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IN ATTESA DEL 24 APRILE di Arslan e Cafulli
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Articoli sul genocidio degli armeni sul quotidiano Avvenire
Vi proponiamo l'editoriale di Antonia Arslan e un lungo articolo a cura di Giuseppe Caffulli, tutti e due pubblicati il 7 aprile nell'inserto culturale Agorà del quotidiano Avvenire.
Antonia Arslan
http://www.fileden.com/files/2012/6/12/3315339/avvenire_p150704Arslan.pdf
In attesa del 24 aprile sul genocidio degli armeni ancora troppi silenzi
Giuseppe Caffulli
menia. Ai piedi dell'Ararat l'arca del "grande crimine" http://www.fileden.com/files/2012/6/12/3315339/avvenire_p160704Caffulli.pdf
http://www.fileden.com/files/2012/6/12/3315339/avvenire_p150704Arslan.pdf
Editoriale
IN ATTESA DEL 24 APRILE
SUL GENOCIDIO DEGLI ARMENI
ANCORA TROPPI SILENZI
di Antonia Arslan
i arrivano tutti insieme, alcuni giorni fa, l’invito a un convegno a Istanbul, un interessante articolo di Harut Sassounian, noto giornalista del California Courier di Los Angeles, e una commovente corrispondenza dalla remota città di Diyarbakir nell’est dell’Anatolia, città armena oggi abitata in prevalenza da curdi.
Sassounian riferisce dell’incontro dei più importanti studiosi del genocidio armeno, che si sono riuniti a Yerevan per coordinare una serie di iniziative sull’argomento, che si stanno programmando in tutto il mondo. Gulisor Akkum, giornalista turca, da Diyarbakir racconta la festa di Pasqua, come è stata festeggiata
nella magnifica chiesa di Surp Giraghos, appena restaurata col contributo fondamentale del sindaco curdo della città: nelle sue foto appaiono gente sorridente vestita a festa - armeni e turchi insieme - cestini pieni di uova colorate e delle tipiche focacce pasquali, in un’atmosfera di rilassata serenità. Ma ancora più
importante è il convegno. Per tre giorni, all’inizio di novembre, si confronteranno a Istanbul studiosi da tutto il mondo, fra cui molti turchi (professori delle principali università del paese, giornalisti, attivisti dei diritti civili), sullo scottante e finora quasi ignoto argomento degli armeni islamizzati.
Fra le conseguenze del genocidio, questa è una dimensione ignorata fino a pochi anni fa, quando il famoso libro dell’avvocata turca Fethiye Cetin (traduzione italiana: Heranush mia nonna, Alet Edizioni) rivelò a tutto il mondo la triste storia delle bambine rapite dalle carovane dei deportati, alle quali fu salvata la vita, ma rapita la famiglia, la lingua, l’identità. In seguito al successo di quest’opera, senza più vergognarsi del loro sangue, in tutto il paese i discendenti cominciarono a parlare. E non hanno più smesso. Il motivo di tutto questo fervore di iniziative non è difficile da decifrare. Ci stiamo avvicinando alla "Giornata della memoria" armena, il 24 aprile, la data in cui avvenne nel 1915 il famoso rastrellamento notturno dei capi della comunità armena di Costantinopoli, deportati verso il sud ed eliminati praticamente tutti lungo la strada, un gruppo alla volta.
Quest’anno si celebra il novantottesimo anniversario: ma la cosa più importante è che si avvicina il centesimo. Tutti gli armeni, sia quelli sparsi in diaspora per il vasto mondo, sia quelli che abitano nella piccola repubblica indipendente nel Caucaso, aspettano con ansia quel momento, e lo caricano di grandi aspettative. Farà finalmente la Turchia quell’atto di contrizione che da tanto tempo si attende? Aprirà finalmente quei polverosi armadi dove da quasi cent’anni giacciono privi di riconoscimento e di pacificazione gli scheletri di più di un milione di innocenti esseri umani, polverizzati nel primo genocidio del ventesimo secolo? Comincia davvero ad apparire qualche crepa nel liscio, opaco muro di cemento di quel negazionismo di stato che è la posizione politica ufficiale dell’establishment governativo di Turchia? Difficile rispondere. In ogni nazione dove sono approdati dopo la tragedia gli armeni aspettano. A volte sembrano indifferenti, o distratti, ma nel loro cuore profondo aspettano.
