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4 _ Ap_ 2014 _ Esplora il significato del termine: Nagorno Karabakh, alcune precisazioniNagorno Karabakh, alcune precisazioni dell'ambasciatore Armeno.
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http://www.corriere.it/esteri/14_aprile_04/nagorno-karabakh-alcune-precisazioni-09354dde-bbf9-11e3-a4c0-ded3705759de.shtml
Esplora il significato del termine: Nagorno Karabakh,
alcune precisazionidi Sargis Ghazaryan, Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia 2 ARMENIA
shadow
Egregio Direttore,
giudico positivamente l’attenzione del Suo giornale alle dinamiche del conflitto del Nagorno-Karabakh attraverso l’articolo di Federica Seneghini «Nagorno -Kharabakh, lo Stato che non c’è», pubblicato il 2 aprile 2014 sul sito del Corriere della Sera.
D’altro canto però non posso che dimostrare la mia perplessità su alcune parti dell’articolo che sembrano riprese dalla comunicazione ufficiale del regime azero, regime che, notoriamente, attua un controllo capillare sulla totalità dell’informazione e dei media azeri. Come riportato da prestigiosi e indipendenti indici internazionali, il regime azero è tra i più liberticidi e autoritari al mondo e il presidente azero Ilham Aliyev, dopo aver ereditato il potere dal padre, è giunto al terzo mandato presidenziale consecutivo con l’85% dei voti.
Mi chiedo perciò, è mancato il doveroso approfondimento giornalistico dei fatti o è pura parzialità? Sono portato a credere al primo.
La contesa alla base del conflitto è stata, per tutta la dominazione sovietica, il negato esercizio del diritto all’autodeterminazione della popolazione armena del Nagorno-Karabakh dall’Azerbaijan, a quei tempi Repubblica Socialista Sovietica.
Non emergono, e me ne duole, dalle parole di Federica Seneghini le cause che hanno portato allo scontro politico prima e a quello armato poi.
Si trattava, allora come oggi, di ribellione a un sopruso che nel 1921, su iniziativa di Iosif Stalin, all’epoca Commissario per le Nazionalità, annetteva la regione, storicamente armena (lo testimonia Erodoto nel V secolo a.C.) e a maggioranza armena, come enclave all’Azerbaijan con tutte le conseguenti discriminazioni di Baku nei confronti degli armeni nel Nagorno-Karabakh.
Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, incoraggiati dalla relativa libertà di espressione introdotta da glasnost e perestrojka in Unione Sovietica, gli armeni del Nagorno-Karabakh ribadirono il loro diritto all’autodeterminazione (si veda la Carta delle Nazioni Unite) con un referendum per l’indipendenza svoltosi regolarmente il 10 dicembre del 1991, secondo le modalità sancite dalle leggi vigenti e dalla costituzione dell’Urss.
Al referendum seguì una vera e propria invasione militare da parte dell’Azerbaijan contro il Nagorno-Karabakh. Per più di un anno la popolazione civile di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, fu sotto il fuoco diretto di missili Grad e sottoposta a bombardamenti con bombe a grappolo dall’aviazione azera. Il ruolo dell’Armenia nella fase armata del conflitto, in mancanza di forze internazionali di interposizione, era quello di protezione dei civili nonché di assistenza umanitaria, economica e diplomatica; invece, nelle operazioni militari erano coinvolte le forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh. Il 5 maggio del 1994 fu firmato l’accordo di Bishkek, ma non, come riporta Federica Seneghini, dall’Armenia (cristiana) e dall’Azerbaijan (musulmano) (il conflitto non è mai stato di natura religiosa) ma da tre parti: l’Armenia, l’Azerbaijan e la Repubblica del Nagorno Karabakh.
Per quel che riguarda i fatti di Khojaly, vorrei far notare all’autrice dell’articolo che è inaccettabile quanto asserito da alcuni organismi che non erano presenti sul posto durante gli eventi, che «la strage fu commessa dalle forze armate armene». Inaccettabile innanzitutto perché l’attribuzione della responsabilità è stata ormai superata, sulla base di prove fattuali, da una moltitudine di fonti azere e da quei pochi giornalisti occidentali attivi in Caucaso agli inizi degli anni novanta.
