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3 Sett- 2012 - New York, 11 settembre 1912. Cent’anni fa
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Date: Tue, 4 Sep 2012 18:40:09 +0200
Un chimico visionario Ciamician*, cento anni fa già parlava di energia solare
03 settembre 2012
*( Wikipedia-Giacomo Luigi Ciamician )
New York, 11 settembre 1912. Cent’anni fa. Il presidente dell’VIII Congresso Internazionale di Chimica Applicata invita a salire sul palco un italiano, Giacomo Ciamician, docente dell’università di Bologna. In sala c’è un religioso silenzio: l’intervento è atteso. I suoi colleghi americani, organizzatori del Congresso, lo hanno chiamato per una relazione di scenario. Deve indicare all’intera comunità mondiale di cosa si dovranno occupare i chimici nel prosieguo del il XX. Impresa tutt’altro che facile. Ma, Ciamician con un entusiasmo che contagia la platea, pronuncia il suo discorso che ha per titolo: La fotochimica dell’avvenire. Il testo risulta così interessante che verrà pubblicato a stretto giro, il successivo 27 settembre, sulla rivista dell’American Association for the Advancement of Science, la prestigiosa Science.
LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Siamo all’inizio di una nuova accelerazione della rivoluzione industriale. E la domanda di energia è crescente. Non si bada tanto né alla fonte, esauribile, né all’efficienza. L’industria cresce senza curarsi degli sprechi. Noi uomini, sostiene il chimico italiano, utilizziamo il carbon fossile «con crescente avidità e spensierata prodigalità». Ma la risorsa non è infinita. Invece dovremmo chiederci, continua il chimico italiano, se questa «energia solare fossile» sia l’unica forma di energia solare utile per lo sviluppo della civiltà. La domanda è retorica, prosegue Ciamician. L’energia solare «diretta» è una fonte illimitata e molto più utile. Il Sole, infatti, invia sulla Terra sotto forma di luce una quantità di energia che è di gran lunga superiore a quella necessaria all’uomo per alimentare la sua economia. La gran parte di questa energia illimitata e gratuita va semplicemente dispersa. Solo una quota parte viene intercettata dalle piante e dagli altri organismi capaci di fotosintesi e trasformata nell’energia biochimica che alimenta l’intera biosfera. Ecco, dunque, quali sono i due compiti principali per noi chimici nel XX secolo in ordine di importanza crescente: primo, dobbiamo imparare a utilizzare l’energia posseduta dalle piante; secondo, dobbiamo imparare a catturare e a trasformare l’energia che ci regala il Sole con i suoi raggi luminosi. Dobbiamo creare un’industria fondata sulla fotosintesi: «Quando un tale sogno fosse realizzato le industrie sarebbero ricondotte ad un ciclo perfetto, a macchine che produrrebbero lavoro colla forza della luce del giorno, che non costa nulla e non paga tasse!».
Giacomo Ciamician riceve gli applausi scroscianti della platea. Ha illustrato un programma che, a cento anni di distanza, è più che mai attuale. Per l’umanità, che può risolvere i suoi problemi energetici solo smettendo di utilizzare l’«energia solare fossile» e affidandosi sempre più all’«energia solare diretta». Ma è un programma attuale anche per i chimici. Come dimostra il fatto che nel 2011, anno della chimica, molti hanno proposto come slogan di una nuova chimica capace di rispettare l’ambiente e aiutare l’umanità imparando a fare «di più con meno». Inutile dire che in testa all’elenco della cose da realizzare, la «chimica verde» indica proprio la fotosintesi artificiale.
È anche per questo che il Dipartimento di Chimica, oggi «Giacomo Ciamician», dell’Università di Bologna si accinge a celebrare, nelle prossime settimane, il discorso profetico del suo passato direttore. Diciamo anche e non solo, perché proprio presso quel dipartimento Vincenzo Balzani e il suo gruppo hanno di recente realizzato «macchine molecolari» che rappresentano il fronte oggi più avanzato in direzione del sogno di Ciamician.