Miti e fantasticanti come sono, e pur bene inseriti nei loro paesi d’adozione, i figli, i nipoti, tutti i discendenti dei sopravvissuti continuano a sperare che l’antica ferita si rimargini, cessi di provocare un dolore inestinguibile, proprio perché irriso e negato. La "petizione di scuse"
che alcuni intellettuali turchi lanciarono su internet del 2008, e che fu firmata in pochi giorni da oltre quarantamila persone, suscitò molte speranze, ma venne brutalmente cancellata, e i firmatari furono intimiditi e minacciati di essere sottoposti a processo.
I funerali del giornalista Hrant Dink, turco appartenente alla esigua minoranza armena, nel gennaio 2007, furono seguiti da un’immensa folla che inalberava cartelli con scritte come "Siamo tutti armeni" o "Siamo tutti Hrant Dink", cosa inaudita in Turchia: le fotografie fecero il giro del mondo. Ma poi lentamente tutto si insabbia. La memoria è cosa volatile, e va spesso rinfrescata; le informazioni vanno ripetute, chiarite, aggiornate. E io mi domando se l’approccio migliore, più utile, verso cui rivolgere ogni sforzo ed energia, oggi non sia tanto l’ottenere il riconoscimento che il genocidio è realmente avvenuto dai governi e dalle autorità, quanto piuttosto dalla conoscenza diffusa di quei terribili eventi, nelle scuole, nelle università, nelle associazioni culturali, su internet, attraverso tutte le grandiose possibilità che oggi offre il cosiddetto "villaggio globale".
© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Giuseppe Caffulli
Armenia. Ai piedi dell'Ararat l'arca del "grande crimine"
http://www.fileden.com/files/2012/6/12/3315339/avvenire_p160704Caffulli.pdf
2 AGORÀDOMENICA DOMENICA
7 APRILE 2013
FRONTIERE Il 24 aprile, come ogni anno, migliaia di pellegrini, figli di sopravvissuti, risalgono i fianchi della Collina delle Rondini per pregare presso il Memoriale del Genocidio, visitare il Giardino dei Giusti e testimoniare al mondo che non si può ancora ignorare ciò che la storia ha reso così evidente alla Collina delle rondini (Dzidzernagapert, in lingua armena) lo sguardo abbraccia tutta la conca di Yerevan. A nordovest l’imponente statua della Mayr Hayastan svetta tra il verde del Parco della Vittoria, dominato fino alla fine degli anni Sessanta dalla mole, ugualmente monumentale, dell’effigie di Stalin. A sud, spesso incappucciato da una pesante e lattigginosa coltre di nubi, si erge l’enorme mole dell’Ararat, con le sue nevi perenni e gli oltre 5 mila metri d’altezza. Sulla spianata che conduce al Memoriale del Genocidio, costruito nel 1967 e dominato da una appuntita stele alta 42 metri, si attardano gruppi di giapponesi alla ricerca di una foto in favore di luce. Tra le pesanti lastre di basalto che si aprono a corolla, 12 come le province perdute dell’Armenia Occidentale, arde il fuoco della memoria, a perenne ricordo delle vittime del massacro perpetrato all’inizio del Novecento dall’esercito dei Giovani Turchi. Una tragedia immane, costata la vita ad almeno un milione e mezzo di armeni, periti spesso di stenti, malattia o sfinimento nel tentativo disperato della fuga. Ogni anno, il 24 aprile, alla Collina delle rondini, oltre agli armeni di Yerevan e delle province della Repubblica d’Armenia (che conta oggi 3 milioni d’abitanti in un territorio poco più grande
della Sicilia), salgono in pellegrinaggio alcuni dei sopravvissuti e migliaia di loro figli provenienti da ogni angolo del globo, dove oggi si trova disperso parte D di questo popolo antico e fiero dopo il Medz Yeghern, il "grande crimine". In questa ricorrenza (il 24 aprile 1915, 500 armeni vennero incarcerati e poi eliminati a Istanbul), la base circolare che cinge il braciere del Memoriale del Genocidio si ricopre di migliaia di fiori: garofani bianchi e rossi, rose, o anche semplici fiori di campo. Gruppi di visitatori, mentre il sole di mezzogiorno scalda il nero della pietra, si inoltrano nel Giardino dei giusti, dove ogni albero ricorda il sacrificio di chi si è saputo opporre alla follia del genocidio, denunciando i massacri o mettendo in pericolo la propria vita per salvare quella degli armeni.