Inaccettabile poi per la palese e molto discutibile manipolazione di questi stessi fatti da parte del regime azero. È ampiamente noto agli esperti del conflitto che il comune di Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad delle forze armate azere che bombardavano la popolazione civile armena. Alcune settimane prima del 25 febbraio 1992, il comando delle forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh cominciò a informare via radio le autorità militari e la popolazione civile azere sull’imminenza di una azione militare armena tesa a neutralizzare i lanciarazzi azeri posti all’interno di Khojaly
e sulla presenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili.
Come riportato da fonti azere (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 31), Salman Abbasov, un abitante di Khojaly, dice: «Alcuni giorni prima della tragedia, gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono».
Nella stessa fonte (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 16), Elman Mamedov, all’epoca sindaco di Khojaly, dichiara: «Alle 20.30 del 25 febbraio fummo informati che i mezzi militari armeni erano in posizione di combattimento nelle vicinanze della città.
Informammo tutti via radio. Io chiesi elicotteri per evacuare anziani, donne e bambini. L’aiuto non arrivò mai…». Illuminante è anche la testimonianza di Ramiz Fataliev, Presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly: «Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly».
Da questa dichiarazione risulta più che evidente l’utilizzo criminale dei civili azeri come scudo per i lanciarazzi da parte delle stesse autorità azere. Si parla insomma della cosiddetta shield policy che, mi preme ricordare, è una netta violazione del diritto umanitario internazionale (Protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali - Protocollo Aggiuntivo (I), Ginevra, 8 giugno 1977 - Art. 51).
Inoltre, nella sua intervista alla Nezavisimaya Gazeta del 2 aprile 1992, il deposto Presidente azero Mutalibov affermò: «Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili». Nei dintorni di Agdam (a molti chilometri di distanza dal teatro delle operazioni) erano dislocate le formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero.
Sempre Mutalibov, in un’intervista alla rivista «Novoye Vremia» del 6 marzo 2001 ribadisce: «Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan», alludendo così al Fronte Popolare Azero le cui truppe erano di stanza nei pressi di Khojaly, quelle stesse truppe che, alcuni giorni dopo i fatti di Khojaly, organizzarono il golpe a Baku. E dichiarazioni e valutazioni di questo tipo sugli eventi di Khojaly sono state fatte da diverse personalità azere e da giornalisti.
Come discendente di sopravvissuti del genocidio armeno, non posso che dichiarare il mio più profondo ribrezzo per la manipolazione di fatti così tragici a livello umanitario che il regime di Baku ha architettato e continua ad architettare. Il regime Aliyev ha confezionato una «verità» armenofoba e finora i dissidenti azeri che hanno contestato tale «verità» sui fatti di Khojaly sono stati arrestati o uccisi. Tutto questo, in aggiunta all’uso dei civili come scudo, rende le responsabilità criminali azere ancora più evidenti.
Negli ultimi sette anni, secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) la spesa militare azera è aumentata del 2.500 %, dati questi comparabili con il riarmo della Germania nazista negli anni trenta. Tale circostanza, combinata con frequenti violazioni dell’accordo di tregua firmato nel 1994, con dichiarazioni palesemente guerrafondaie dalle più alte istanze dello Stato azero, dagli ambasciatori al Presidente, e con una campagna armenofoba nelle scuole azere promossa dallo Stato, è certamente l’ostacolo maggiore per il successo del negoziato mediato dal Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia).
Alcuni giorni fa, in occasione della festa del Novruz, come riportato da Radio Free Europe il 20 marzo 2014, il Presidente Aliyev nel suo discorso al popolo azero ha dichiarato: «L’Armenia è uno stato fascista creato su terre storicamente azere e l’Azerbaijan, forte del suo potenziale economico e militare, riconquisterà il Nagorno Karabakh, i territori occupati e tutte le terre storicamente azere». Sono parole anacronistiche, che rimandano agli anni bui del Novecento quelli tra le due guerre mondiali e che ad alcuni possono sembrare ridicole. Purtroppo per il processo di pace, sono parole gravissime nell’attuale contesto di instabilità e precarietà del sistema di sicurezza internazionale, parole espresse da colui che dovrebbe essere la nostra controparte negoziale per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh.
