomatica di Petik proseguì ed i tentativi di rendere concreto un attacco congiunto contro i turchi vengono promossi dallo stesso Pontefice Innocenzo XI che si impegna attivamente per la formazione di una coalizione anti-turca sotto la guida ideologica della Santa Sede. In questo scenario il Papa stesso affida a Petik sue lettere indirizzate all’imperatore Leopoldo47 e incarichi diplomatici per promuovere la nascita della Lega Santa.
L’ambasciatore armeno raggiunse il culmine della sua carriera quando partecipò attivamente alla conclusione dell’alleanza fra Sacro Romano Impero e regno di Polonia, ricevendo come ricompensa per i suoi meriti il titolo comitale del regno asburgico48; grazie a questi accordi, il re polacco Giovanni Sobieski49 al comando del suo esercito soccorse Vienna assediata dall’imponente esercito sultanale e ne rese possibile la liberazione (1683). Alla decisiva battaglia sotto le mura della capitale imperiale partecipò, con insegne proprie, anche un reparto di moschettieri composto da cinquemila armeni della diaspora polacca50.
Nello stesso periodo vediamo attivo come agente diplomatico un altro abile armeno, Israyel Ori, il cui nome resterà legato all’origine e alla diffusione in Europa del movimento di liberazione armeno; anch’egli partecipò alla sfortunata missione di Yakob IV, ma alla morte del Catholicos, decise di protrarre lo sforzo per promuovere il piano di liberazione delle terre armene. Se in Europa egli incontrò solo timidi consensi, ben più ampio sostegno ricevette dai melik’ locali in patria, dove le mutate condizioni politiche del regno safavide in netta decadenza esasperavano il popolo armeno gravato da un’esazione fiscale sempre più dura e maggiormente intenzionato ad emanciparsi dal dominio islamico. Il giovane ambasciatore operò anche nel senso di un’unione fra Chiesa romana e armena, nonostante l’alto clero armeno esasperato dalla nuova politica dei cattolici abbandonasse ogni velleità di trattativa. Egli riuscì seppur con una delegazione ridotta ad avere udienza da Papa
45 Leopoldo I apprezzò particolarmente le qualità e la competenza del diplomatico armeno accettandolo nei quadri dell’armata imperiale e ammettendolo nella ristretta cerchia del Consiglio Superiore degli Eserciti guidato dal generale Montecuccoli; Kévorkian 1999, p. 315.
46 Kévorkian 1999, p. 314.
47 Kévorkian 1999, p. 315.
48 Kévorkian 1999, p. 314.
49 L’intervento del re polacco sembra aver colto di sorpesa il sultano Mehmed IV ed il suo Vizir Kara Mustafa Pasa; Sobieski era in effetti il candidato filo francese per il trono di Polonia e la sua elezione era stata percepita come il frutto di una politica anti-asburgica. Faroqhi 2007, p 57.
50 Kévorkian 1999, p. 315.
Innocenzo XII51 ed un rapporto diretto col suo successore Clemente XI. L’alleanza con Roma era nonostante tutto ancora percepita come il sostegno ideologico su cui impostare un più ampio piano di intervento in Oriente. Il progetto prospettato da Ori ai potenti dell’epoca prevedeva una sollevazione in tutta la regione subcaucasica dei popoli sottomessi agli imperi turco e persiano, come Curdi, Greci, Georgiani, e ovviamente gli stessi Armeni52.