oco lontano sorge il Muro della memoria, dove vengono tumulate le ceneri (o la terra tombale) di
coloro che hanno lottato contro il Medz Yeghern. Jeff è arrivato fin qui dagli Stati Uniti, insieme alla moglie. È figlio di una sopravvissuta al genocidio, scampata alla morte dopo essere riparata in Siria. E poi da qui a Parigi e infine nel Nuovo Mondo, nel tentativo di rifarsi una vita.
«Ma senza mai dimenticare», spiega Jeff, che ha insegnato la lingua e l’alfabeto armeno ai figli e anche qualche parola d’italiano per comunicare con i parenti che vivono a Venezia. La memoria di ciò che è stato, la conoscenza delle sue cause e la necessità che l’umanità sappia fare fronte comune contro l’aberrazione
del male, è il filo conduttore del Museo del Genocidio, inaugurato nel 1995. Vi si raccolgono documenti e fotografie P (agghiaccianti) delle "marce della morte", mappe e testimonianze legate alla pagina più cupa della storia armena. Il museo è stato scavato nel sottosuolo della Collina, quasi a consegnare alla terra il dolore che racchiude. Nella prima sala, la mappa dell’Anatolia e del Vicino Oriente dove erano presenti le comunità armene prima del genocidio. E poi fotografie di uomini, donne e bambini che potrebbero essere
state prese ad Auschwitz, documenti di un orrore per molto tempo negato o taciuto. «Basta fare una visita a queste sale, guardare le immagini, leggere i documenti, per rendersi conto che ogni posizione negazionista è insostenibile», spiega Hakob Gorginyan, studi in Italia in Storia della Chiesa e consulente del
ministero del Turismo armeno.
«Solitamente, i turchi organizzavano le deportazioni di massa trasferendo i loro prigionieri in località piuttosto remote. Una delle destinazioni principali fu la regione siriana di Deir al-Zor. Qui intere famiglie armene furono ammassate e lasciate morire di stenti. In terra siriana vennero anche spediti migliaia di giovani ragazze e ragazzi armeni. Alcuni riuscirono a scampare alla morte perché venduti come piccoli schiavi a facoltose famiglie arabe. Molte delle pagine e degli episodi che hanno spinto il governo dei Giovani Turchi a intraprendere la strada della cancellazione di un’intera minoranza sono ancora sconosciute. Ancora oggi, quella del genocidio armeno, è una storia scomoda». Nel piccolo bookshop che si
trova all’interno del museo, sono in bella vista, tradotte nelle varie lingue, testi sull’argomento.
na gentile signora sta illustrando a un gruppo di turisti anglofoni il panorama editoriale: «Di fondamentale importanza c’è il libro di Henry Morgenthau, al tempo ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia(il Diario è ora disponibile anche in italiano, edito da Guerini, ndr).