Federica Seneghini poi scrive anche che «il cessate il fuoco è spesso violato da entrambe le parti» e che «i negoziati ormai da anni sono in un vicolo cieco».
L’Azerbaijan si rifiuta di negoziare direttamente con il governo democraticamente eletto del Nagorno-Karabakh e rimanda al mittente le proposte OSCE sul ritiro dei cecchini dalla linea di contatto e sulla messa a punto di un meccanismo congiunto per indagini sulle violazioni del regime di tregua. L’Armenia invece è determinata ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto, soluzione che escluda alla base l’utilizzo dello strumento militare per la composizione finale. Posizione questa condivisa dalla comunità internazionale e richiesta alle parti in conflitto. La posizione del governo armeno è allineata con le dichiarazioni (facilmente rintracciabili in rete) dei capi di stato dei paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia) adottate ai vertici G8 dell’Aquila, Muskoka, Deauville, Enniskillen e del G20 di Los Cabos nell’accettare come base negoziale i principi di Madrid che richiedono compromessi alle parti (Armenia, Azerbaijan e Repubblica del Nagorno-Karabakh) ma sintetizzano anche le aspirazioni e le aspettative della popolazione civile armena e azera.
Mi rendo pienamente conto che è difficile raccontare a distanza l’evoluzione del conflitto e le prospettive di pace ma soprattutto l’esercizio del diritto di autodeterminazione dei popoli che in modo così singolare avviene da più di vent’anni in Nagorno-Karabakh, Artsakh, attraverso processi politici pluralistici e istituzioni democratiche. Questa è la migliore prova di esistenza dello Stato che è la Repubblica del Nagorno-Karabakh e la risposta a coloro che lo giudicano uno «Stato che non c’è».
L’augurio è che si crei una nuova coscienza nella classe politica azera e che questa possa finalmente condividere quanto scrisse Andrej Sacharov nel 1975 per il discorso di consegna del Premio Nobel per la Pace: «La pace, il progresso, i diritti umani, sono indissolubilmente collegati: è impossibile raggiungerne uno se gli altri sono trascurati».
4 aprile 2014 | 15:15
© RIPRODUZIONE RISERVATA Nagorno Karabakh,
alcune precisazioni
di Sargis Ghazaryan, Ambasciatore della Repubblica d’Armenia in Italia
2 ARMENIA
Egregio Direttore,
giudico positivamente l’attenzione del Suo giornale alle dinamiche del conflitto del Nagorno-Karabakh attraverso l’articolo di Federica Seneghini «Nagorno -Kharabakh, lo Stato che non c’è», pubblicato il 2 aprile 2014 sul sito del Corriere della Sera.
D’altro canto però non posso che dimostrare la mia perplessità su alcune parti dell’articolo che sembrano riprese dalla comunicazione ufficiale del regime azero, regime che, notoriamente, attua un controllo capillare sulla totalità dell’informazione e dei media azeri. Come riportato da prestigiosi e indipendenti indici internazionali, il regime azero è tra i più liberticidi e autoritari al mondo e il presidente azero Ilham Aliyev, dopo aver ereditato il potere dal padre, è giunto al terzo mandato presidenziale consecutivo con l’85% dei voti. Mi chiedo perciò, è mancato il doveroso approfondimento giornalistico dei fatti o è pura parzialità? Sono portato a credere al primo.
La contesa alla base del conflitto è stata, per tutta la dominazione sovietica, il negato esercizio del diritto all’autodeterminazione della popolazione armena del Nagorno-Karabakh dall’Azerbaijan, a quei tempi Repubblica Socialista Sovietica.
Non emergono, e me ne duole, dalle parole di Federica Seneghini le cause che hanno portato allo scontro politico prima e a quello armato poi.