Il periodo di cooperazione politica fra Armenia e Santa Sede si conclude tuttavia con quest’epoca. A causa dell’instaurazione di regimi assolutisti e della diffusione del pensiero illuminista l’influenza dell’autorità pontificia diminuì sensibilmente anche nei regni di lunga tradizione cattolica; in breve tempo gli Armeni potenziarono le loro già attive reti diplomatiche presso le corti europee, rivolgendosi ora direttamente a quei monarchi che sembravano garantire speranze più concrete e realistiche. A Vienna in particolare, grazie anche all’insediamento in città di membri della corrente Mechitarista, si instaurò una florida e prosperosa comunità capace di trattare direttamente con gli Asburgo sempre impegnati in una lotta serrata contro i turchi per la supremazia nella penisola balcanica. Ma fu principalmente verso l’astro nascente della potenza russa che gli Armeni diressero le proprie rinnovate speranze di libertà e autonomia dalla dominazione ottomana. A partire infatti dal regno dello Zar Pietro il Grande (1672-1725) per la prima volta la Russia, volgendosi alla conquista della costa del Mar Nero, si interessò alla regione transcaucasica53, da allora gli Armeni iniziarono a considerare l’impero dello Zar come principale referente per la libertà della loro patria. Lo stesso Israyel Ori intuendo questo nuovo equilibrio geopolitico, perorò energicamente la causa al cospetto del grande Zar, consegnando inoltre una supplica scritta dai melik’ e rivolta a Pietro il Grande, nella quale si implorava l’intervento dell’impero cristiano in Transcaucasia, preludio della campagna militare russa in Persia del 1722. Nonostante questo cambiamento nell’orientamento e nelle scelte politiche degli Armeni, Roma rimase anche per i secoli a seguire un importante centro per lo sviluppo del dialogo interculturale fra questa nazione orientale e l’Europa cristiana.
Nella valutazione complessiva del dialogo politico fra Armeni e Santa Sede nel corso del XVI e XVII sec., l’ostinata ricerca del consenso e del sostegno di Roma può apparire come una scelta ingenua ed utopistica di una comunità molto legata a schemi di pensiero tradizionale e a condizionamenti religiosi54, dunque incline ad ignorare la realtà storica o ad accettare le pressioni che la stessa Chiesa cattolica esercitò in campo dottrinario e missionario. In realtà, esaminando meglio gli elementi, appare chiaro come sia l’alto clero armeno che la borghesia mercantile giulfina
51 Ferrari 2003, p. 69.
52 Ferrari 2003, pp. 69-70.
53 Uluhogian 2009, p. 50.
54 Ferrari 2003, p. 67.
e della diaspora, agenti principali dello sforzo diplomatico, grazie alle loro radicate reti di contatto fossero consci degli sviluppi storici e ben inseriti in ambienti influenti. Grazie a questi fattori seppero approntare una strategia coerente con le dinamiche politiche del tempo; il loro legame con Roma, oltre ad avere la sua origine in una tradizione ben consolidata, aveva anche altre valide e concrete ragioni che si possono individuare nello sviluppo interno alla Chiesa stessa in epoca post-tridentina e nel ruolo che essa rivestiva nello scacchiere politico. Il riassetto della Chiesa romana durante i secoli XVI e XVII coinvolse profondamente organi ed istituzioni ecclesiastiche, riuscì ad arginare con successo il dilagarsi in Europa delle Chiese “riformate”, diede lo strumento ai Pontefici per poter agire in maniera influente sullo scenario mondiale e reclamare l’autonomia degli ordini religiosi. Il papato, inoltre, seppe in alcuni casi dirimere le divergenze fra i regni europei e far convergere le loro energie in coalizioni e alleanze che, seppur estemporanee, riuscirono a frenare militarmente l’avanzata ottomana nei Balcani e nel Mediterraneo. Parallelamente l’impegno di diversi Pontefici nelle questioni orientali, portò ad una forte presenza di religiosi in Oriente e al riavvicinamento con le Chiese orientali; inoltre la grande rete relazionale e missionaria diffusasi nel corso del XVI secolo in tutto il mondo ed il susseguente controllo che su di essa esercitava Propaganda Fide fece del Pontefice uno dei pochi artefici abile ad attuare progetti politici a livello planetario. Molteplici, pertanto, furono i fattori che devono essere presi in considerazione per comprendere al meglio l’incessante dialogo interculturale fra la Nazione Armena e la Santa Sede. Tale concomitanza di elementi creò i presupposti nel tempo per costanti contatti con Roma spingendo gli Armeni a rivolgersi al Papa come interlocutore privilegiato e a non scoraggiarsi mai nonostante i numerosi fallimenti e le speranze infrante.
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Gianfilippo Terribili

 
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