Morgenthau fu testimone di quello che stava accadendo e si adoperò per salvare il popolo armeno». C’è poi un libro di Jean Varoujean Gureghian edito in Francia che, dice con cipiglio un visitatore dallo spiccato accento transalpino «è probabilmente il volume più documentato sul genocidio. Un lavoro di decenni, fatto
incrociando dati, registrando le testimonianze dei sopravvissuti e consultando i documenti del patriarcato
di Istanbul». Come è possibile, di fronte a un lavoro sempre più approfondito da parte degli storici, che il riconoscimento del genocidio armeno sia ancora per molti un tabù? In Turchia solo di recente e tra enormi difficoltà e resistenze, si sta iniziando a toccare l’argomento. Nel settembre 2008 un gruppo di intellettuali turchi ha lanciato su Internet una petizione (L’appel au pardon) che ha raccolto più di 30 mila firme, prima che il sito fosse bloccato dalle autorità di Ankara. A oggi solo una ventina di Paesi hanno riconosciuto ufficialmente il genocidio armeno, tra cui Francia, Italia e Russia. Ma dal 2010 giace nei cassetti della Casa Bianca una mozione del Congresso che chiede al presidente Usa il riconoscimento ufficiale del Medz Yeghern. «Finora, però – argomenta ancora Hakob – non se ne è fatto nulla.
Obama, come gli altri prima di lui, si è limitato a parlare di "massacri"». Gli Usa hanno truppe in tutto il Medio Oriente. Possono correre il rischio di dover rinunciare alle basi militari turche di Mersin o di Iskenderun?
© RIPRODUZIONE RISERVATA
U
anniversario di Metz Yeghern porta con se anche la memoria dei Giusti che si sono adoperati per il popolo
armeno. Tra le personalità ricordate nel Giardino dei Giusti per gli armeni, spicca quella di Henry Morgenthau, avvocato di origine ebraica, naturalizzato americano, dal 1913 ambasciatore degli Stati Uniti
nell’Impero Ottomano. A lui, nel 1918, si deve la pubblicazione di documenti e rapporti sul massacro degli armeni. Nel mondo francofono ha un posto privilegiato l’umanista Anatole France, che fin dall’inizio delNovecento si impegnò in un’opera di denuncia della politica ottomana contro il popolo armeno. In ambito arabo-musulmano si segnala la figura di Fayez el-Ghossein, avvocato siriano formatosi a Istanbul. Nelle sue memorie, pubblicate nel 1916, si da ampio riscontro del massacro degli armeni. Tra i Giusti ha, per gli armeni, un posto particolare l’alessandrino Giacomo Gorrini. Dal 1911 al 1915 fu console italiano a
Trebisonda e testimone oculare della deportazione e dei massacri degli armeni. Rientrato in Italia, denunciò
pubblicamente nel 1915 il massacro.
Nel 1940 pubblicò un documentato scritto sulla questione armena dal titolo Testimonianze, con il quale si
propose di rompere il silenzio calato sul genocidio del popolo armeno. I profili dei Giusti sono reperibili sul sito www.gariwo.net Giuseppe Caffulli
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L’
UNA VEDUTA DEL MEMORIALE DEL GENOCIDIO, COSTRUITO NEL 1967
GORRINI, IL CONSOLE CHE DENUNCIÒ IL MASSACRO
olte delle pagine e degli episodi che hanno spinto il governo dei Giovani Turchi, fra il 1915 e il 1916, a intraprendere la strada della cancellazione di un’intera minoranza restano una storia scomoda.
In Turchia solo di recente, e fra molte difficoltà, si è iniziato a toccare l’argomento e nel mondo sono meno
di venti i Paesi che hanno riconosciuto il «Medz Yeghern» da Yerevan Giuseppe Caffulli
UNA SALA DEL MUSEO DEL GENOCIDIO A YEREVAN: INAUGURATO NEL 1995, DOCUMENTA LE VARIE FASI DEL «GRANDE MALE»
V.V
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