Si trattava, allora come oggi, di ribellione a un sopruso che nel 1921, su iniziativa di Iosif Stalin, all’epoca Commissario per le Nazionalità, annetteva la regione, storicamente armena (lo testimonia Erodoto nel V secolo a.C.) e a maggioranza armena, come enclave all’Azerbaijan con tutte le conseguenti discriminazioni di Baku nei confronti degli armeni nel Nagorno-Karabakh. Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, incoraggiati dalla relativa libertà di espressione introdotta da glasnost e perestrojka in Unione Sovietica, gli armeni del Nagorno-Karabakh ribadirono il loro diritto all’autodeterminazione (si veda la Carta delle Nazioni Unite) con un referendum per l’indipendenza svoltosi regolarmente il 10 dicembre del 1991, secondo le modalità sancite dalle leggi vigenti e dalla costituzione dell’Urss.
Al referendum seguì una vera e propria invasione militare da parte dell’Azerbaijan contro il Nagorno-Karabakh. Per più di un anno la popolazione civile di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, fu sotto il fuoco diretto di missili Grad e sottoposta a bombardamenti con bombe a grappolo dall’aviazione azera. Il ruolo dell’Armenia nella fase armata del conflitto, in mancanza di forze internazionali di interposizione, era quello di protezione dei civili nonché di assistenza umanitaria, economica e diplomatica; invece, nelle operazioni militari erano coinvolte le forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh. Il 5 maggio del 1994 fu firmato l’accordo di Bishkek, ma non, come riporta Federica Seneghini, dall’Armenia (cristiana) e dall’Azerbaijan (musulmano) (il conflitto non è mai stato di natura religiosa) ma da tre parti: l’Armenia, l’Azerbaijan e la Repubblica del Nagorno Karabakh.
Per quel che riguarda i fatti di Khojaly, vorrei far notare all’autrice dell’articolo che è inaccettabile quanto asserito da alcuni organismi che non erano presenti sul posto durante gli eventi, che «la strage fu commessa dalle forze armate armene».
Inaccettabile innanzitutto perché l’attribuzione della responsabilità è stata ormai superata, sulla base di prove fattuali, da una moltitudine di fonti azere e da quei pochi giornalisti occidentali attivi in Caucaso agli inizi degli anni novanta. Inaccettabile poi per la palese e molto discutibile manipolazione di questi stessi fatti da parte del regime azero.
È ampiamente noto agli esperti del conflitto che il comune di Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad delle forze armate azere che bombardavano la popolazione civile armena. Alcune settimane prima del 25 febbraio 1992, il comando delle forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh cominciò a informare via radio le autorità militari e la popolazione civile azere sull’imminenza di una azione militare armena tesa a neutralizzare i lanciarazzi azeri posti all’interno di Khojaly e sulla presenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili. Come riportato da fonti azere (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 31), Salman Abbasov, un abitante di Khojaly, dice: «Alcuni giorni prima della tragedia, gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono». Nella stessa fonte (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 16), Elman Mamedov, all’epoca sindaco di Khojaly, dichiara: «Alle 20.30 del 25 febbraio fummo informati che i mezzi militari armeni erano in posizione di combattimento nelle vicinanze della città. Informammo tutti via radio. Io chiesi elicotteri per evacuare anziani, donne e bambini. L’aiuto non arrivò mai…». Illuminante è anche la testimonianza di Ramiz Fataliev, Presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly: «Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly». Da questa dichiarazione risulta più che evidente l’utilizzo criminale dei civili azeri come scudo per i lanciarazzi da parte delle stesse autorità azere. Si parla insomma della cosiddetta shield policy che, mi preme ricordare, è una netta violazione del diritto umanitario internazionale (Protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali - Protocollo Aggiuntivo (I), Ginevra, 8 giugno 1977 - Art. 51). Inoltre, nella sua intervista alla Nezavisimaya Gazeta del 2 aprile 1992, il deposto Presidente azero Mutalibov affermò: «Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili». Nei dintorni di Agdam (a molti chilometri di distanza dal teatro delle operazioni) erano dislocate le formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero.
Sempre Mutalibov, in un’intervista alla rivista «Novoye Vremia» del 6 marzo 2001 ribadisce: «Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan», alludendo così al Fronte Popolare Azero le cui truppe erano di stanza nei pressi di Khojaly, quelle stesse truppe che, alcuni giorni dopo i fatti di Khojaly, organizzarono il golpe a Baku. E dichiarazioni e valutazioni di questo tipo sugli eventi di Khojaly sono state fatte da diverse personalità azere e da giornalisti.