Ma chi era questo chimico visionario, sconosciuto al grande pubblico, ma capace di sollevare i problemi con un secolo e più di anticipo? Giacomo Ciamician è nato in quel crogiuolo di etnie e di culture che era (ed è) Trieste nel 1857, quando la città ancora apparteneva all’Impero austro-ungarico. E, infatti, il giovane si informa di chimica nella capitale, Vienna, per laurearsi poi in Germania. Ma il giovane Ciamician, sebbene abbia la nazionalità austriaca, vuole tornare in Italia, perché «si sente italiano». Così approda alla scuola che il patriota siciliano Stanislao Cannizzaro sta organizzando a Roma. Ed ecco, dunque, che nel 1880 Giacomo Ciamician diventa assistente di chimica organica nel gruppo del chimico italiano di gran lunga più noto in patria e all’estero, Cannizzaro appunto. In capo a due anni il giovane triestino è libero docente di chimica generale e, passati altri due anni, ottiene, per regio decreto, la cittadinanza italiana. Dopo aver rinunciato a una cattedra a Catania, nel 1887 ne accetta una a Padova. Due anni dopo è a Bologna, titolare della cattedra di chimica generale. È una città che ama perché, sostiene, è quella dove si può ascoltare la migliore musica italiana. A Bologna Ciamician produce ottima chimica, di livello internazionale. E da Bologna volge lo sguardo al futuro, indicando quell’obiettivo che, ancora oggi, a un secolo esatto di distanza, risulta più che mai attuale. Ciamician continua a sentirsi profondamente italiano: tanto che nel 1889 rifiuta l’invito di Lieben di ritornare a Vienna per occupare la cattedra di Chimica Generale e dirigere il primo Istituto Chimico di un’università che è tra le più prestigiose (e ricche) d’Europa, dove lavorano persone del calibro di Ernst Mach e di Ludwig Boltzmann. Ma non per questo perde in lucidità o acquista in faziosità. Anzi si rivela un severo critico del nostro Paese, conservando una capacità di proposta che ancora oggi risulta attuale.
Ma giudichi il lettore. «L’industria chimica ha assunto in breve tempo un’importanza considerevole nell’economia delle nazioni più evolute. Il valore commerciale annuo dei prodotti delle industrie chimiche in Germania è salito. In Italia il movimento delle industrie chimiche accenna a un notevole risveglio che speriamo sia foriero d’un fecondo avvenire. Ma per elevarsi a nazione industriale mancano all’Italia ancora molti coefficienti, che dipendono più dagli uomini che dalle cose e però per potere basterebbe volere. Anzitutto vi dovrebbe contribuire l’azione del Governo e del Parlamento. Le nuove industrie sono delicate pianticelle che nel loro primo sviluppo hanno bisogno di assidue cure e magari della serra calda della protezione. Alle industrie chimiche sono poi naturalmente necessari i chimici. Ed è questo per noi un tasto assai doloroso. Non v’ha dubbio che in Germania esse devono la loro attuale floridezza al capitale, che da Liebig in poi è stato investito nelle scuole delle chimica, perché in nessun’altra disciplina il lavoro scientifico e quello industriale stanno in così stretto rapporto. Ora la Germania spende nelle sole università, senza contare i politecnici, in dotazione ai laboratori di chimica annualmente (molti milioni di euro, ndr), cifra che sta in triste contrasto con (gli spiccioli, ndr) assegnati allo stesso scopo dal nostro bilancio dell’istruzione superiore (…). Finalmente anche agli industriali incombono considerevoli oneri, senza di cui ogni progresso diverrebbe impossibile. Il tempo in cui una fabbrica poteva menare fruttuosa esistenza lavorando sulla base di alcune ben sperimentate ricette è finito (…). Le industrie non possono fiorire se abbandonate agli empirici, ci vogliono chimici educati alla ricerca, molti e ben retribuiti. La Germania ne impiega circa 4mila, di cui la maggior parte possiede cultura accademica». Da noi quasi nessuno.
Chi saprebbe, oggi, elaborare una migliore analisi del successo dell’industria tedesca e dei problemi dell’industria italiana? Chi saprebbe indicare meglio non solo l’obiettivo da raggiungere, l’economia sostenibile, ma anche il metodo per farlo?
(Domenica 19 agosto Pietro Greco ha scritto il ritratto del fisico Bruno Pontecorvo, domenica 26 quello di Giuseppe Levi, maestro di tre Nobel)
S.M.
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