Come discendente di sopravvissuti del genocidio armeno, non posso che dichiarare il mio più profondo ribrezzo per la manipolazione di fatti così tragici a livello umanitario che il regime di Baku ha architettato e continua ad architettare. Il regime Aliyev ha confezionato una «verità» armenofoba e finora i dissidenti azeri che hanno contestato tale «verità» sui fatti di Khojaly sono stati arrestati o uccisi. Tutto questo, in aggiunta all’uso dei civili come scudo, rende le responsabilità criminali azere ancora più evidenti.
Negli ultimi sette anni, secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) la spesa militare azera è aumentata del 2.500 %, dati questi comparabili con il riarmo della Germania nazista negli anni trenta. Tale circostanza, combinata con frequenti violazioni dell’accordo di tregua firmato nel 1994, con dichiarazioni palesemente guerrafondaie dalle più alte istanze dello Stato azero, dagli ambasciatori al Presidente, e con una campagna armenofoba nelle scuole azere promossa dallo Stato, è certamente l’ostacolo maggiore per il successo del negoziato mediato dal Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia).
Alcuni giorni fa, in occasione della festa del Novruz, come riportato da Radio Free Europe il 20 marzo 2014, il Presidente Aliyev nel suo discorso al popolo azero ha dichiarato: «L’Armenia è uno stato fascista creato su terre storicamente azere e l’Azerbaijan, forte del suo potenziale economico e militare, riconquisterà il Nagorno Karabakh, i territori occupati e tutte le terre storicamente azere». Sono parole anacronistiche, che rimandano agli anni bui del Novecento quelli tra le due guerre mondiali e che ad alcuni possono sembrare ridicole. Purtroppo per il processo di pace, sono parole gravissime nell’attuale contesto di instabilità e precarietà del sistema di sicurezza internazionale, parole espresse da colui che dovrebbe essere la nostra controparte negoziale per la soluzione pacifica del conflitto in Nagorno Karabakh.
Federica Seneghini poi scrive anche che «il cessate il fuoco è spesso violato da entrambe le parti» e che «i negoziati ormai da anni sono in un vicolo cieco».
L’Azerbaijan si rifiuta di negoziare direttamente con il governo democraticamente eletto del Nagorno-Karabakh e rimanda al mittente le proposte OSCE sul ritiro dei cecchini dalla linea di contatto e sulla messa a punto di un meccanismo congiunto per indagini sulle violazioni del regime di tregua.
L’Armenia invece è determinata ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto, soluzione che escluda alla base l’utilizzo dello strumento militare per la composizione finale. Posizione questa condivisa dalla comunità internazionale e richiesta alle parti in conflitto. La posizione del governo armeno è allineata con le dichiarazioni (facilmente rintracciabili in rete) dei capi di stato dei paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia) adottate ai vertici G8 dell’Aquila, Muskoka, Deauville, Enniskillen e del G20 di Los Cabos nell’accettare come base negoziale i principi di Madrid che richiedono compromessi alle parti (Armenia, Azerbaijan e Repubblica del Nagorno-Karabakh) ma sintetizzano anche le aspirazioni e le aspettative della popolazione civile armena e azera.
Mi rendo pienamente conto che è difficile raccontare a distanza l’evoluzione del conflitto e le prospettive di pace ma soprattutto l’esercizio del diritto di autodeterminazione dei popoli che in modo così singolare avviene da più di vent’anni in Nagorno-Karabakh, Artsakh, attraverso processi politici pluralistici e istituzioni democratiche.
Questa è la migliore prova di esistenza dello Stato che è la Repubblica del Nagorno-Karabakh e la risposta a coloro che lo giudicano uno «Stato che non c’è».
L’augurio è che si crei una nuova coscienza nella classe politica azera e che questa possa finalmente condividere quanto scrisse Andrej Sacharov nel 1975 per il discorso di consegna del Premio Nobel per la Pace: «La pace, il progresso, i diritti umani, sono indissolubilmente collegati: è impossibile raggiungerne uno se gli altri sono trascurati».
4 aprile 2014 | 15:15
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v,v
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